Antiper | C’è crisi e crisi
Introduzione agli Incontri di approfondimento teorico (IAT) (1) (2) (3) dedicati alle teorie sulla crisi | Le slides usate nell’incontro introduttivo.
In generale, per “crisi” intendiamo un’alterazione rispetto ad una situazione in precedenza considerata come “normale”: ha dunque poco senso parlare di condizione di crisi “cronica”. Dal cosiddetto “crollo dei mutui subprime” e dal crack di borsa dell’autunno 2008 si è sentito molto parlare di “crisi”. Ma per il momento ci occuperemo solo indirettamente della crisi attuale mentre invece focalizzeremo la nostra attenzione sul piano teorico generale.
Si osservi che quando si parla di crisi ci si riferisce alla crisi del capitale (crisi di vendite, crisi di profitti, crack di borsa…); non ci riferisce certo alle conseguenze del funzionamento del modo di produzione capitalistico sui lavoratori. Miliardi di persone nel mondo soffrono la fame ogni giorno: ma questa non è “crisi” (e infatti, in fondo, è la normalità).
“Secondo una statistica, ancora agli inizi di questo secolo, le spiegazioni che gli economisti borghesi fornivano delle ragioni delle crisi industriali erano già più di 230” (Xu He, Trattato di economia politica, Vol 2, pag. 570)
Qui non si tratta di addentrarci nei meandri di ogni spiegazione o variazione di spiegazione sulla crisi (come spesso accade in ambito accademico dove il dibattito si svolge tra gente che non si ascolta e alla quale, in definitiva, non interessa neppure essere ascoltata, se non dal proprio specifico e specialistico uditorio di colleghi e studenti).
Qui siamo – e vogliamo restare – nell’ambito del rapporto dialettico tra teoria e prassi, nell’ambito di una teoria che non si limita a tentare di spiegare il mondo ma cerca invece testardamente di trasformarlo. E per incamminarci su questa strada non abbiamo bisogno di esaminare 230 diverse teorie sulla crisi.
Le posizioni sulla crisi spaziano dalla sua negazione al suo riconoscimento, dal fatto che ci sia troppo credito facile al fatto che ci sia troppo poco credito, dal fatto che ci sia troppo capitale investito al fatto che ce ne sia troppo poco (troppo risparmio, Keynes), dal fatto che i salari siano troppo alti (profit squeeze, padroni) al fatto che siano troppo bassi (sottoconsumisti), e così via teorizzando…
A volte, come dopo il crack del 2008, si presenta di fronte a noi una pletora di spiegazioni che potrebbe essere definita “effetto John Belushi”: troppe spiegazioni ovvero nessuna spiegazione
“Non ti ho tradito, dico sul serio, ero rimasto senza benzina, avevo una gomma a terra, non avevo i soldi per predere il taxi, la tintoria non mi aveva portato il tight, c’era il funerale di mia madre, era crollata la casa, c’è stato un terremoto, una tremenda inondazione, le cavallette, non è stata colpa mia, lo giuro su Dio…” (Jake – John Belushi, The Blues Brothers)
Come ci è stata raccontata l’esplosione della “crisi finanziaria” del 2008? Come una serie di spiegazioni, una più improbabile dell’altra.
Il primo difetto principale della maggior parte delle teorie sulla crisi sta proprio nell’approccio, ovvero nella pretesa di estrapolare un particolare (e magari anche reale) fenomeno connesso alla crisi e trasformarlo nella “pietra angolare” di tutta la teoria. Gli esempi che si possono fare sono tantissimi. Forse più di 230… Osservo che prima della crisi in genere ci sono alti salari? Dunque, sono gli alti salari che determinano la crisi. Osservo che la crisi si manifesta prima in ambito finanziario? Dunque, la crisi finanziaria è causa e non effetto della crisi economica (“la crisi finanziaria si estende all’economia reale” ecc)…
Anche il secondo difetto principale è un difetto di approccio. Anzi, per meglio dire è un difetto “ideologico” (Marx, a differenza della tradizione successiva, attribuisce al concetto di ideologia una connotazione negativa, come di “falsa coscienza” della realtà). Il “difetto ideologico” è quello, da un lato, di voler giustificare a tutti i costi la “necessità storica” (la razionalità, come l’avrebbe definita Hegel) del modo di produzione capitalistico e, dall’altro, quello di vedere crolli ad ogni pie’ sospinto.
In questo modo la realtà viene “piegata” alle idee (ai propri desideri, alle proprie convinzioni); si adotta così un approccio idealistico piuttosto che un approccio storico-materialistico il quale costituisce, come vedremo, la vera grande “innovazione teorica” di Marx. Le altre, pur importanti, discendono da questa.
Ecco perché, a differenza di quanto sostengono alcuni (cfr Louis Althusser ed Etienne Balibar in Leggere il Capitale) è sostanzialmente arbitrario impostare “rotture epistemologiche” tra il “giovane Marx” e il Marx della maturità (ovvero il Marx del Capitale) in quanto l’approccio del Marx “maturo” costituisce precisamente l’evoluzione del metodo storico-materialistico costruito dal Marx “giovane”.
C’è persino chi afferma che nei temi, oltre che nel linguaggio, il Capitale sia un’opera dalle caratteristiche marcatamente hegeliane. Lo stesso Lenin ebbe a sostenere
“Non si può comprendere appieno il Capitale di Marx, e in particolare il suo primo capitolo, se non si è studiata attentamente e capita tutta la Logica di Hegel”.
Non solo in termini di sviluppo fisico, ma anche in termini di sviluppo intellettuale e teorico non ci sarebbe stato alcun “Marx del Capitale” se non ci fosse stato il “Marx dell’Ideologia Tedesca” o il “Marx dei Manoscritti economico-filosofici del 1844”.
L’approccio storico-materialistico è ciò che fa la differenza tra la teoria di Marx – che vedremo in un prossimo incontro di approfondimento – e quasi tutte le teorie della crisi non marxiste; le teorie di cui, qui, delineeremo i tratti salienti.
Proviamo a classificare le teorie sul modo di produzione capitalistico e sulla crisi. Per farlo dobbiamo scegliere un criterio di valutazione. Di criteri possono essercene molti. Uno dei più classici è quello di classificare le teorie sul modo di produzione capitalistico e sulla crisi in base al rapporto con lo Stato.
Seguendo questo criterio, da una parte stanno le teorie che stabiliscono il primato del mercato sullo Stato (come – si presume – l’economia classica e soprattutto quella neo-classica) mentre dall’altra stanno le teorie che considerano fondamentale il ruolo dello Stato (come per Keynes o Marx).
Questa classificazione rischia di essere fuorviante (e forse non a caso è stata diffusa in modo così vasto). Sia perché non si basa affatto su elementi reali (il ruolo concreto dello Stato non viene infatti minimamente diminuito dalle chiacchiere teoriche sullo Stato), sia perché divide il mondo delle teorie economiche in modo “trasversale” occultando il carattere di classe di ciascuna di esse. Ne vengono fuori strani “arruolamenti” come quello di Lord Keynes nella squadra dei “progressisti” – in quanto “statalisti” – laddove il nostro sosteneva la necessaria azione dello Stato semplicemente per meglio far funzionare il modo di produzione capitalistico e non certo per meglio far stare coloro che egli chiamava i “rozzi proletari”.
Il dibattito contro il neo-liberismo da parte degli anti-neo-liberisti (di cui tratteremo in un testo di prossima pubblicazione e nel quarto Incontro di Approfondimento Torico) ne costituisce un palese esempio.
In questo incontro useremo come guida un breve saggio piuttosto noto nel mondo anglosassone, un mondo particolarmente attento alle questioni teoriche (probabilmente perché spesso poco impegnato nell’attività politica militante): An Introduction to the History of Crisis Theories di Anwar Shaikh.