Giulia Iacometti | Unità di produzione e riproduzione
Tratto da Etica e politica nell’Antropocene (a partire dal contributo di Jason W. Moore), Tesi di laurea in filosofia, Pisa, 2018, PDF, 72 pagine.
Come già visto, un elemento di critica all’approccio della “frattura metabolica” risiede nel fatto che essa suggerisce un pericolo incombente di catastrofe con relativa distruzione generalizzata. Jason Moore, invece, sembra dire che esiste un “nesso di produzione e riproduzione”
“l’umanità “può soltanto operare come la natura stessa: cioè […] modificando le forme dei materiali” (Marx 1994 I, 75). Tale modalità di analisi fornisce strumenti analitici – non solo morali – alle denunce ormai ritualizzate della distruzione del capitalismo, della degradazione e della distruzione della natura” [1]
L’umanità-nella-natura non può mai essere completamente distruttiva perché deve agire sempre anche in una dimensione riproduttiva (delle condizioni della produzione), sia pure una riproduzione che ha anche tratti distruttivi (della natura); ogni estrazione di petrolio che va ad alimentare la riproduzione capitalistica è innegabilmente anche una distruzione/consumo di natura/petrolio.
“il problema non è la frattura metabolica, ma il cambiamento metabolico” [2]
Quello che Moore non condivide del modo in cui oggi viene declinata la teoria della frattura metabolica è il carattere di “immodificabilità”. Marx parla di frattura “irreparabile” nel ricambio organico naturale e i sostenitori della teoria della “frattura metabolica” deducono che il ricambio è finito, punto e basta. Moore invece sembra convinto che se il ricambio organico naturale è irreparabilmente spezzato questo non significa che esso non si possa modificare in un ricambio organico artificiale (che peraltro lo stesso Moore sembra considerare sempre più inadeguato).
C’è un altro elemento interessante sottolineato da Moore
“la riproduzione allargata dei rapporti di valore richiede sempre nuove frontiere di nature non (ancora) capitalizzate, cioè dei “quattro fattori a buon mercato” (forza-lavoro, cibo, energia, materie prime); […] queste frontiere non sono date, bensì attivamente costruite attraverso prassi simboliche e trasformazioni materiali” [3]
Da un lato Moore sembra echeggiare – parlando di “nuove” frontiere “non (ancora) capitalizzate” – la critica polanyiana alla progressiva sottomissione dei beni (già) comuni alla logica del mercato. Ed effettivamente, nel corso della storia, il capitalismo ha sottomesso gradualmente alla propria logica ogni ambito della vita e dunque sembra difficile immaginare dove poter scovare nuovi ambiti da sottomettere, nuove “frontiere”. Ma, come osserva Moore, le frontiere del capitale possono anche non essere date, bensì costruite. Se servono materie prime a basso costo, se serve forza-lavoro a basso costo che sia disposta ad accettare qualsiasi sacrificio come una “manna”, cosa c’è di meglio di una vasta “distruzione di capitale” (cfr. Marx, III libro de Il Capitale) come quella che si realizza attraverso una crisi capitalistica o anche attraverso una guerra che può diventare l’efficace veicolo di nuovo sviluppo economico (per il lato che distrugge più che per quello che viene distrutto). Non è detto che le “nuove” frontiere siano poi così nuove come suggerisce Moore; è tuttavia interessante osservare che proprio crisi e guerre che sembrano essere espressione del fallimento del mercato capitalistico siano invece, dialetticamente, fonti della sua rigenerazione.
Note
[1] J. W. Moore, Ecologia-mondo e crisi del capitalismo, pag. 146.
[2] J. W. Moore, Ecologia-mondo e crisi del capitalismo, pag. 146.
[3] J. W. Moore, Antropocene o Capitalocene?, pag. 75.