Alain Badiou | La Rivoluzione culturale
Tratto da Alain Badiou, Pietrogrado, Shangai. Le due rivoluzioni del XX secolo, Mimesis, 2023, Titolo originale: Petrograd, Shanghai, La Fabrique Éditions, 2018. Traduzione italiana di Linda Valle.
1. Perché?
Perché parlare della “Rivoluzione culturale” – il nome ufficiale di un lungo periodo di gravi disordini nella Cina comunista tra il 1965 e il 1976? Per almeno tre motivi.
Primo motivo. La Rivoluzione culturale è stata un riferimento costante e vivo per l’azione militante in tutto il mondo, e in particolare in Francia, almeno tra il 1967 e il 1976. Fa parte della nostra storia politica, ha fondato l’esistenza della corrente maoista, l’unica vera creazione degli anni Sessanta e Settanta. Posso dire “noi”, io c’ero e in un certo senso, per citare Rimbaud, “sono qui, sono sempre qui”. Nell’instancabile inventiva dei rivoluzionari cinesi, ogni genere di traiettoria soggettiva e pratica ha trovato la sua nominazione. Già cambiare la soggettività, vivere in modo diverso, pensare in modo diverso, i cinesi – e poi noi – lo chiamavano “rivoluzionamento”. Dicevano: “cambiare l’uomo in ciò che ha di più profondo”. Ci hanno insegnato che nella pratica politica bisogna essere sia “l’arciere che il bersaglio”, poiché la vecchia visione del mondo è ancora molto presente in noi. Alla fine degli anni Sessanta siamo andati ovunque, nelle fabbriche, nelle case popolari, nelle campagne. Decine di migliaia di studenti diventavano proletari o vivevano in ostelli operai. Anche per questo c’erano le parole della Rivoluzione culturale: “grandi scambi di esperienze”, “servire il popolo” e, ancora fondamentale, “legame di massa”. Combattevamo contro la brutale inerzia del Partito comunista francese, il suo violento conservatorismo. Anche in Cina veniva attaccato il burocratismo del Partito, per cui si utilizzava l’espressione “lotta al revisionismo”. Anche le scissioni, gli scontri tra rivoluzionari di diverso orientamento, si dicevano alla cinese: “stanare la banda nera”, sbarazzarsi di coloro che “sembrano di sinistra e in realtà sono di destra”. Quando arrivavamo in una situazione politica popolare, uno sciopero in fabbrica o un confronto con gli amministratori fascisti degli alloggi, sapevamo che dovevamo “eccellere nello scoprire la sinistra proletaria, radunare il centro, isolare e schiacciare la destra”. Il “libretto rosso” di Mao è stato la nostra guida, non certo, come dicono gli sciocchi, per una catechizzazione dogmatica, ma, al contrario, per illuminarci e inventare nuove strade in situazioni disparate che prima ci erano sconosciute. A questo proposito, non essendo tra coloro che giustificano il loro abbandono e la loro adesione alla reazione consolidata con riferimenti alla psicologia delle illusioni o alla morale dei fraintendimenti, posso solo citare le mie fonti e rendere omaggio ai rivoluzionari cinesi.
Secondo motivo. La Rivoluzione culturale è l’esempio tipico (altra nozione maoista, l’esempio tipico: un reperto rivoluzionario che deve essere generalizzato) di un’esperienza politica che satura la forma del partito-stato. Uso la categoria di “saturazione” nel senso datole all’epoca da Sylvain Lazarus: cercherò di dimostrare che la Rivoluzione culturale è l’ultima sequenza politica significativa ancora interna al partito-stato (in questo caso, al Partito comunista cinese), e che lì fallisce. Il maggio ’68 e le sue conseguenze sono già un’altra cosa. Il movimento polacco o il Chiapas sono un’altra cosa. Ma senza la saturazione degli anni Sessanta e Settanta, non ci sarebbe ancora nulla di pensabile al di fuori dello spettro del partito- o dei partiti-stato.
Terzo motivo. La Rivoluzione culturale è una grande lezione sull’eterno tema della storia e della politica; sulla storia pensata a partire dalla politica (e non viceversa). A seconda che si esamini questa “rivoluzione” (la parola stessa è al centro della saturazione) secondo la storiografia dominante o secondo una vera e propria questione politica, si arriva a discordanze impressionanti. L’importante è vedere che la natura di questa discrepanza non è nel registro empirico o positivista dell’esattezza e dell’inesattezza. Possiamo essere d’accordo sui fatti e arrivare a giudizi perfettamente opposti. È proprio questo paradosso che servirà da introduzione.
2. Narrazioni
La versione storiografica dominante è stata sviluppata da diversi specialisti, in particolare sinologi, già negli anni Sessanta e da allora non è cambiata. Si è consolidata in quanto versione ufficiale di uno Stato cinese dominato dal 1976 dai sopravvissuti e dai revanscisti della Rivoluzione culturale, guidati da Deng Xiaoping e, naturalmente, dai suoi successori, tutti favorevoli alla restaurazione del capitalismo.
Cosa dice questa versione? Che la rivoluzione è stata in realtà una lotta per il potere ai vertici della burocrazia del partito-stato. Che il volontarismo economico di Mao, incarnato nello slogan del “grande balzo in avanti”, è stato un completo fallimento al punto da provocare il ritorno della carestia nelle campagne. Che a seguito di questo fallimento, Mao era in minoranza negli organi direttivi del Partito e che un gruppo “pragmatico” – le cui figure dominanti erano Liu Shaoqi (all’epoca nominato presidente della Repubblica), Deng Xiaoping (segretario generale del Partito) e Peng Zhen (sindaco di Pechino) – impose la sua legge. Che Mao tentò, già nel 1963, di attuare una controffensiva, ma che fallì negli organi regolari del Partito. Che allora ricorse a forze estranee al Partito, sia esterne (le Guardie Rosse studentesche) sia esterne/interne, soprattutto l’esercito, di cui prese il controllo dopo l’eliminazione di Peng Dehuai e la sua sostituzione con Lin Piao. Che allora si creò, e solamente per la volontà di Mao di riprendere il potere, una situazione caotica e sanguinosa, senza che mai, fino alla morte del colpevole (nel 1976), si arrivasse a una stabilizzazione.
Si può concordare sul fatto che in senso stretto non c’è niente di inesatto in questa versione. Ma allo stesso tempo in questa versione non c’è niente che riesca ad assumere il vero significato che solo la comprensione politica degli episodi può conferirle, la loro concentrazione in un pensiero ancora oggi attivo.
Prima osservazione: nessuna stabilizzazione? Certamente. Ma questo perché si è rivelato impossibile dispiegare la novità politica nel quadro del partito-stato. Né la massima libertà creativa delle masse studentesche e operaie (tra il ’66 e il ’68), né il controllo ideologico e statale dell’esercito (tra il ’68 e il ’71), né la soluzione frammentaria delle questioni in un ufficio politico in cui si scontravano tendenze antagoniste (tra il ’72 e il ’76) hanno permesso alle idee rivoluzionarie di prendere piede e a una situazione politica completamente nuova, del tutto distaccata dal modello sovietico, di emergere finalmente su scala globale.
Seconda osservazione: il ricorso a forze esterne? Sì, certo. Ma questo ricorso era un tentativo di ottenere, e ha avuto come effetto, nel breve e medio termine, e forse ancora oggi, una parziale disintegrazione del Partito e dello Stato. Si trattava di distruggere il formalismo burocratico, almeno nella durata di un movimento gigantesco. Il fatto che nello stesso tempo sia stata provocata l’anarchia delle fazioni indica una questione politica essenziale dei tempi a venire: qual è la base dell’unità di una politica se non è garantita direttamente dall’unità formale dello Stato?
Terza osservazione: una lotta per il potere? Ovviamente. È piuttosto ridicolo opporla alla “rivoluzione”, poiché, appunto, “rivoluzione” può significare solo l’articolazione di forze politiche antagoniste sulla questione del potere. Per inciso, i maoisti hanno costantemente citato Lenin, per il quale la questione della rivoluzione è esplicitamente quella del potere. Il vero problema, molto complesso, è sapere se la Rivoluzione culturale non metta fine alla concezione rivoluzionaria del rapporto tra politica e Stato. Questa è stata infatti la sua grande questione, il suo dibattito centrale e violento.
Quarta osservazione: il “Grande balzo in avanti”, un crudele fallimento? Sì, sotto molti aspetti. Ma questo fallimento è il risultato di un esame critico della dottrina economica di Stalin. Non è affatto il risultato di un trattamento uniforme dei temi dello sviluppo rurale da parte del “totalitarismo”. Mao esaminò severamente (molti appunti scritti lo testimoniano) la concezione staliniana della collettivizzazione e il suo insondabile disprezzo per i contadini. La sua idea non era affatto quella di collettivizzare in modo violento e forzato, per garantire a tutti i costi l’accumulazione nelle città. Al contrario, la sua idea era di industrializzare le campagne sul posto, di dar loro una relativa autonomia economica, in modo da evitare la proletarizzazione selvaggia e l’urbanizzazione che in URSS assunse l’aspetto di una catastrofe. In realtà, Mao seguiva l’idea comunista di un’effettiva risoluzione della contraddizione tra città e campagna, e non quella di una violenta cancellazione delle campagne a vantaggio delle città. Se c’è un fallimento, è di natura politica, ed è un fallimento completamente diverso da quello di Stalin.
In definitiva, occorre constatare che la stessa descrizione astratta delle cose non porta allo stesso pensiero se opera secondo assiomi politici diversi.
3. Date
La disputa è altrettanto evidente quando si parla di date. La visione dominante, che è anche quella dello Stato cinese, è che la Rivoluzione culturale sia durata dieci anni, dal 1966 al 1976, dalle Guardie rosse alla morte di Mao. Dieci anni di tumulti, dieci anni persi per uno sviluppo razionale. Lo Stato cinese, che ha intrapreso la restaurazione del capitalismo subito dopo la morte di Mao, si riferisce alla Rivoluzione culturale come ai “dieci anni perduti”.
In effetti, se si ragiona dal punto di vista rigoroso della storia dello Stato cinese, questa datazione può essere difesa con i seguenti criteri: stabilità civile, produzione, una certa unità alla guida delle amministrazioni, la coesione dell’esercito, ecc. Ma questo non è il mio assioma e questi non sono i miei criteri. Se esaminiamo la questione delle date dal punto di vista della politica, dell’invenzione politica, il criterio principale diventa: quando possiamo dire che esistono creazioni collettive di pensiero, di tipo politico? Quando la pratica e le parole d’ordine sono in eccesso verificabile rispetto alla tradizione e al funzionamento del partito-stato cinese? Quando emergono affermazioni di valore universale? Allora i limiti del processo chiamato “Grande Rivoluzione culturale proletaria”, che tra di noi chiamavamo “GRCP”, si pongono in modo molto diverso.
Per quanto mi riguarda, propongo di dire che la Rivoluzione culturale, così concepita, forma una sequenza che va dal novembre 1965 al luglio 1968. Potrei anche ammettere (si tratta di una discussione di tecnica politica) una drastica restrizione, che collocherebbe il momento rivoluzionario vero e proprio tra il maggio 1966 e il settembre 1967. Il criterio è l’esistenza di un’attività politica di massa, delle sue parole d’ordine, delle sue nuove organizzazioni, dei suoi luoghi propri. In questo senso, c’è una “rivoluzione” perché ci sono le Guardie rosse, i ribelli operai rivoluzionari, innumerevoli organizzazioni e “quartieri generali”, situazioni del tutto imprevedibili, nuove dichiarazioni politiche, testi inediti, ecc.
4. Ipotesi
Come procedere affinché questo gigantesco terremoto sia esposto alla riflessione e abbia un senso oggi? Formulerò un’ipotesi e la sperimenterò su varie dimensioni, fattuali o testuali, della sequenza di cui parlo (cioè la Cina tra il novembre 1965 e il luglio 1968).
L’ipotesi è la seguente. Siamo nelle condizioni di una divisione essenziale del partito-stato (il Partito comunista cinese, al potere dal 1949). Una divisione essenziale, poiché riguarda questioni cruciali per il futuro del Paese: l’economia e il rapporto tra città e campagna; la possibile trasformazione dell’esercito; l’esito della guerra di Corea; gli intellettuali, le università, l’arte e la letteratura, e infine il valore del modello sovietico, o stalinista. Ma è essenziale anche e soprattutto perché la corrente minoritaria tra i quadri del Partito è allo stesso tempo guidata, o rappresentata, da colui la cui legittimazione storica e popolare è maggiore, ovvero Mao Tse-tung. Esiste un formidabile fenomeno di non coincidenza tra la storicità del Partito (il lungo periodo della guerra popolare, contro i giapponesi e poi contro Chiang Kai-shek) e lo stato attuale della sua attività come spina dorsale del potere statale. Del resto, durante la Rivoluzione culturale, soprattutto nell’esercito, il periodo di Yenan è stato costantemente invocato come modello di soggettività politica comunista.
Questo fenomeno ha le seguenti conseguenze: il confronto di posizioni non riesce a essere normalizzato dalle regole del formalismo burocratico. Ma non riesce nemmeno a essere normalizzato dai metodi di epurazione terroristica utilizzati da Stalin negli anni Trenta. Nello spazio del partito-stato c’è solo formalismo o terrore. Mao e il suo gruppo dovranno inventare un terzo ricorso, il ricorso alla mobilitazione politica di massa, per cercare di piegare i rappresentanti della corrente maggioritaria, e in particolare i loro leader nelle alte sfere del Partito e dello Stato. Questo ricorso presuppone l’ammissione di forme incontrollate di rivolta e di organizzazione. Il gruppo di Mao, dopo molte esitazioni, imporrà di fatto la loro ammissione, prima nelle università, poi nelle fabbriche. Ma cercherà anche, in modo contraddittorio, di portare tutte le innovazioni organizzative della rivoluzione nello spazio generale del partito-stato.
Qui siamo al cuore dell’ipotesi: la Rivoluzione culturale è lo sviluppo storico di una contraddizione. Da un lato, si tratta di rilanciare l’azione rivoluzionaria di massa ai margini dello Stato della dittatura del proletariato, oppure di riconoscere, nel gergo teorico dell’epoca, che sebbene lo Stato sia formalmente uno Stato “proletario”, la lotta di classe continua, anche nelle forme della rivolta di massa. Mao e i suoi seguaci arriverebbero a dire che nel socialismo la borghesia si ricostituisce e si organizza nello stesso partito comunista. D’altra parte, poiché la guerra civile propriamente detta, cioè la divisione dell’esercito regolare, rimane esclusa, la forma generale del rapporto tra Partito e Stato, soprattutto per quanto riguarda le forze repressive, deve rimanere invariata, almeno nel senso che non si tratta di distruggere realmente il Partito. Ciò sarà reso noto dall’affermazione di Mao secondo cui “la stragrande maggioranza dei quadri è buona”.
Questa contraddizione porterà allo stesso tempo a successivi eccessi dell’autorità del Partito attraverso rivolte locali, alla violenta anarchia di questi eccessi, all’inevitabilità di un riordino molto brutale e infine all’ingresso decisivo dell’esercito.
Gli eccessi successivi definiscono la cronologia (le tappe) della Rivoluzione culturale. Il gruppo dirigente rivoluzionario cercò dapprima di mantenere la rivolta nell’ambito delle unità educative. Questo tentativo fallì già nell’agosto del 1966, quando le Guardie rosse si disperdono nella città. Allora si trattava di mantenere la rivolta nell’ambito dei movimenti studenteschi. Ma dalla fine del 1966, e soprattutto dal gennaio 1967, gli operai divennero la forza principale del movimento. Si tentò poi di tenere a bada il partito e le amministrazioni statali, che però sarebbero state in subbuglio dal 1967 in poi attraverso il movimento di “presa del potere”. Infine, l’esercito doveva essere mantenuto come potenza di riserva a tutti i costi, come ultima risorsa. Anche questo sarà quasi impossibile, con l’esplosione di violenza registrata nell’agosto del 1967 a Wuhan e a Canton. D’altronde, è proprio in vista di un rischio reale di scissione delle forze armate che nel settembre del 1967 inizia il lento movimento di inversione repressiva.
Mettiamola così: le invenzioni politiche che hanno dato alla sequenza il suo innegabile fascino rivoluzionario non potevano che dispiegarsi come eccessi rispetto all’obiettivo loro assegnato da coloro che gli stessi attori della rivoluzione (la gioventù e i suoi innumerevoli gruppi, i ribelli operai, ecc.) consideravano i loro leader naturali: Mao e il suo gruppo minoritario. Di conseguenza, queste invenzioni erano sempre localizzate e singolari, e non potevano diventare proposte strategiche e riproducibili. In definitiva, il significato strategico (o la portata universale) di queste invenzioni era negativo. Poiché ciò che portavano con sé, e che è stato vividamente anticipato nella coscienza militante di tutto il mondo, non era altro che la fine del partito-stato come produzione centrale dell’attività politica rivoluzionaria. Più in generale, la Rivoluzione culturale ha dimostrato che non era più possibile ricondurre né le azioni rivoluzionarie di massa né i fenomeni organizzativi alla stretta logica della rappresentanza di classe. Per questo motivo rimane un episodio politico della massima importanza.
5. Campi sperimentali
Vorrei testare l’ipotesi di cui sopra su sette referenti selezionati, in ordine cronologico.
1. La circolare in sedici punti dell’agosto 1966, che forse è in gran parte opera di Mao, e che in ogni caso è il documento centrale più innovativo, quello che rompe con il formalismo burocratico dei partiti-stato. Ad essa dedico il quarto capitolo di questo libro.
2. Le Guardie rosse e la società cinese (il periodo che va dall’agosto 1966 fino almeno all’agosto 1967). Un’esplorazione, senza dubbio, dei limiti della capacità politica di studenti liceali e universitari più o meno abbandonati a se stessi, in qualsiasi circostanza.
3. I “ribelli rivoluzionari operai” e la Comune di Shanghai (gennaio/febbraio 1967), episodio cruciale e incompiuto, perché propone una forma di potere alternativa al centralismo del Partito.
4. Le “prese di potere”: “grande alleanza”, “triplice unione” e “comitati rivoluzionari”, dal gennaio 1967 alla primavera del 1968. La questione è se il movimento crea davvero nuove organizzazioni o se mira solo a una rigenerazione del Partito.
5. L’incidente di Wuhan (luglio 1967). È il momento culminante del movimento, l’esercito rischia la divisione, l’estrema sinistra aumenta il suo vantaggio, ma soccomberà.
6. L’ingresso dei lavoratori nelle università (fine luglio 1968), che è in realtà l’episodio finale dell’esistenza di organizzazioni studentesche indipendenti.
7. Il culto della personalità di Mao. Questa caratteristica è stata così spesso oggetto del sarcasmo occidentale che alla fine ci siamo dimenticati di chiederci quale potesse essere il suo significato, e in particolare il suo significato nella Rivoluzione culturale, dove il suddetto “culto” è servito da bandiera non per i conservatori del Partito, ma per i ribelli studenteschi e operai, e anche, per un certo periodo, nella confusione, per i loro avversari nelle masse stesse.
6. La “Decisione in sedici punti”
Questo testo è stato adottato da una sessione del Comitato centrale l’8 agosto 1966. Mette in scena, con una certa genialità, la contraddizione fondamentale dell’impresa chiamata “Rivoluzione culturale”. Uno dei segni di questa messa in scena è che non spiega, o quasi, il nome (“culturale”) della sequenza politica in corso. Tranne che per l’enigmatica e metafisica prima frase: “La rivoluzione culturale mira a cambiare l’uomo nel suo essere più profondo”. In questo senso, “culturale” equivale a “ideologico”, in un senso particolarmente radicale.
Per un’analisi dettagliata si veda il capitolo 4.
7. Le Guardie rosse e la società cinese
A partire dalla primavera del 1966, il fenomeno delle “Guardie rosse”, organizzazioni di giovani scolarizzati, assunse una portata straordinaria. Sappiamo dei giganteschi raduni di piazza Tienanmen, che si susseguirono per tutta la fine del 1966, e dove Mao, in silenzio, si mostrò a centinaia di migliaia di giovani uomini e donne. Ma la cosa più importante è che le organizzazioni rivoluzionarie si riversano nelle città, utilizzando camion prestati dall’esercito, e poi in tutto il Paese, beneficiando del trasporto gratuito sui treni sotto il nome di “scambio di esperienze”.
È certo che questa è la forza d’urto dell’estensione del movimento a tutta la Cina. C’è una libertà sorprendente in questo movimento, le tendenze si scontrano alla luce del sole, i giornali, i volantini, gli striscioni, gli infiniti manifesti murali, moltiplicando ogni tipo di rivelazione e dichiarazione politica. Le feroci caricature risparmiano poche persone (nell’agosto 1967, la messa in discussione di Zhou Enlai su grandi manifesti murali installati di notte fu una delle cause della caduta della cosiddetta tendenza di “ultrasinistra”). Cortei con gong, tamburi e proclami infuocati circolavano fino a notte fonda.
D’altro canto, la tendenza alla militarizzazione, l’azione incontrollata dei gruppi d’assalto, è apparsa molto presto. La parola d’ordine generale è quella della lotta rivoluzionaria contro le vecchie idee e i vecchi costumi (è questo che dà contenuto all’aggettivo “culturale”, che in cinese significa “appartenente alla civiltà”, e nel vecchio gergo marxista “appartenente alla sovrastruttura”). Molti gruppi hanno un’interpretazione distruttiva e violenta, persino persecutoria, di questa parola d’ordine. La caccia alle donne che portano le trecce, agli intellettuali letterati, agli insegnanti esitanti, a tutti i “quadri” che non praticano la stessa fraseologia di questo o quel gruppo, il saccheggio di biblioteche o musei, l’insopportabile arroganza dei piccoli leader rivoluzionari nei confronti della massa degli indecisi, tutto questo provocherà presto nella gente comune una vera e propria repulsione nei confronti dell’ala estremista delle Guardie rosse.
In sostanza, il problema era già stato sollevato nella circolare del 16 maggio 1966, il primo atto pubblico di ribellione di Mao contro la maggioranza del Comitato centrale. Questa circolare afferma chiaramente che bisogna sostenere che “senza distruzione non ci può essere costruzione”. Stigmatizza i conservatori, che sostengono uno spirito “costruttivo” per opporsi a qualsiasi distruzione delle loro basi di potere. Ma è difficile trovare un equilibrio tra l’ovvietà della distruzione e la natura lenta e tortuosa della costruzione.
La verità è che, armate dell’unica parola d’ordine di “lotta del nuovo contro il vecchio”, molte Guardie rosse cedono a una tendenza ben nota (negativa) delle rivoluzioni: l’iconoclastia, la persecuzione delle persone per motivi futili, una sorta di presunta barbarie. È anche un’inclinazione della gioventù abbandonata a se stessa. Tanto più che in realtà questi giovani sono divisi. Non si sottolineerà mai abbastanza che le prime violenze delle cosiddette “guardie rosse” sono state opera di organizzazioni studentesche conservatrici, composte in gran parte da giovani privilegiati che difendevano l’idea che solo i figli dei quadri del Partito o dello Stato sono davvero “rossi”.
La conclusione è che qualsiasi organizzazione politica deve essere transgenerazionale e che organizzare la separazione politica dei giovani è una cosa negativa.
Certo, le Guardie rosse non hanno inventato il radicalismo anti intellettuale dello spirito rivoluzionario. Quando il chimico Lavoisier fu condannato a morte durante la Rivoluzione francese, il pubblico ministero Fouquier-Tinville fece questa notevole osservazione: “La Repubblica non ha bisogno di scienziati”. Una vera rivoluzione crede di creare tutto ciò di cui ha bisogno, e noi dobbiamo rispettare questo assolutismo creativo. Da questo punto di vista, la Rivoluzione culturale è stata una vera rivoluzione. Sulla questione della scienza e della tecnologia, il motto di base era che ciò che conta è essere “rossi” e non “esperti”. O, nella versione “moderata”, quella che sarebbe diventata ufficiale: bisogna essere “rossi ed esperti”, ma innanzitutto rossi.
Ciò che aggravava notevolmente la barbarie di certi gruppi d’urto rivoluzionari, tuttavia, era che non esisteva uno spazio politico complessivo per l’affermazione politica, per la creazione positiva del nuovo, a livello dell’azione giovanile. I compiti di critica, di distruzione, avevano un’ovvietà che quelli di invenzione avevano meno in quanto rimanevano sospesi dalle lotte implacabili che si svolgevano ai vertici dello Stato.
8. La Comune di Shanghai
La fine del 1966 e l’inizio del 1967 rappresentano un punto culminante della Rivoluzione culturale: l’entrata in scena massiccia e decisiva dei lavoratori delle fabbriche. Shanghai ha svolto un ruolo di primo piano in questo momento culminante.
È importante vedere il paradosso di questa entrata in scena di quella che è ufficialmente la “classe dirigente” dello Stato cinese. Viene, se così si può dire, da destra. Nel dicembre del 1966, sono stati i burocrati locali, la leadership conservatrice del partito e della municipalità, a usare una clientela operaia – in particolare i sindacalisti – contro il movimento maoista delle Guardie rosse. Proprio come in Francia nel maggio ’68 e negli anni successivi, il Partito comunista francese cercò di utilizzare la vecchia guardia della Confederazione generale del lavoro contro gli studenti rivoluzionari legati ai giovani lavoratori. Approfittando di una situazione mutevole, i bonzi del Partito e della municipalità di Shanghai hanno lanciato ai lavoratori ogni sorta di rivendicazione settoriale di tipo puramente economico, opponendosi a qualsiasi intervento dei giovani rivoluzionari nelle fabbriche e nelle amministrazioni (proprio come nel maggio ’68 il Partito comunista francese sbarrava le fabbriche con picchetti al suo soldo e dava ovunque la caccia ai “sinistrorsi”). Questi movimenti sindacalizzati, condotti con maleducazione, sono su larga scala, soprattutto gli scioperi dei trasporti e dell’energia, che mirano a diffondere un’atmosfera di caos, in modo che i bonzi del partito potessero presentarsi come i salvatori dell’ordine. Per tutti questi motivi, la minoranza rivoluzionaria sarà costretta a intervenire contro gli scioperi burocratizzati e a opporre all’“economicismo” e alla richiesta di “incentivi materiali” un’austera campagna per il lavoro comunista e, soprattutto, per il primato della coscienza politica globale sulle rivendicazioni particolari. Questo era il terreno del grande slogan sostenuto in particolare da Lin Piao: “Combattere l’egoismo e criticare il revisionismo” (sappiamo che per i maoisti “revisionista” designa la linea di abbandono di ogni dinamica rivoluzionaria seguita dall’URSS, dai partiti comunisti che da essa dipendono e da un gran numero di quadri di partito cinesi).
All’inizio, il gruppo operaio maoista era piuttosto debole. Si parla di 4.000 lavoratori verso la fine del 1966. Si legherà naturalmente alle Guardie rosse e costituirà una minoranza attivista. L’alleanza tra studenti e operai darà luogo, tra le altre notevoli immagini rivoluzionarie, alla riapertura del porto grazie al lavoro incessante degli studenti, che si impegnano così nello slogan comunista dell’abolizione delle gerarchie nel lavoro e in particolare della separazione tra lavoro manuale e intellettuale.
Resta il fatto che il suo raggio d’azione nelle fabbriche non è molto grande, tranne che in alcune imprese la cui gloria sarà offerta come esempio dai rivoluzionari per diversi anni, come la fabbrica di macchine utensili. A mio avviso, è proprio perché l’azione diretta dei lavoratori nelle fabbriche incontra una forte resistenza (la burocrazia è qui molto ben radicata) che gli attivisti maoisti si diffonderanno a livello del potere urbano. Con l’aiuto di alcuni quadri, da tempo schierati con Mao, e di una parte dell’esercito, avrebbero deposto la municipalità e il comitato locale del Partito. Da qui la “presa di potere” che, con il nome di “Comune di Shanghai”, segnò una svolta nella Rivoluzione culturale.
Questa “presa di potere” è subito paradossale. Da un lato, si ispira – come già la circolare in sedici punti – a un contromodello assoluto di partito-stato: la coalizione di organizzazioni eterogenee che costituiva la Comune di Parigi, di cui Marx aveva già criticato l’inefficiente anarchia. D’altra parte, questo contromodello non ha un possibile sviluppo nazionale, nella misura in cui, a livello nazionale, la figura del Partito rimane l’unica accettata, anche se molti dei suoi organi tradizionali sono in crisi. Durante i tumultuosi episodi della rivoluzione, Zhou Enlai è rimasto il garante dell’unità dello Stato e del funzionamento minimo delle amministrazioni. Per quanto ne sappiamo, non fu mai disconosciuto da Mao in questo compito, che lo costrinse a navigare il più vicino possibile anche alle destre (fu lui a rimettere in sella Deng Xiaoping, “il secondo più alto funzionario che, pur essendo membro del Partito, è impegnato sulla via del capitalismo”, secondo la fraseologia della rivoluzione, fin dall’inizio degli anni Settanta). Tuttavia, Zhou Enlai precisò alle Guardie rosse che erano ammessi “scambi di esperienze” in tutto il Paese, ma che non poteva esserci un’organizzazione rivoluzionaria su scala nazionale.
Di conseguenza, la Comune di Shanghai, costituita dopo interminabili discussioni dalle organizzazioni studentesche e operaie locali, non poteva che avere una fragile unità. Anche in questo caso, se il gesto (la “presa del potere” da parte dei rivoluzionari) è fondamentale, il suo spazio politico è troppo ristretto. Il risultato è che l’entrata in scena degli operai è allo stesso tempo un allargamento spettacolare della base di massa rivoluzionaria, un grande e a volte violento banco di prova per le forme di potere burocratizzate, e l’abbozzo senza futuro di una nuova articolazione tra iniziativa politica popolare e potere statale.
9. Le prese di potere
Nei primi mesi del 1967, dopo gli eventi di Shanghai, dove i rivoluzionari rovesciarono la municipalità antimaoista, le “prese di potere” si moltiplicarono in tutto il Paese. Questo movimento presenta un aspetto materiale impressionante: i rivoluzionari, organizzati in gruppetti e gruppi d’urto, soprattutto studenti e operai, invadono edifici amministrativi di ogni tipo, compresi quelli delle municipalità o del Partito, e vi installano, generalmente in una confusione dionisiaca, non senza violenza e distruzione, un nuovo “potere”. Spesso gli ex detentori di questo potere vengono “mostrati alle masse”, una cerimonia non facile. Il burocrate, o presunto tale, indossa un berretto da somaro e un cartello che descrive le sue malefatte, deve chinare la testa e viene preso a calci o peggio. Questi esorcismi sono pratiche rivoluzionarie ben note. È un modo per far sapere alla gente comune che gli ex intoccabili, coloro la cui superbia è stata sofferta in silenzio, vengono ora sottoposti a loro volta all’umiliazione pubblica. Dopo la vittoria del 1949, i comunisti cinesi organizzarono cerimonie di questo tipo in tutte le campagne, per deporre moralmente gli ex proprietari terrieri, i “despoti locali e i malvagi signorotti”, facendo così capire anche all’ultimo dei contadini cinesi, che per millenni non aveva contato nulla, che il mondo aveva “cambiato base” e che ora era considerato il vero padrone del Paese.
Ma va notato che, a partire da febbraio, scompare la parola “comune” – per designare i nuovi poteri locali – , sostituita dall’espressione “comitato rivoluzionario”. Questo cambiamento non è certo insignificante, perché “comitato” è sempre stato il nome degli organi provinciali o municipali del Partito. Avremo così in tutte le province un vasto movimento di costituzione di nuovi “comitati rivoluzionari”, di cui non è ben specificato se raddoppiano, o sostituiscono tout court, i vecchi e temuti “comitati di Partito”.
In realtà, l’ambiguità della denominazione designa il comitato come il prodotto impuro di un conflitto politico. Per i rivoluzionari locali, si tratta di sostituire il Partito con un altro potere politico, dopo la quasi completa eliminazione dei precedenti quadri dirigenti. Per i conservatori, che si difendono a spada tratta, si tratta di rimettere in sella i quadri locali dopo una finta autocritica. Sono incoraggiati in questo dalle ripetute dichiarazioni centrali secondo cui la stragrande maggioranza dei quadri del Partito è buona. Per la leadership nazionale maoista, concentrata nel ristrettissimo “gruppo del Comitato centrale per la Rivoluzione culturale”, una dozzina di persone, si tratta di fissare un obiettivo per le organizzazioni rivoluzionarie (le “prese di potere”) e di incutere un timore duraturo negli oppositori, pur preservando il quadro generale dell’esercizio del potere, che ai loro occhi rimane il partito unico.
Le formule via via proposte favoriranno l’unità. Si parlerà di “triplice unione”, che significa unire nei comitati un terzo dei nuovi rivoluzionari, un terzo degli ex quadri che avevano infine fatto autocritica e un terzo dei militari. Si parlerà anche di una “grande alleanza”, il che significa che a livello locale si chiede alle organizzazioni rivoluzionarie di unirsi tra loro e di interrompere gli scontri (a volte armati). Questa unità implica di fatto una crescente coercizione, anche sui contenuti delle discussioni, e una limitazione sempre più forte del diritto di organizzarsi liberamente intorno a questa o quella iniziativa o convinzione. Ma come fare altrimenti, se non lasciando che le cose vadano alla deriva verso la guerra civile, per poi affidarsi a ciò che accadrà nell’apparato repressivo? Il dibattito avrebbe occupato gran parte del 1967, un anno decisivo sotto tutti i punti di vista.
10. L’incidente di Wuhan
Questo episodio dell’estate del 1967 è particolarmente interessante, perché presenta tutte le contraddizioni di una situazione rivoluzionaria nel momento del suo apogeo, che è naturalmente il momento in cui si annuncia la sua involuzione.
Nel luglio del 1967, con l’appoggio dei conservatori militari, la controrivoluzione dei burocrati domina l’enorme città industriale di Wuhan, che conta non meno di 500.000 operai. Il potere effettivo è detenuto da un ufficiale, Chen Tsai-tao. Due organizzazioni operaie erano ancora in lotta tra loro, e nei mesi di maggio e giugno questi scontri avevano provocato decine di morti. La prima, sostenuta di fatto dall’esercito, legata a quadri locali ed ex sindacalisti, è chiamata “il milione di valorosi”. La seconda, una piccolissima minoranza, chiamata “l’acciaio”, incarna la linea maoista. La leadership centrale, preoccupata per il dominio reazionario della città, aveva inviato in città il Ministro della pubblica sicurezza e noto membro del “Comitato centrale per la Rivoluzione culturale”, Wang Li. Questo Wang Li è molto popolare tra le Guardie rosse per le sue tendenze retoriche “di sinistra”. Aveva già sostenuto la necessità di purificare l’esercito. Gli inviati portano con sé un ordine di Zhou Enlai a sostegno del gruppo ribelle “l’acciaio”, in conformità con la direttiva rivolta ai quadri in generale e ai militari in particolare: “eccellere nel discernere e sostenere la sinistra proletaria nel movimento”. Diciamo subito che Zhou Enlai si è assunto l’arduo compito di arbitrare tra le fazioni, tra le organizzazioni rivoluzionarie rivali, e che, per farlo, riceve giorno e notte i delegati della provincia. È quindi in gran parte responsabile dell’avanzamento della “grande alleanza”, dell’unificazione dei “comitati rivoluzionari” e anche di identificare chi sia “la sinistra proletaria” nelle situazioni concrete, sempre più confuse e violente.
Il giorno del loro arrivo, i delegati del potere centrale organizzano una grande riunione in uno stadio della città insieme alle organizzazioni ribelli. L’esaltazione rivoluzionaria è al culmine.
Tutti gli attori della fase attiva della Rivoluzione sono presenti: i quadri conservatori e la loro notevole capacità di mobilitazione, prima nelle campagne (le milizie delle periferie rurali parteciperanno alla repressione delle Guardie rosse e dei ribelli dopo la svolta del 1968), ma anche tra gli operai e, naturalmente, nell’amministrazione; le organizzazioni ribelli, studentesche e operaie, che contano sul loro attivismo, sul loro coraggio e sull’appoggio del gruppo centrale maoista, per portare a termine la repressione, anche se spesso sono in minoranza; l’esercito, chiamato a scegliere chi sostenere; il potere centrale, che cerca di adattare la sua politica alla situazione. Abbiamo poi appreso, senza conoscere tutti i dettagli, che anche Mao era presente a Wuhan nello stesso momento. Da qui l’importanza cruciale del confronto in questa città.
In alcune città, la situazione che lega tutti questi attori è molto violenta. A Canton, in particolare, gli scontri armati tra organizzazioni rivali sono un fatto quotidiano. L’esercito, a livello locale, ha deciso di lavarsene le mani. Prendendo a pretesto il fatto che la circolare in sedici punti stabilisce che non si deve intervenire nei problemi che sorgono durante il movimento, il capo militare locale chiede solo che prima di uno scontro di strada venga firmata davanti a lui una “dichiarazione di rissa rivoluzionaria”. Era proibito solo l’arrivo di rinforzi. Il risultato è che, anche a Canton, durante l’estate decine di persone muoiono ogni giorno.
In questo contesto, a Wuhan le cose sono andate male. La mattina del 20 luglio, i gruppi d’assalto del “milione di valorosi”, appoggiati da unità dell’esercito, hanno occupato i punti strategici e hanno lanciato una caccia ai ribelli in tutta la città. Hanno attaccato l’hotel dove alloggiavano gli inviati del governo centrale. Un gruppo di soldati ha sequestrato Wang Li e alcune Guardie rosse e li ha picchiati brutalmente. Avevano forse pianificato un colpo di Stato a livello nazionale sequestrando lo stesso Mao, la cui presenza è ormai attestata? Resta il fatto che il “sinistroide” Wang Li viene a sua volta “mostrato alle masse”, con un cartello al collo che lo stigmatizza – ironia della sorte! – come “revisionista”, lui che vede revisionisti ovunque. Il Ministro della sicurezza viene sequestrato nella sua stanza. L’università e le acciaierie, epicentri della tendenza ribelle, sono prese d’assalto da gruppi armati sostenuti dai panzer. Tuttavia, quando la notizia ha cominciato a circolare, altre unità dell’esercito si sono schierate contro i conservatori e il loro leader Chen Tsai-tao. L’organizzazione “acciaio” ha pianificato una controffensiva. Il comitato rivoluzionario viene arrestato. Alcuni soldati riusciranno a liberare Wang Li, che fuggirà dalla città attraverso terreni incolti e cespugli.
Siamo chiaramente sull’orlo della guerra civile. Ci vorrà la freddezza del governo centrale e le forti dichiarazioni di molte unità dell’esercito in tutte le province per cambiare il corso degli eventi.
Quali lezioni si possono trarre per il futuro da questo tipo di episodio? In un primo momento Wang Li, con il volto tumefatto, è stato accolto come un eroe a Pechino. Kiang Tsing, moglie di Mao e grande leader dei ribelli, lo abbraccia calorosamente. Il 25 luglio, viene acclamato da un milione di persone alla presenza di Lin Piao. La corrente di ultrasinistra, che pensava di avere il vento in poppa, chiede una radicale epurazione dell’esercito. È sempre in questo periodo, in agosto, che i manifesti denunciano Zhou Enlai come un uomo di destra.
Ma tutto questo non è che l’apparenza di un istante. È vero che a Wuhan viene imposto il sostegno ai gruppi ribelli e Chen Tsai-tao viene sostituito. Solo due mesi dopo, Wang Li è stato brutalmente eliminato dal gruppo dirigente, non c’è stata una significativa epurazione dell’esercito, l’importanza di Zhou Enlai non farà che aumentare e il riordinamento ha iniziato a essere esercitato contro le Guardie rosse e alcune organizzazioni operaie ribelli.
Questa volta viene evidenziato il ruolo cruciale dell’Esercito popolare come pilastro del partito-stato cinese. Ad esso è stato affidato un ruolo di stabilizzazione nella rivoluzione e gli si chiede di sostenere la sinistra ribelle, ma non è previsto o tollerato che si divida, aprendo così la prospettiva di una guerra civile su larga scala. Chi vuole arrivare a tanto sarà poco a poco eliminato. E l’aver stretto un patto con loro porterà a un tenace sospetto nei confronti della stessa Kiang Tsing, anche, sembra, da parte di Mao. Quest’ultimo le ricorda, in una lettera resa pubblica, che in politica “ciò che conta è il contenuto” e non le personalità, la cui denuncia occupava quasi tutto il campo d’azione dei ribelli.
In questa fase della Rivoluzione culturale, Mao voleva che l’unità prevalesse nelle file dei ribelli, soprattutto tra gli operai, e cominciava a temere i danni della faziosità e dell’arroganza delle Guardie rosse. Nel settembre 1967, dopo un giro delle province, emanò la direttiva “nulla di essenziale divide la classe operaia”, che, per chi sa leggere, significa in primo luogo che ci sono disordini violenti tra le organizzazioni ribelli e conservatrici, e in secondo luogo che è imperativo che questi disordini cessino, che le organizzazioni siano disarmate e che l’apparato repressivo riacquisti il monopolio legale della violenza così come la stabilità politica. A partire dal mese di luglio, pur mostrando il suo abituale spirito di lotta e di ribellione (in questo periodo dice ancora, con visibile piacere, che “tutto il Paese è in lotta” e che “la lotta, anche violenta, è buona; una volta che le contraddizioni appaiono alla luce del sole, è più facile risolverle”), Mao si preoccupa della guerra tra fazioni, dichiara che “quando si fondano i comitati rivoluzionari, i rivoluzionari piccoloborghesi devono essere guidati correttamente”, stigmatizza il sinistrismo, che “è in realtà destrismo”, e soprattutto si spazientisce per il fatto che, da gennaio e dalla presa del potere a Shanghai, “l’ideologia borghese e piccoloborghese che era in pieno sviluppo tra gli intellettuali e i giovani studenti ha rovinato la situazione”.
11. L’ingresso dei lavoratori nelle università
Già nel febbraio del 1968, i conservatori pensavano che fosse giunto il momento della rivincita, dopo l’involuzione del movimento alla fine dell’estate del 1967. Ma Mao e il suo gruppo sono sempre all’erta. Lanciano una campagna di stigmatizzazione della “controcorrente di febbraio” e rinnovano il loro sostegno ai gruppi rivoluzionari e alla costruzione di nuovi organi di potere.
Tuttavia, il mantenimento delle università sotto il giogo di gruppi rivali non era più sostenibile, data la logica generale del ritorno all’ordine e la prospettiva di un congresso del Partito incaricato di fare il punto sulla rivoluzione (di fatto, questo congresso si tenne all’inizio del 1969, confermando il potere di Lin Piao e dei militari). Bisognava dare un esempio, evitando però di schiacciare semplicemente le ultime Guardie rosse, concentrate negli edifici dell’Università di Pechino. La soluzione adottata è straordinaria: migliaia di lavoratori organizzati sono chiamati a insediarsi nelle università, a disarmare le fazioni e ad assumere direttamente la loro autorità. Come dirà in seguito il gruppo dirigente: “la classe operaia deve comandare in tutto”, e “gli operai resteranno nell’università per molto tempo, se non addirittura per sempre”. Questo episodio è uno dei più sorprendenti di tutto il periodo, perché rende visibile la necessità che la forza anarchica e violenta della gioventù riconosca al di sopra di sé un’autorità “di massa”, e non solo, o addirittura principalmente, l’autogoverno istituzionale dei leader riconosciuti. Il momento è ancora più sorprendente e drammatico perché alcuni studenti sparano contro gli operai, ci sono dei morti, e nel processo Mao e tutti i leader dei gruppi maoisti convocano i più noti leader studenteschi, in particolare un certo Kuai Ta-fu, il venerato leader delle Guardie rosse dell’Università di Pechino e conosciuto a livello nazionale. Esiste una trascrizione di questo incontro faccia a faccia tra i giovani e ostinati rivoluzionari e la vecchia guardia. In essa Mao esprime la grave delusione per lo spirito di fazione dei giovani, ma anche un residuo di amicizia politica nei loro confronti e il desiderio di trovare una via d’uscita. È chiaro che, coinvolgendo i lavoratori, Mao voleva evitare che l’intera situazione si trasformasse in un “controllo militare”. Voleva proteggere quelli che erano stati i suoi alleati iniziali, che avevano portato entusiasmo e innovazione politica. Ma Mao è anche un uomo del partito-stato. Vuole il suo rinnovamento, anche se violento, non la sua distruzione. In fondo, sa che sottomettendo l’ultima piazza di giovani ribelli “di sinistra”, liquida l’ultimo margine rimasto per ciò che non coincide con la linea (nel 1968) dei leader riconosciuti della Rivoluzione culturale: una linea di ricostruzione del Partito. Lo sa, ma si rassegna. Perché non ha ipotesi alternative – e nessuno le ha – sull’esistenza dello Stato, e perché il popolo, dopo due anni esaltanti ma molto provanti, vuole, nella sua immensa maggioranza, che lo Stato esista e che faccia conoscere la sua esistenza, se necessario anche con la forza.
12. Il culto della personalità
È noto che il culto di Mao ha assunto forme davvero straordinarie durante la Rivoluzione culturale. Non solo c’erano le gigantografie, il libretto rosso, l’invocazione costante del presidente in ogni circostanza, gli inni al “grande timoniere”, ma soprattutto c’era un’estensione senza precedenti dell’unicità del riferimento, come se gli scritti e i detti di Mao fossero sufficienti in ogni circostanza, anche quando si trattava di coltivare pomodori o di decidere l’uso (o meno) del pianoforte nei concerti sinfonici. È sorprendente che siano stati i gruppi ribelli più violenti, quelli più in contrasto con l’ordine burocratico, a portare avanti questo aspetto delle cose. Sono stati loro in particolare a lanciare la formula dell’“autorità assoluta del pensiero di Mao Tse-tung” e a dichiarare che bisognava sottomettersi a questo pensiero anche quando non lo si capiva. Si tratta, bisogna ammetterlo, di affermazioni semplicemente oscurantiste.
Va aggiunto che, poiché tutte le fazioni e le organizzazioni coinvolte affermano di basarsi sul pensiero di Mao, l’espressione, che è in grado di designare orientamenti totalmente contraddittori, finisce per perdere ogni significato, a parte quello di un uso sovrabbondante di citazioni la cui esegesi è costantemente variabile.
Vorrei fare alcune osservazioni di passaggio. Da un lato, questo tipo di devozione, come il conflitto di esegesi, è abbastanza comune nelle religioni consolidate, compresa la nostra, senza che ciò sia visto come una patologia, anzi – i grandi monoteismi restano qui dei dogmi. Ora, Mao ha certamente reso infinitamente più servizi reali al suo popolo, che ha contemporaneamente liberato dall’invasione giapponese, dal colonialismo dilagante delle potenze “occidentali”, dal feudalesimo nelle campagne e dal saccheggio precapitalistico, di quanti ne abbiano resi ai nostri Paesi tutti i personaggi, fittizi o ecclesiastici, della storia recente dei suddetti monoteismi. D’altra parte, la sacralizzazione, anche biografica, dei grandi artisti è una caratteristica ricorrente della nostra pratica “culturale”. Diamo importanza alla più irrilevante nota manoscritta di questo o quel grande poeta. Se la politica è, come credo, e la poesia può essere, una procedura di verità, allora non è né più né meno sciocco rendere sacri i creatori politici che rendere sacri i creatori artistici. Forse meno, in ogni caso, perché la creazione politica è probabilmente più rara, certamente più rischiosa, e si rivolge più immediatamente a tutti, e soprattutto a coloro che in generale – come i contadini e gli operai cinesi prima del 1949 – le autorità considerano inesistenti.
Tutto ciò non ci esime dal far luce sul particolare fenomeno del culto politico, caratteristica invariante degli Stati e dei partiti comunisti e dato parossistico della Rivoluzione culturale.
Da un punto di vista generale, il “culto delle personalità” è legato alla tesi che il Partito, in quanto rappresentante della classe operaia, sia la fonte egemonica della politica, il detentore obbligato della linea corretta. Come si diceva negli anni Trenta, “il Partito ha sempre ragione”. Il problema è che non esiste alcuna garanzia di tale rappresentazione, né di tale iperbolica certezza di razionalità. È quindi importante che ci sia, in sostituzione di tale garanzia, una rappresentazione della rappresentazione che sia essa stessa una singolarità, legittimata proprio dalla sua singolarità. Infine, una persona, un corpo singolare, funge da garanzia superiore, nella forma esteticamente classica del genio. È curioso che, dopo essere stati educati alla teoria del genio nell’ordine dell’arte, ci si opponga così fortemente ad esso quando appare nell’ordine della politica. Per i partiti comunisti tra gli anni Venti e gli anni Sessanta, il genio personale era solo l’incarnazione, il punto fermo, della dubbia capacità rappresentativa del partito. Infatti, è più facile credere nella rettitudine e nella forza intellettuale di un uomo lontano e solitario che nella verità e nella purezza di un apparato i cui piccoli leader locali sono ben conosciuti.
In Cina, la questione è ancora più complessa. Infatti Mao, durante la Rivoluzione culturale, non incarna tanto la capacità rappresentativa del Partito quanto ciò che discerne e combatte, all’interno del Partito stesso, il minaccioso “revisionismo”. È lui che dice, o lascia dire a suo nome, che la borghesia è politicamente attiva nel Partito comunista. È anche colui che incoraggia i ribelli, che diffonde lo slogan “abbiamo ragione di ribellarci”, che incoraggia i disordini, proprio nel momento in cui viene elogiato come presidente del Partito. In quanto tale, egli è a volte, per la massa dei rivoluzionari, meno il garante del partito reale che l’incarnazione, lui solo, di un partito proletario che ancora deve venire. È come una rivincita della singolarità sulla rappresentanza.
In definitiva, si deve sostenere che “Mao” è un nome intrinsecamente contraddittorio nel campo politico rivoluzionario. Da un lato, è il nome supremo del partito-stato, il suo presidente indiscusso, colui che detiene, come capo militare e fondatore del regime, la legittimità storica del partito comunista. D’altro lato, “Mao” è il nome di quella parte del Partito che non può essere ridotta alla burocrazia statale. È ovviamente riducibile agli appelli alla rivolta lanciati in direzione dei giovani e degli operai. Ma anche dall’interno della legittimità del Partito stesso. È stato spesso attraverso decisioni transitorie e minoritarie, persino dissidenti, che Mao ha assicurato la continuazione della singolare esperienza politica dei comunisti cinesi tra il 1920 e la vittoria degli anni Quaranta (sfiducia nei confronti dei consiglieri sovietici, rinuncia al modello insurrezionale, “accerchiamento delle città da parte delle campagne”, priorità assoluta del legame di massa, ecc.) Sotto tutti i punti di vista, “Mao” è il nome di un paradosso: il ribelle al potere, il dialettico che testa le continue necessità dello “sviluppo”, l’emblema del partito-stato alla ricerca del suo superamento, il leader militare che propugna la disobbedienza alle autorità… Questo è ciò che ha dato al suo “culto” un aspetto frenetico, perché combinava, soggettivamente, il consenso dato al fasto statale di tipo staliniano e l’entusiasmo di tutta la gioventù rivoluzionaria per il vecchio ribelle che lo stato delle cose non poteva soddisfare e che voleva marciare speditamente verso il comunismo reale. “Mao” chiamava la “costruzione del socialismo”, ma anche la sua distruzione.
In definitiva, la Rivoluzione culturale, nella sua stessa impasse, attesta l’impossibilità di liberare realmente e completamente la politica dal quadro del partito-stato, quando questo è bloccato. È un’esperienza insostituibile di saturazione, perché in essa una volontà violenta di cercare una nuova strada politica, di rilanciare la rivoluzione, di trovare nuove forme di lotta operaia nelle condizioni formali del socialismo, tutto questo si è arenato nel mantenimento obbligatorio del quadro generale del partito-stato, per ragioni di ordine statale e di rifiuto della guerra civile.
Oggi sappiamo che qualsiasi politica emancipatrice deve abbandonare il modello del partito, o dei partiti, e affermarsi come politica “senza partiti”, senza cadere nella figura dell’anarchico, che non è mai stato altro che la vana critica, o il doppio, o l’ombra, dei partiti comunisti, così come la bandiera nera è solo il doppio o l’ombra della bandiera rossa.
Tuttavia, il nostro debito nei confronti della Rivoluzione culturale rimane immenso. Infatti, legato a questa coraggiosa e grandiosa saturazione del motivo del partito, contemporaneo a quella che oggi appare chiaramente come l’ultima rivoluzione ancora dogmaticamente attaccata al motivo delle classi, della lotta di classe e della rappresentanza di classe nei partiti, il nostro maoismo sarà stato l’esperienza e il nome di una transizione capitale. E senza questa transizione, o dove nessuno è fedele ad essa, non c’è altro, come ormai sappiamo, che la globalizzazione di un capitalismo vittorioso, predatorio e selvaggiamente iniquo, e in realtà, sotto i colori della “modernità”, di un totale arcaismo politico.