Bertell Ollman | Lettera di dimissioni dal popolo ebraico
Bertell Ollman è stato professore presso il dipartimento di Studi politici della New York University. Ha pubblicato una dozzina di libri sulla teoria marxista e il socialismo.
Talvolta siamo costretti a intervenire. Quando delle vite umane sono in pericolo, quando la dignità umana è minacciata, le frontiere e le particolarità nazionali devono cedere il passo all’azione. Là dove uomini e donne sono perseguitati in ragione della loro razza, religione, condizione politica o sociale, quello è per noi, in quel preciso istante, il centro dell’universo.
Elie Wiesel, Discorso di ricevimento del premio Nobel per la Pace, 10 dic.1986 [1]
Vi siete mai chiesti quale potrebbe essere il vostro ultimo pensiero prima di morire? Io sì, e ne ho avuto la risposta. È successo qualche anno fa, nella nebbia degli ultimi attimi prima di abbandonarmi al bisturi per un’operazione da cui non sapevo se mi sarei risvegliato. Mentre il personale mi conduceva verso la sala operatoria, quello che prese forma nella mia coscienza non fu, come ci si potrebbe aspettare, il timore della morte, ma una terribile angoscia di fronte all’idea di morire ebreo. Ero sgomento di fronte al pensiero di terminare la mia esistenza terrena ancora legato col cordone ombelicale a un popolo con cui non potevo più identificarmi. Che questo fosse il mio “ultimo” pensiero mi colpì incredibilmente, e mi sorprende tuttora.
Ma che senso aveva tutto ciò, e perché è così difficile dare le proprie dimissioni da un popolo?
Sono nato a Milwaukee da genitori ebrei d’origine russa, che non frequentavano mai la sinagoga e non seguivano neppure le regole kosher – sebbene parlassero spesso yiddish a casa e si considerassero ebrei a pieno titolo. Per quattro anni, dopo le scuola pubblica, ho frequentato le scuole ebraiche, e a tredici anni ho festeggiato la mia barmitzvah. Cresciuto in tale ambiente, ho mantenuto delle vaghe credenze ebraiche fino al termine dell’adolescenza, età dopo la quale divenni ateo. Percepivo come la mia identità fosse ancora ebraica, ma in un senso sempre più problematico da definire. Alcuni dei miei amici erano diventati sionisti, e anch’io, per un certo periodo, ho giocato nella squadra di basket di un circolo giovanile sionista. Ciononostante, non riuscirono a convertirmi alla loro causa: principalmente, credo, poiché il loro programma sembrava confluire sostanzialmente nello spingere gli ebrei a stabilirsi in Israele. A ogni modo, ciò che avevo saputo nel corso degli anni sull’Olocausto, nonché sulla condizione spesso tragica degli ebrei nel mondo, mi aveva reso ben disposto nei confronti dell’idea di una comune patria ebraica, a patto – aggiungevo sempre – che si potesse giungere a un accordo con i palestinesi che vivevano in quelle terre.
Fu poi negli anni Cinquanta, a Madison, all’Università del Wisconsin, che diventai socialista e internazionalista. Milwaukee, perlomeno come l’avevo conosciuta, era una città estremamente provinciale, e fui felice delle possibilità che mi offriva l’università d’incontrare studenti provenienti da ogni parte del mondo. Penso che nel primo anno mi iscrissi a tutte le associazioni degli studenti stranieri, come anche a un certo numero di circoli politici progressisti.
Sempre in quell’ambito appresi ben più cose riguardo alle relazioni tra Israele e la Palestina, ma non più come ebreo di Milwaukee ma in qualità di internazionalista, membro di una comunità umana alla quale appartengono allo stesso titolo sia gli arabi sia gli ebrei.
Negli anni successivi, mentre il conflitto tra Israele e i palestinesi continuava sempre più a peggiorare, si cominciò ad assistere a due sorprendenti sviluppi, inaspettati, almeno per me. Nonostante lo sforzo di rimanere neutrale rispetto ai due antagonisti, mi sentivo ogni giorno sempre più anti-israeliano, mentre nel frattempo la maggior parte degli ebrei americani, fra cui alcuni miei amici ebrei che mai si erano definiti sionisti, si trasformava in un’entusiasta sostenitrice della causa d’Israele. Già negli anni Ottanta, nel corso della prima Intifada, le violenze e le umiliazioni inflitte ai palestinesi dallo stato di Israele erano divenute talmente inaccettabili che l’idea di appartenere allo stesso popolo che commetteva simili crimini mi era fonte di dolore, come pure quella di essere parte degli ebrei americani, che banalizzavano il tutto con giustificazioni semplicistiche. Oggi la questione è degenerata al punto che sento in me il bisogno di trovare una via d’uscita. Ma in che modo? Ecco dunque il problema. Si può abbandonare un’associazione, una religione (convertendosi), un paese (assumendo un’altra nazionalità e andando a vivere altrove), si può persino – perché oggi la medicina lo consente – cambiare il proprio sesso. Ma come si fa a rassegnare le dimissioni dal popolo in cui si è nati? Sconvolti dall’operato della Chiesa, alcuni cattolici francesi hanno scritto al papa per chiedere un certificato che attestasse la loro de-battesimazione. Questo era per me un precedente? Ma a chi dovevo rivolgermi? E che cosa domandare? Decisi quindi di scrivere alla rivista Tikkun [2], chiedendo semplicemente di essere ascoltato.
Da quanto ho affermato finora, per molti sarebbe facile respingermi con l’accusa di essere un ebreo che detesta se stesso, ma sarebbe un errore. Se posso essere qualcosa, sono proprio un ebreo che si ama, sebbene l’ebreo che ami in me sia l’ebreo della Diaspora, l’ebreo che per duemila anni ha goduto della benedizione di non possedere un paese da rivendicare come proprio.
Che a questo fatto si siano accompagnati parecchi e pesanti svantaggi è noto, ma quella situazione aveva pure una prerogativa fondamentale, più importante rispetto a tutto il resto. Siccome in tutti i paesi gli ebrei sono degli “outsider”, in tal modo, cioè appartenendo alla famiglia degli “outsider” di tutto il mondo, la loro maggioranza è stata meno afflitta di altri popoli dai pregiudizi meschini che affliggono qualsiasi forma di nazionalismo. Se non si poteva costituire a pieno titolo un cittadino del paese in cui si viveva, si poteva comunque essere cittadino del mondo o, perlomeno, cominciare a vedersi come tale, prima ancora che apparissero i concetti che avrebbero permesso di chiarire ciò che questo fatto significava. Non sostengo che la maggioranza degli ebrei della Diaspora la pensasse realmente così, ma ciò era vero per alcuni di essi – Spinoza, Marx, Freud e Einstein, per citare i più noti –, e sia l’inclinazione sia l’occasione per tutti gli altri di considerarsi tali derivava proprio dal rifiuto di cui erano fatti segno nel paese di residenza. Allo stesso modo, l’usanza ampiamente diffusa di trattare gli ebrei come esseri – sotto qualche aspetto – meno che umani generava in loro una reazione universalista.
Quando potevano, gli ebrei sostenevano la tesi – oppure, quando per loro esporla era impossibile, pensandola in silenzio – che in quanto figli dello stesso Dio condividevano una comune umanità con i loro oppressori, e che fosse questa a dover prevalere su tutto il resto. In tal modo, l’accusa antisemita in base alla quale gli ebrei sono sempre e ovunque stati dei cosmopoliti, e quindi dei tiepidi patrioti, racchiudeva almeno un granello di verità.
Oggi certamente pochi ebrei sostengono questa posizione. Nel 1990, in un’intervista al Jerusalem Report, il più celebre intellettuale sionista, Isaiah Berlin, raccontò di una conversazione che aveva avuto con il filosofo francese Alexandre Kojève, che gli aveva rivolto questa domanda: “Siete ebreo. Il popolo ebraico ha probabilmente avuto la storia più interessante fra tutti popoli che abbiano mai vissuto sulla faccia della terra. E ora, invece, volete essere come l’Albania?” Berlin rispose: “Sì, è proprio ciò che vogliamo. Per le nostre aspirazioni, per noi ebrei, l’Albania rappresenta un passo in avanti” [3].
Questa era la sorprendente risposta di un liberale culturalmente sofisticato, di un ateo, di una persona che sosteneva di non avere mai sperimentato alcuna forma di antisemitismo in Inghilterra, e che aveva studiato estesamente e in profondità il nazionalismo e i suoi pericoli. Quello a cui Berlin teneva, rispetto alle precedenti considerazioni, era la necessità umana d’appartenenza, che intendeva non solo come appartenenza a un gruppo, ma pure a una terra particolare. Privati di una loro terra, gli ebrei avevano patito ogni forma di oppressione, nonché l’invadente nostalgia che accompagna un esilio prolungato all’infinito. Berlin amava ripetere che tutto quello che desiderava per gli ebrei era che si permettesse loro di diventare un “popolo normale”, con una patria, come tutti gli altri. Proprio come gli albanesi.
Restano comunque due questioni da esaminare:
L’impulso naturale di appartenere a qualcosa, premessa principale del discorso di Berlin, non potrebbe essere appagato da qualcosa di diverso da uno statonazione?
Trasformandosi in un’Albania (perfino una “Grande Albania”), gli ebrei non sono forse stati forzati a perdere qualcosa di molto più prezioso che era presente nel giudaismo della Diaspora?
Se è vero – e sono pronto ad ammetterlo – che la nostra salute mentale ed emotiva necessita di una forte relazione con gli altri, non c’è però alcuna ragione di ritenere che solo i gruppi nazionali occupanti un proprio territorio possano appagare questo bisogno. Anche gruppi etnici religiosi, o gruppi fondati sul sesso, culturali, politici, sociali, senza particolari legami con un paese, possono svolgere questo compito. I gitani, i cattolici, le femministe, gli omosessuali, i massoni e i lavoratori consapevoli di appartenere a una classe sono solo alcuni fra i tanti gruppi che hanno scoperto uno strumento per soddisfare il bisogno di appartenenza senza rinchiudersi in frontiere nazionali. L’essere membri della nostra comune specie ci offre poi un’altra possibilità di raggiungere questo medesimo fine. Esaminato il ventaglio di possibilità, il gruppo (o i gruppi) al quale (o ai quali) scegliamo di “aderire”, o quello in cui riconosciamo la nostra identità prevalente, dipende largamente dalle scelte disponibili in una determinata epoca, dal luogo in cui si vive, dal modo in cui questi gruppi risolvono (o si promettono di risolvere) i problemi più urgenti e, infine, dal genere di socializzazione attraverso la quale percepiamo questi diversi gruppi.
Per quel che concerne quanto va perduto nel corso del processo di acquisizione di una patria, è importante riconoscere come il sionismo sia una forma di nazionalismo alla pari di qualsiasi altro, e come il nazionalismo – lo hanno dovuto riconoscere anche osservatori favorevoli a esso – abbia sempre un suo prezzo. Nonostante ogni ebreo sappia che la presidenza del nuovo stato ebraico venne offerta a Einstein, pochissimi hanno compreso il motivo del suo rifiuto. Diversamente da Berlin, il quale desiderava che gli ebrei divenissero un popolo “normale”, Einstein ha scritto: “Ciò che considero la natura essenziale del giudaismo resiste all’idea di uno stato ebraico con frontiere, un esercito e un livello di potere temporale, per quanto modesto possa essere. Ho paura del danno interno che ciò porterebbe al giudaismo, che si produrrebbe in particolare con lo sviluppo di un nazionalismo esclusivo tra i nostri ranghi, contro il quale abbiamo dovuto lottare con veemenza, anche in assenza di uno stato ebraico” [4].
Chi può dubitare oggi che Einstein non avesse ragione di preoccuparsi?
Come tutti i nazionalismi, anche il sionismo è fondato su di un senso esagerato della superiorità dei membri di una comunità e un atteggiamento d’indifferenza, quasi un disprezzo, verso gli appartenenti alle altre. Gli ebrei sono comparsi sulla scena della storia mondiale con un atto di chutzpah (faccia tosta) proclamando l’esistenza di un Dio giusto, che ha creato tutti gli esseri e che poi per ragioni note a lui solo – ha scelto gli ebrei come popolo eletto. (Perché poi cristiani e musulmani abbiano accettato con gioia il proprio status inferiore in un tale accomodamento resta per me un gran mistero.) Ma i sionisti si sono spinti molto più avanti in questa originaria dichiarazione di chutzpah, applicandola ai comandamenti divini. Se in passato gli ebrei hanno creduto che Dio li avesse scelti come depositari delle Tavole della Legge in nome dell’intera umanità, i sionisti sembrano credere di essere stati prescelti per trascurare queste leggi ogniqualvolta vadano contro i loro interessi nazionali. Che possibilità resta dunque per una fede nell’intrinseca eguaglianza di tutti gli esseri umani?
Si sostiene che gli antichi ebrei ricevettero non soltanto i comandamenti di Dio, ma anche, sembra, la promessa di un’area di terra particolare. Questa promessa è tuttavia sempre stata legata all’ubbidienza da parte degli ebrei a queste leggi, la più importante delle quali, a giudicare dal numero delle volte cui Dio vi fa riferimento, è la categorica proibizione dell’idolatria. Nonostante gli ebrei non abbiano rappresentato Dio sotto forma di idolo – forse in parte a causa della loro resistenza alla tentazione di rappresentarlo come tale –, il dossier ebraico sull’idolatria è probabilmente più voluminoso di quello dei loro vicini. In tremila anni e più, il giudaismo ha condotto una battaglia, largamente perduta, contro l’idolatria, visto che, man mano, prima il tempio di Gerusalemme, poi i rotoli della Torah, e infine la terra d’Israele hanno rappresentato, e dopo gradualmente addirittura sostituito, le relazioni del popolo eletto con Dio e con l’insieme dei precetti etici che esso doveva incarnare. Ma è proprio con il sionismo, cioè con la versione attuale di quest’idolatria della terra, che i suddetti precetti sono stati del tutto abbandonati. La versione moderna del vitello d’oro avrebbe evitato a Mosè il compito di rompere le Tavole della Legge, avendo eseguito direttamente in sua vece questo lavoro. Il fatto che oggi numerosi sionisti non credono nel Dio dei loro padri rende loro semplicemente più facile tramutare la terra d’Israele in un nuovo Dio. L’idolatria permane, con l’eccezione che ora le leggi di Dio possono essere stese da un comitato, senza per altro inquinare il loro contenuto nazionalista con pretese universalistiche. Se un nazionalismo così estremo è normale – il che fa di Spinoza, Marx, Freud ed Einstein esseri umani assolutamente anormali – suppongo allora che Berlin abbia finalmente avuto il suo popolo “normale”.
Come è proprio dei movimenti nazionalisti, il legame organico che il sionismo presuppone tra il popolo e il suo territorio è completamente impregnato di quella sorta di misticismo che rende impossibile un qualsiasi approccio razionale alla situazione. Ciò vale sia per i sionisti religiosi, che credono realmente che i loro progenitori abbiano concluso una transazione immobiliare di successo con Dio, sia per i sionisti laici, che scordano comodamente i duemila anni di Diaspora ebraica nel momento in cui avanzano le loro rivendicazioni “legali” sulla terra (mostrando di ricordarsi della sofferenza degli ebrei nella Diaspora soltanto quando la discussione si dirige sulle ragioni “morali” delle loro pretese). Cosa rimane allora della possibilità di affrontare in maniera umana e razionale i problemi reali del XXI secolo? Dopo avere talmente deformato la morale e la ragione per servire gli interessi della tribù in primo e… in ultimo luogo, era solo questione di tempo prima che si arrivasse all’attuale “camera di tortura” che il sionismo ha costruito per il popolo palestinese. È questo quanto i profeti ebraici avevano in mente nel momento in cui predicevano che il popolo ebraico sarebbe diventato “la luce delle nazioni”? No, certamente. Una tale evoluzione sarebbe stata inimmaginabile per gli altri ebrei della Diaspora, in un’epoca in cui, probabilmente, nessun altro popolo attribuiva tanto valore all’uguaglianza umana e alla ragione. Einstein poteva persino sostenere, senza che nessuno osasse burlarsi di lui, che la particolarità essenziale del giudaismo era il suo impegno a favore dell’ideale democratico di giustizia sociale, rafforzato dall’ideale di aiuto reciproco e di tolleranza tra tutti gli uomini” [5]. Oggi, Dio stesso dovrebbe riderne… se non piangerne.
Se la Diaspora, nonostante tutte le difficoltà materiali, ha lasciato gli ebrei innalzati su una specie di piedistallo dal punto di vista morale (vedi Einstein in proposito), perché ne sono poi discesi? Ne sono discesi quando il piedistallo è venuto meno. Le condizioni sulle quali si fondava la vita degli ebrei della Diaspora hanno cominciato a disgregarsi con i progressi del capitalismo, della democrazia e dell’Illuminismo, quindi ben prima dell’Olocausto, che non ha fatto altro che assestare il colpo definitivo. Per quanto strano possa apparire, trattandosi di una storia che è durata circa duemila anni, il giudaismo della Diaspora non è stato, né poteva, essere altro che un’era di transizione. Sorgendo dal giudaismo biblico, il giudaismo della Diaspora si è costituito fin dall’inizio sulla contraddizione tra la nostalgia della terra perduta e lo sforzo, spesso esitante e parziale, di integrarsi nei popoli e nei paesi in cui gli ebrei si erano stabiliti. Uno sguardo era rivolto indietro, verso la tribù e la terra che un giorno avevano chiamato la loro, un altro guardava in avanti, verso la specie umana e il mondo intero a cui gli ebrei, più di qualsiasi altro popolo, si erano mescolati. In questo lunghissimo periodo, le relazioni con i popoli e i territori rimasero poco sviluppate, e se ci furono scambi, molto spesso questi, su base culturale, religiosa o commerciale, avvennero tramite gli ebrei. In tale situazione, per la maggior parte degli ebrei non era nemmeno concepibile rielaborare la propria condizione di apolide e condurla sino alle sue logiche conclusioni, dichiararsi cioè cittadini del mondo. Tuttavia, il loro atteggiamento verso il resto dell’umanità, sebbene non ancora le loro azioni, rese gli ebrei sempre più sospetti ai popoli più radicati presso i quali vivevano, e che non cessavano di condannarli per il loro “cosmopolitismo” (per tutti una parola grossa, apparentemente, tranne che per gli ebrei). Fu grazie alle varie riconfigurazioni del mondo arrivate con il capitalismo, l’Illuminismo, la democrazia, e, infine, col socialismo, che più ebrei poterono nei fatti riconoscersi cittadini del mondo e sentirsi liberi di dichiararlo pubblicamente.
Lo stesso sconvolgimento economico e sociale, con le sue possibilità di elevamento sociale e la tremenda crescita dell’antisemitismo, quello sconvolgimento che aveva portato tanti ebrei a cambiare la loro prima identità di membri della tribù con l’identità di membri della specie umana, ne portò altrettanti a rigettare il loro cosmopolitismo nascente in nome di un rinnovato progetto nazionalista. Non è affatto casuale che tanti ebrei siano diventati socialisti o sionisti nel corso della stessa epoca, cioè tra la fine del XIX e la prima parte del XX secolo. Mentre prima nessun cambiamento nello status del popolo ebraico appariva possibile, ora si presentavano due alternative, che entrarono in competizione nella ricerca del sostegno popolare. L’una cercava di far cessare l’oppressione degli ebrei mettendo fine a ogni forma di discriminazione, l’altra intendeva raggiungere lo stesso scopo spingendo gli ebrei verso un preteso rifugio sicuro in Palestina. E fu lo stesso processo che dette vita a queste due possibilità di scelta che portò alla disintegrazione progressiva, e infine rapida, del giudaismo della Diaspora. Sebbene la maggior parte degli ebrei viva oggi al di fuori dei confini di Israele, in quella che si continua a denominare Diaspora, la grande maggioranza appartiene al campo socialista o, sempre di più, al campo sionista (incluse le versioni più moderate di ciascun schieramento); e il resto, probabilmente, finirà per identificarsi in breve nell’uno o nell’altro campo. Il giudaismo della Diaspora, così come si era configurato durante il corso di duemila anni, ha praticamente cessato di esistere. Si è spaccato lungo la linea della sua contraddizione principale: da un lato, un socialismo che cerca il bene di tutta l’umanità; dall’altro, un nazionalismo preoccupato solo del benessere del popolo ebraico e della sua riconquista della terra di Israele. Poiché il giudaismo ha sempre cercato di fornire una sintesi a questi due progetti inconciliabili, la loro separazione definitiva – per quanto nei media ci si sforzi di presentare artisticamente la nostalgia della Diaspora – può essere considerata la fine del giudaismo stesso. Potrebbe anche darsi che tutto ciò che ne resti sia formato da ex ebrei che si dicono socialisti o comunisti, e da ex ebrei che si dichiarano sionisti (per quanto riguarda il mio approccio alla questione, la distinzione fra ebrei religiosi ed ebrei laici non è pertinente).
Ne deriva che, se i socialisti, i quali rigettano gli aspetti nazionalistico-religiosi del giudaismo della Diaspora, non sono ebrei, e se non sono ebrei neppure i sionisti, che rigettano le sue dimensioni universali e umanistiche (e spesso pure gli aspetti religiosi), allora il vero dibattito interessa solo l’analizzare quale delle due tradizioni abbia conservato la componente migliore del comune retaggio ebraico. Nonostante il loro incessante dibattere di ebraismo e di ebrei, ritengo che siano proprio i sionisti ad aver meno in comune con il giudaismo: poiché, come ho detto prima, spezzare le braccia e le gambe dei giovani palestinesi non è certo quel tipo di gesto che gli antichi saggi avevano in mente quando predicevano che il nostro popolo sarebbe divenuto “la luce delle nazioni”. In Israele, oggi, dove i termini tsadik (uomo giusto) e mensch (uomo degno e coraggioso) si possono applicare solo a una minoranza, in faccia alla quale sputa la grande maggioranza della popolazione, e dove la chutzpah (faccia tosta) ha finito per coincidere con “la difesa dell’indifendibile”, cosa rimane a ricordare il nucleo morale della nobile tradizione di un tempo?
Quando ero bambino, mia madre cercava spesso di correggere alcuni miei comportamenti riprovevoli, avvertendomi che si trattava di “shandeh fur die goyim” (cioè che non solo coprivo di vergogna me e la mia famiglia, ma pure tutti gli altri ebrei agli occhi delle persone nobili). Quello che voglio urlare quanto più forte possibile di fronte ai crimini del sionismo e di tutti coloro che cercano di giustificarli è che il loro comportamento è “shandeh fur die goyim”, che tutti loro, sia i pesci grossi che quelli piccoli, sono una vergogna agli occhi delle persone nobili. (Come vedi, mamma, me ne ricordo). Pur essendo un socialista e un ex ebreo, credo di possedere ancora troppo amore e rispetto per la tradizione ebraica che mi sono lasciata alle spalle per accettare che il mondo apporti su di essa lo stesso giudizio di condanna che mostra, a pieno titolo, su ciò che gli ex ebrei che si dicono sionisti stanno facendo in suo nome. E se cambiando il mio status di ebreo della Diaspora in quello di non-ebreo convinco almeno dieci persone giuste (il minyan di Dio) a opporsi alla deviazione del marchio di “ebreo”, allora il mio sacrificio ne varrà la pena.
A chi si domandasse in che modo le dimissioni dal popolo ebraico da parte di un ateo comunista potrebbero disturbare gli altri ebrei, ricorderò che il più gran peccato che un ebreo possa compiere (così mi hanno insegnato sin dall’infanzia) è quello di abbandonare il proprio popolo (generalmente convertendosi a un’altra fede). La reazione abituale della famiglia, in questo caso, è di compiere la shivah (il rituale destinato ai morti) per il o la colpevole. L’intensità del sentimento di vergogna e di collera che molti ebrei provano quando accade un fatto simile è difficile da spiegare e probabilmente dipende dalla forza del legame sociale che unisce tutti gli ebrei – logica conseguenza, in origine, del fatto di costituire gli eletti di Dio, ma anche dell’avere subito tanti secoli di oppressione e di esserne sopravvissuti assieme. Mentre la relazione di un cristiano con Dio è individuale, quella di un ebreo è da sempre mediata dalla sua appartenenza al popolo eletto, un popolo che Dio giudica collettivamente responsabile delle infrazioni di ciascuno dei suoi membri. Consapevoli della posta in gioco, gli ebrei non hanno mai potuto permettersi il lusso di restare indifferenti di fronte alle scelte dei loro correligionari. Un’educazione ebraica, anche minima, è sufficiente a fare in modo che questo legame si interiorizzi talmente che pure gli ebrei atei e comunisti risentano la defezione di un ebreo come se si trattasse dell’amputazione di un arto del proprio corpo. Senza dubbio la persistenza della mia identità di ebreo, per quanto vaga possa essere e priva di qualsiasi attributo di credente, aiuta a spiegare perché ho sentito l’insopprimibile bisogno di rassegnare le dimissioni nel momento in cui il termine “ebreo” ha finito per significare qualcosa che non potevo più accettare (e neppure ignorare). E questo stesso legame organico può aiutare a spiegare il fatto che degli ebrei, compresi coloro che più aspramente critico e che probabilmente si rallegreranno delle mie dimissioni, possano sentirsi tanto turbati dal modo in cui ho espresso la mia critica.
Sono quasi alla fine della mia lettera di dimissioni, ma non ho ancora parlato dell’Olocausto. Numerosi sionisti vi troveranno sufficienti motivi per rifiutare ciò che mi accingo a scrivere. In mia difesa vorrei raccontare una storiella che Joe Murphy, ex vicecancelliere della City University di New York, narrava spesso a proposito di sua madre ebrea. “Joe,” lei gli diceva, “ci sono due tipi di ebrei. Quelli che, davanti all’indicibile orrore dell’Olocausto, hanno reagito giurando che avrebbero fatto tutto ciò che sarebbe stato in loro potere per garantire che una cosa simile non accada mai più al nostro popolo. E poi, vi sono coloro che hanno tratto un’altra lezione da quei tremendi avvenimenti, cioè che avrebbero dovuto fare tutto ciò che sarebbe stato in loro potere per assicurarsi che una cosa simile non potesse mai più accadere a nessun popolo, in nessun luogo.” “Joe,” aggiunse poi, “promettimi che sarai sempre un ebreo di questo secondo tipo.” Ed è proprio ciò che egli fece, come ciò che egli fu.
Gli ebrei del primo tipo, per la maggior parte sono sionisti – secondo la mia terminologia, dei veri e propri “ex ebrei” – e sono arrivati, in modo sfacciato, a fare dell’Olocausto un randello con cui colpire ogni persona critica che abbia la temerarietà di mettere in discussione ciò che essi fanno subire ai palestinesi (col pretesto della legittima difesa) [6]. Qualsiasi critica del sionismo, per quanto moderata e giustificata, viene equiparata all’“antisemitismo”, mentre l’accusa di “antisemita” si è trasformata nella parola chiave per macchiare la reputazione dei critici, attribuendo loro una parte di responsabilità nell’Olocausto, nonché la segreta speranza che ne avvenga un secondo. Questa è un’accusa infamante, che ha dato comunque prova d’efficacia riducendo al silenzio un buon numero di critici potenziali. Non è quindi una semplice coincidenza se un impressionante risveglio d’interesse per l’Olocausto da parte dei media avvenga nel momento in cui il sionismo ne ha il più grande bisogno, come di una sua ombra protettrice.
Con questo sistema, la peggiore violazione dei diritti dell’uomo che ha conosciuto la storia viene cinicamente manipolata per nascondere una delle peggiori violazioni dei diritti umani del nostro tempo. La madre di Joe Murphy si aspetterebbe che gli ebrei del secondo tipo fossero i primi a puntare il dito contro tale manipolazione e condannarla.
Rimane poi la questione della sicurezza. I sionisti insistono col dire che creando il loro stato hanno migliorato la sicurezza degli ebrei, non solo in Israele ma anche altrove. Sfortunatamente, con il suo aberrante trattamento dei palestinesi, con la sua ipocrisia “wieseliana” e i suoi sgarbi sempre più arroganti verso la comunità internazionale, Israele ha creato più antisemitismo reale di quanto ce ne sia mai esistito, non solo nei paesi arabi, ma ovunque nel mondo. Per ora, i sionisti si sentono al sicuro dalle ripercussioni inevitabili della loro politica grazie allo scudo con cui li ripara il loro alleato americano. Il mondo, con l’eccezione, sembra, della maggior parte degli americani, rimane stupefatto di fronte al successo quasi miracoloso ottenuto dai sionisti nella cattura del sostegno politico della classe dirigente statunitense. Per quanto riguarda il conflitto in Terrasanta, gli elettori americani potrebbero benissimo dispensarsi di scegliere tra democratici e repubblicani, votando direttamente per il Likud. Si sa che gli ebrei ortodossi utilizzano un non-ebreo, detto “shabbes goy”, per accendere la luce durante il Shabbat. Poiché ci sono molte cose che lo stato d’Israele non può fare da solo, è riuscito a impossessarsi del governo americano e a trasformarlo in shabbes goy, che paga pure la bolletta dell’elettricità! Se questo miracolo non è pari a quello compiuto da Dio quando aprì le acque del Mar Rosso, allora dobbiamo scoprire come è possibile che sia avvenuto, perché in realtà non lo sappiamo ancora, nei suoi reali dettagli.
Per essere valida, ogni spiegazione dovrebbe evidenziare la rete di relazioni costruita tra il governo israeliano, la lobby sionista (nelle sue varie dimensioni), i cristiani fondamentalisti (i quali credono che la seconda venuta del Cristo non potrà aver luogo se non dopo che tutti gli ebrei saranno finalmente riuniti in Israele), i due partiti politici americani, gli elettori ebraici, e infine gli interessi legati all’espansione politica ed economica della classe capitalista americana. Infatti, per quanto possa essere stata determinante l’influenza israeliana sulla politica estera americana in Medio Oriente, questa non avrebbe mai potuto avere un tale successo se non fosse coincisa in maniera considerevole con il disegno imperialista della classe dirigente ebraica. Per quanto concerne la componente sionista di questa rete, la decisione chiave risale probabilmente al 1977, quando Begin e il Likud giunsero al potere e il governo d’Israele decise di stringere legami più forti con i cristiani fondamentalisti degli Stati Uniti (forti di 70 milioni di aderenti), al fine di aiutarli a trasformarsi in una lobby politica più efficiente e a fare in modo che per essa gli obiettivi sionisti diventassero prioritari. Netanyahu, da parte israeliana, e Jerry Falwell, da parte americana (che ha ricevuto in Israele il prestigioso Premio Jabotinsky e anche… un piccolo aereo per uso personale), sono stati particolarmente attivi nello sviluppo di quest’alleanza, come è riportato nell’articolo “Evangelicals and Israel” [7] di Donald Wagner, apparso nel Christian Century. L’amministrazione Bush Jr. ci offre soltanto l’esempio più recente del successo di tale strategia. Anche se i democratici riusciranno a scalzare i repubblicani dalla Casa Bianca, il governo americano continuerà ugualmente a sostenere Israele, perché la lobby ebraica – in questo caso con l’aiuto del voto ebraico, che è in maggioranza favorevole ai democratici – è ancora più influente su questi ultimi.
È tuttavia poco probabile che questa relazione particolare con Israele rimanga stabile, perché i fondamenti su cui poggia si vanno rapidamente erodendo. Innanzitutto, come dimostrano tutti i sondaggi, il popolo americano non è mai stato tanto filosionista quanto i suoi governi; inoltre, gran parte dei sentimenti favorevoli è stata seriamente intaccata dalla reazione disumana con cui Israele ha reagito all’Intifada. Se un tempo, nel corso delle varie guerre con il mondo arabo, si poteva identificare Israele come il giovane David che affronta il gigante Golia, ora la brutale repressione militare del popolo palestinese, virtualmente disarmato, ha invertito tale analogia, ed è Israele ad avere assunto il ruolo del mostruoso Golia. Con l’accumularsi di nuovi omicidi, di nuove ferite, di nuove umiliazioni, con il numero crescente di demolizioni di case, di sottrazione d’acqua e terra, e ora con la costruzione di un muro divisorio che avanza ogni giorno (spesso davanti agli schermi televisivi), la politica israeliana ci spinge a rimettere in discussione la versione ufficiale secondo la quale Israele sarebbe vittima di terroristi analoghi a quelli che hanno demolito le torri gemelle di New York e meriterebbe quindi la nostra compassione e il nostro aiuto, e ce lo fa piuttosto considerare come uno dei principali istigatori della violenza musulmana nel mondo. Inoltre, l’impopolarità crescente della guerra in Iraq (guerra senza prospettiva di una fine, e che non sarebbe neppure mai dovuta iniziare), a favore della quale Israele e i suoi più ardenti sostenitori in seno al governo americano sono stati tra più i chiassosi sobillatori, sta cambiando l’atteggiamento degli americani verso Israele. Inoltre, l’insicurezza crescente nelle forniture di petrolio dal Medio Oriente, le cui conseguenze sui prezzi e i profitti – dovute alle guerre ma anche alla barbarie crescente di Israele verso un popolo arabo (barbarie alla quale gli stati Uniti sono necessariamente associati) – si percepiscono in tutti i settori dell’economia, ha iniziato a inserire un cuneo tra Israele e gli interessi del mondo capitalistico americano. Fra qualche tempo – sarebbe già il caso ora – una parte importante della classe dirigente capitalista americana chiederà che il governo degli Stati Uniti adotti una nuova politica di fronte a Israele. E quando la maggioranza del pubblico americano avrà infine aperto gli occhi sul prezzo esorbitante e sempre crescente di sangue e di denaro che costa agli Stati Uniti il suo ruolo di shabbes goy a favore di Israele, proprio in un momento in cui ogni tipo di spesa sociale è sottoposto a drastiche soppressioni di bilancio, un’ondata di antisemitismo potrebbe minacciare la sicurezza degli ebrei e degli ex ebrei in tutto il mondo.
L’antisemitismo è spesso inteso come l’odio irrazionale verso gli ebrei, non per ciò che essi fanno o per ciò a cui credono, ma soltanto per ciò che essi sono. Questa definizione non è corretta, perché esistono delle ragioni per essere antisemiti. Si dà il caso, però, che siano tutte sbagliate, sia perché false (come l’accusa secondo la quale gli ebrei utilizzavano il sangue di bambini nobili per preparare i matzots durante la loro Pasqua), oppure perché esagerate, risalenti alla notte dei tempi, senza pertinenza; infine, se per caso contengono un grano di verità (come l’idea che gli ebrei sono ricchi, ecc.), si applicano solo a un piccolo numero di essi. Ecco perché odiare tutti gli ebrei non è soltanto irrazionale, ma anche ingiusto, e, come sappiamo, le conseguenze sono spesso tremende. Tenendo conto di questa storia, non solo ogni ebreo, ma qualsiasi persona non ebrea, umana e amante della giustizia ha il dovere di opporsi con tutte le sue forze alla diffusione dell’antisemitismo.
Dovrebbe essere comunque evidente che questa storia, per quanto dolorosa, non fornisca in nessun modo agli ebrei il diritto di commettere, a loro volta, dei crimini; ed è solo una mostruosità che degli ebrei criminali accusino di antisemitismo coloro che li criticano, anche se, come succede ai sionisti, credono che con i loro crimini stiano servendo gli interessi del popolo ebraico, e anche se sono riusciti – un altro miracolo? – a far sì che la terza edizione del Webster International Dictionary abbia definito “l’antisionismo” come una forma di antisemitismo. Equiparando l’antisionismo all’antisemitismo, i sionisti corrono però il rischio che la gente creda alla loro logica, senza per questo trarre le conclusioni che essi si aspettano. Secondo tale logica, non si può essere che antisionisti e antisemiti insieme, o né una cosa né l’altra. I sionisti ritengono che davanti a questa scelta la maggior parte dei loro detrattori onesti semplicemente abbandonerà la lotta al sionismo e tacerà. Considerate le conseguenze sempre più devastanti del sionismo in Palestina, le scelte di coloro che li criticano potrebbero prendere la direzione inversa. Alcuni avversari del sionismo, infatti, convinti dalla logica perversa che abbiamo descritto, ma che lo stesso non rinunciano a opporsi alle pratiche sioniste, potrebbero facilmente abbracciare anche la causa antisemita. In tal modo, invece di far scendere il numero degli antisionisti, quest’approccio produce probabilmente un maggior numero di antisemiti. L’unica conclusione possibile è che lo stato di Israele non solo è inutile come polizza d’assicurazione contro futuri pogrom, ma rappresenta invece un pericolo per la salute di tutte le persone che hanno investito fede e denaro nell’acquisto di questa polizza.
A questo punto della mia lettera, se non prima, un certo numero di lettori mi rimprovererà di voler trattare i sionisti come se appartenessero tutti alla stessa specie. Sono pienamente consapevole delle tante sfumature che esistono in campo sionista, e sono pieno di ammirazione per gli sforzi coraggiosi prodigati contro la dirigenza israeliana da parte dei sionisti, più umani e progressisti, di Meretz, Peace Now, o Tikkun, solo per citarne alcuni. Tuttavia, se nella mia analisi non faccio eccezione per loro – e non è solo in quanto i loro tentativi di riforma sembrano destinati al fallimento –, è soprattutto poiché condividono numerosi principi sui quali si fonda il sionismo stesso (versione Likud o laburista).
Fondare uno stato nel quale solo gli ebrei sono cittadini a pieno diritto, stabilirsi in un paese già abitato da milioni di non-ebrei, pretendere di opporsi all’antisemitismo mondiale con una manifestazione ostentata della potenza ebraica, cercare di convincere tutti gli ebrei che saranno più al sicuro perché avranno da ora in poi un paese dove eventualmente rifugiarsi, tentare di giustificare il tutto mescolando miti religiosi all’esperienza dell’Olocausto: ecco che cosa è al centro del sionismo, ed è allo stesso tempo la logica inerente a queste posizioni che ci ha portato sulla strada senza uscita in cui ci troviamo oggi. E non vedo come le cose sarebbero potute andare altrimenti. Le occasioni in cui è sembrato che la storia moderna di Israele avrebbe potuto imboccare un altro corso, come pensano i sionisti progressisti, non sono che semplici chimere inventate per salvare la faccia. Solo rigettando radicalmente le posizioni appena descritte potremo vedere il vero volto del sionismo e la situazione che ha generato, e potremo di conseguenza iniziare a orientarci ideologicamente e politicamente.
Sul piano ideologico, ad esempio, non occorre più accettare che Israele invochi lo scontro tra due diritti, cioè il tema preferito da numerosi sionisti moderati, o addirittura socialisti. Esiste un solo diritto, e i sionisti, che sono gli invasori e gli oppressori, hanno torto. Sono soltanto i presupposti alla base del progetto sionista che hanno impedito a molti di riconoscere questo fatto. Ciò significa anche che oggi non si può considerare allo stesso modo la violenza perpetrata dal governo sionista contro gli arabi e quella degli arabi contro gli ebrei in Israele. Certamente deploro profondamente le stragi e le distruzioni che si verificano, e soffro più di quanto non riesca a dire per le vittime e i loro cari, di ambedue gli schieramenti. Tuttavia, soltanto Israele, il suo governo e quelli che lo appoggiano meritano di essere condannati, e non solo perché hanno fatto ricorso ad aerei e carri armati e hanno ucciso un gran numero di innocenti. Quello che conta veramente è il fatto che sia il governo israeliano a detenere il monopolio del potere nel paese, e che sia sempre il governo israeliano ad aver fissato le regole del gioco perverso al quale i palestinesi sono costretti a partecipare in una situazione spaventosa. Sono i governanti israeliani, essi soltanto, ad avere il potere di cambiare queste regole e questa situazione: occorre quindi ritenerli responsabili del fatto che essi continuano a mantenerle. Sono loro i veri terroristi, e non i poveri esseri umani disorientati che l’escalation dell’oppressione e le relative umiliazioni hanno reso folli e disperati al punto da usare il proprio corpo come un proiettile omicida. Il terrorismo di stato, e non il terrorismo individuale, è il problema principale di fronte al quale deve rapportarsi chiunque desideri accelerare la fine di questo conflitto, ed è quanto le nostre azioni devono contrastare. Sharon aveva ragione almeno su un punto: Arafat non contava niente. E forse, sfortunatamente, vale lo stesso per il resto dei palestinesi di fronte all’instaurazione di una pace duratura. Invece di dissertare all’infinito sulla quota di responsabilità dei palestinesi nel conflitto – cosa che ha l’effetto di erodere le nostre potenzialità – dobbiamo orientare tutta la nostra attenzione sulla maniera di far pressione, qualsiasi tipo di pressione, su Israele.
Politicamente, questo significa evitare ogni forma di collaborazione con questo stato-canaglia (come si fece con il Sudafrica), boicottarlo sul piano economico e in ogni occasione (per esempio, escluderlo dai Giochi olimpici), fare pressione sui nostri politici perché interrompano gli aiuti (privati o pubblici) a Israele, adottare nei suoi confronti alcune sanzioni (comprese quelle commerciali), esigere risoluzioni più dure possibile dalle Nazioni Unite, denunciare le violazioni sioniste dei diritti umani in ogni ambito del dibattito e infine, naturalmente, attaccare frontalmente la lobby ebraica, la quale si scaglierà contro ognuna di queste misure.
Simili azioni dovrebbero essere intraprese in Europa e altrove, ma considerato il potere degli USA, nel mondo in generale e in Israele in particolare, è là che sarà decisa la sorte del popolo palestinese, e in ultima analisi anche quella dell’ebraismo e di ciò che rimane del popolo ebraico.
Senza dubbio isolare Israele in tutti i modi che ho prospettato nocerà a coloro che cercano dall’interno di cambiare la sua politica governativa; d’altra parte, queste misure li aiuteranno, perché faranno salire a livelli inaccettabili il prezzo che devono pagare per la loro scelta sbagliata. Ciò che risulta chiaro è che per gli ebrei la cui coscienza non si ferma alla solidarietà del sangue, quelle del silenzio, della moderazione e della neutralità non sono più scelte possibili – se mai lo sono state. Dopotutto, i regimi oppressivi hanno sempre avuto un gran bisogno di un sostegno passivo e moderato per attuare i propri disegni. Restando dalla parte dei sempre più numerosi ebrei che difendono apertamente la condotta disumana di Israele, questi sionisti moderati, spesso colmi di buone intenzioni, finiscono per alimentare a loro volta lo stereotipo antisemita secondo cui tutti gli ebrei sono perlomeno complici passivi dei crimini del sionismo, meritando quindi l’odio che questi crimini suscitano. Non è forse la stessa cosa di quello che pensava la maggior parte degli ebrei riguardo alla passività dei cosiddetti tedeschi “buoni” durante il nazismo? In che misura questa passività, in un’epoca in cui ogni minima reazione era molto più pericolosa di quanto lo sia per noi ora, ha contribuito all’ostilità di tanti ebrei verso tutti i tedeschi? Una lotta a 360 gradi contro il sionismo da parte degli ebrei sarebbe dunque la lotta più efficace contro il vero antisemitismo.
Inoltre, se il sionismo è fattivamente una forma particolarmente virulenta di nazionalismo e, in maniera crescente, di razzismo, e se Israele agisce verso la sua minoranza prigioniera in un modo che assomiglia sempre più a quello con cui i nazisti trattavano gli ebrei, allora bisogna avere il coraggio di dirlo. Per ragioni evidenti, i sionisti si mostrano molto suscettibili quando li si paragona ai nazisti (non suscettibili al punto di sentirsi frenati nelle loro azioni, ma sufficientemente per gridare: “È ingiusto!”, e per lanciare allora l’accusa di “antisemitismo”). Privati di ogni giustificazione sionista, i fatti rivelano però che i sionisti sono oggi i peggiori antisemiti al mondo, perché opprimono un popolo semita come nessuna nazione ha fatto dopo lo stato nazista. No, i sionisti non sono altrettanto odiosi dei nazisti, non ancora, ma il mondo non sta forse assistendo a una pulizia etnica spietata contro i palestinesi nel momento in cui parliamo?
Se i sionisti (e i loro sostenitori) troveranno questo paragone un oltraggio ingiurioso e ingiusto, che smettano semplicemente di fare quello che stanno facendo (e sostengono)! Temo però che la logica della loro posizione li spinga a commettere (e a sostenere) nel futuro atrocità ancora più infamanti di quelle che hanno perpetrato finora, compreso il genocidio (un’altra specialità nazista).
Che cosa può avere in comune il sionismo con i valori tradizionali dell’ebraismo?
Per quanto mi riguarda, il commediografo Lenny Bruce ha fornito l’unica buona risposta a questa domanda quando dice: “Ascoltami, sono ebreo. Count Basie è ebreo. Ray Charles è ebreo. Eddie Cantor è goyish… Il corpo dei Marine è puro goyish… Se abitate a New York o in qualsiasi grande città siete ebreo. Se abitate a Butte, nel Montana, sarete goyish anche se siete ebreo… Kool-Aid è goyish. Il latte in polvere è goyish, anche se sono gli ebrei che l’hanno inventato… Il pane nero di segale è goyish e, come sapete, il pane bianco a fette è molto goyish… I neri sono tutti ebrei… Gli irlandesi che hanno rifiutato la loro religione sono ebrei… L’arte di maneggiare la bacchetta del tamburo maggiore è molto goyish” [8].
Aggiungerò solo quanto segue: “Noam Chomsky, Mordechai Vanunu e Edward Saïd sono ebrei. Elie Wiesel è goyish. Ugualmente goyish sono tutti gli ebrei neo-con. Il socialismo e il comunismo sono ebrei, Sharon e il sionismo sono completamente goyish.”
E chissà, se questa versione dell’ebraismo dovesse realizzarsi, un giorno potrei anche fare domanda di riammissione al popolo ebraico.
(ottobre 2004)
Note
[1] E. Wiesel, Discours d’Oslo, Grasset, Parigi, 1987, pp. 13-14.
[2] Tikkun. A Bimontly Jewish Critique of Politics, Culture, & Society. La versione inglese di questo testo vi è stata pubblicata nel numero di gennaio-febbraio 2005. Tikkun è un bimensile ebraico pubblicato negli Stati Uniti che si occupa di critica della politica. Il suo motto è un grande e ambizioso programma: “Guarire, riparare e trasformare il mondo”.
[3] R. Furstenberg, “Reflections of a Zionist Don”, in: The Jerusalem Report, ottobre 1990, p. 51.
[4] A. Einstein, “Our Debt to Zionism”, in: Ideas and Opinions, Modern Library, New York 1964, p. 6. Vale la pena di ricordare le considerazioni di Ben Gurion sull’offerta della presidenza di Israele a Einstein: “Ditemi cosa devo fare se risponde: ‘Sì!’ Sono stato costretto a offrirgli la presidenza, perché non offrirgliela era impossibile. Ma se accetta, ne avremo di guai.” Fred Jerome , The Einstein File, St. Martin’s Press, New York 2002, p. 111.
[5] A. Einstein, op. cit., p. 212. Quale sarebbe stata la reazione di Einstein davanti alla situazione attuale in Palestina lo si può intuire da commenti del tipo seguente: “L’aspetto più importante della nostra politica (quella d’Israele) deve essere il nostro desiderio sempre presente e manifesto di istituire un’uguaglianza completa dei cittadini arabi tra noi […] L’atteggiamento che adottiamo verso la nostra minoranza araba sarà il vero criterio del nostro livello morale in quanto popolo.” (1952, ibid., p. 111). E in una lettera a Weizmann (1923), scriveva: “Se non riusciamo a trovare il modo di praticare una cooperazione onesta con gli arabi non avremo appreso niente dai nostri duemila anni di sofferenze, e ci meriteremo tutto ciò che la sorte ci riserverà” (ibid., p. 110).
[6] R. Fisk, “A Warning to Those Who Dare Criticize Israel in the Land of Free Speech”, in: The Indipendent, 24 aprile 2004, p. 39.
[7] D. Wagner, “Evangelicals and Israel: Theological Roots of a Political Alliance”, in: The Christian Century, 4 novembre 1998, p. 1023.
[8] L. Bruce, “Jewish and Goyish”, Record Number 5 of Lenny Bruce: Let the Buyer beware, Shout Factory, 14 settembre 2004, numero 6 (CD audio).