Marco Riformetti | La musica come linguaggio universale?
Tratto da Marco Riformetti, Tutti dentro con il biglietto del movimento. Gli “autoriduttori” nelle controculture giovanili degli anni ‘70, Tesi di laurea magistrale in “Sociologia e ricerca sociale”, maggio 2022
Come Marcello Baraghini di «Stampa Alternativa» anche Andrea Valcarenghi di «Re Nudo» pensa che sia proprio il rock in quanto tale ad essere elemento rivoluzionario
«Il rock non ha tanto bisogno di traduzioni: la sua violenza liberatrice è una specie di esperanto musicale!» (VALCARENGHI [1973])
L’idea della musica come linguaggio universale non è nuova e non è neppure peregrina; d’altra parte l’idea che una certa particolare musica (o addirittura la musica in sé) possieda un proprio “carattere politico” e che quindi sia di per sé stessa portatrice di un certo tipo di discorso è più discutibile e paradossalmente si era fatta strada già in epoca fascista con il futurismo «per il quale la musica era ideologia in sé stessa e dunque doveva disporre della massima libertà» (VOLPI [2017]).
La musica è certamente una forma di comunicazione che travalica i confini dello spazio e del tempo. Mozart può essere apprezzato alla ricca corte dell’Imperatore d’Austria nel ‘700, ma anche nella semplice casa di un giovane d’oggi. Anzi, grazie alla diffusione dei mezzi di riproduzione è certo che Mozart sia ascoltato molto più oggi di quanto non lo fosse nella sua epoca; con una piccola forzatura potremmo addirittura dire che la Primavera di Vivaldi è oggi più cultura di massa che cultura di élite (come invece certamente era nel XVII secolo) a causa del suo frequente uso nella pubblicità o nei programmi televisivi e cinematografici. Questo carattere trans-storico dell’arte non è peculiare solo della musica: Michelangelo e Dante sono brillantemente sopravvissuti al proprio tempo.
Ma bisogna distinguere tra il linguaggio della musica che parla ai corpi – diciamo l’estetica musicale (se vogliamo adottare una famosa definizione [1] in cui “estetica” è ciò che ha a che fare con i sensi) – e il linguaggio della musica che parla alle menti – il testo delle canzoni, il libretto delle opere… – che soprattutto nella popular music ha spesso solo una funzione di supporto e solo con la musica impegnata assume un valore culturale specifico, talvolta invertendo il rapporto di rilevanza con la base musicale.
Quanti di noi, ascoltando il Requiem, si sono posti il problema del significato dei versi in latino che ne costituiscono il libretto e che spesso risultano del tutto incomprensibili anche a chi conosce quella morta lingua? E quanti potranno mai essere coloro che partecipano ad un concerto dei Metallica o dei Rolling Stones soprattutto per ascoltare le parole delle loro canzoni? Ovviamente, ben pochi; eppure, conoscere le parole del testo è fondamentale per partecipare ad un concerto pop/rock e poter cantare a squarciagola assieme agli altri.
Quando molti giovani si immedesimano nelle parole o nei gesti dell’artista lo fanno attraverso una proiezione di sé sull’artista al punto tale da sviluppare nei suoi confronti una forma di feticizzazione (ADORNO [1956]). Questa immedesimazione è analoga a quella che spinge lo spettatore a piangere con chi piange in una storia triste e a ridere con chi ride in una storia divertente; ma affinché questa immedesimazione possa svilupparsi pienamente deve agire anche un meccanismo di risemantizzazione analogo a quello che Stuart Hall e la Scuola di Birmingham definiscono “decodifica” (dei prodotti culturali di massa originariamente codificati dall’industria culturale) (HALL [1980]). Resta da domandarsi su quali basi culturali avviene la decodifica e quanto sia davvero libero il ricevente di disinnescare il dispositivo di senso inscritto nei prodotti dell’industria culturale per re-innescarlo con un dispositivo di senso alternativo. La risposta a questa domanda è che in certa misura la ri-semantizzazione avviene effettivamente (e infatti si possono avere interpretazioni diverse del medesimo prodotto culturale) ma anche il modo in cui avviene la ri-semantizzazione è, in definitiva, un prodotto storico-sociale.
Postulare il fatto che la musica possiede un linguaggio universale capace di unire spontaneamente i giovani può facilmente condurre a ritenere che i Giovani [28] possano unirsi molto più naturalmente di quanto non possano farlo gli Operai, classici interlocutori dei vecchi (e di altri) movimenti politici e sociali; e quindi a scegliere i giovani come interlocutori di un certo discorso politico. Le parole che vengono usate nelle lotte ai concerti sono formalmente quelle dell’unità tra operai e studenti e la retorica è quella del giovane proletario che lotta sia contro il caro-vita nei quartieri, sia contro il caro-biglietti ai concerti, ma la sensazione è quella che i Giovani vengano percepiti come un Nuovo Soggetto su cui fondare il progetto del cambiamento rivoluzionario e che in fondo dei “vecchi” non ci si deve fidare («Don’t trust anyone over 30», come ebbe a dire nel 1964 Jack Weinberg del Free Speech Movement di Berkeley); questo avviene anche perché gli adulti, per i giovani, sono prima di tutto gli adulti della propria famiglia e la rottura con la famiglia è ormai il nuovo “rito di passaggio” della gioventù.
Note
[27] «L’estetica (teoria delle arti liberali, gnoseologia inferiore, arte del pensare in modo bello, arte dell’analogo della ragione) è scienza della conoscenza sensibile» (Baumgarten, Estetica, vol. I, 1750).
[28] Mettendo la maiuscola alle categorie sociologiche si intende esprimere una certa critica ai processi di “ipostatizzazione” (di idealizzazione e di eliminazione delle contraddizioni interne) a cui tali categorie sono state spesso sottoposte.