Jason W. Moore | Rapporti di valore nell’ecologia-mondo capitalista: un abbozzo
Tratto da Jason W. Moore, Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nella crisi planetaria, Introduzione e cura di Alessandro Barbero e Emanuele Leonardi, Ombre corte, 2017.
Nella modernità, i rapporti di valore rappresentano un modo estremamente peculiare di organizzare la natura. Nata nel mezzo dell’ascesa del capitalismo successiva al 1450, la legge del valore permise una transizione storica senza precedenti: dalla produttività della terra alla produttività del lavoro come misura della ricchezza e del potere. Si trattò di un’ingegnosa strategia di civilizzazione, in quanto consentì la realizzazione della tecnica capitalistica – cristallizzazione di strumenti e idee, potere e natura – per appropriarsi della ricchezza della natura non mercificata (incluso il lavoro umano!) al servizio dello sviluppo della produttività del lavoro all’interno della zona di mercificazione. Il grande balzo in avanti per quanto riguarda la scala, gli obiettivi e la velocità delle trasformazioni ambientali e biologiche nei tre secoli dopo il 1450 – passando dalla Polonia al Brasile, e dalla pesca del merluzzo nell’Atlantico del nord alle isole delle spezie del sud-est asiatico – può essere inteso in questa luce (Moore 2010a, 2010b, 2013a, 2013b).
Tali trasformazioni sono state le espressioni epocali di una nuova legge del valore che riconfigurò la natura umana ed extra-umana non mercificata (schiavi, foreste, terreni) al servizio della produttività del lavoro. La nuova legge del valore possedeva caratteri spettacolari. Mai prima di allora una civiltà si trovò a negoziare una tale transizione dalla produttività della terra a quella del lavoro come misura della ricchezza. Questa unità di misura strategica – il valore – orientò l’intera Europa nord-occidentale verso un’altrettanto strana conquista dello spazio. Questa strana conquista fu quella che Marx (2012) definì la “distruzione dello spazio per mezzo del tempo”, per cui nel lungo XVI secolo possiamo osservare una nuova forma di temporalità – il tempo astratto – prendere piede (Landes 1983). Mentre tutte le civiltà, in qualche modo, sono costruite per espandersi attraverso varie topografie, nessuna di esse rappresentò tali topografie come esterne e progressivamente astratte nel modo in cui queste dominarono la prassi geografica del primo capitalismo. La genialità della strategia della “natura a buon mercato” del capitalismo fu la rappresentazione del tempo come lineare, dello spazio come piatto e della natura come esterna (Mumford 1961; Merchant 1988; Pickles 2004).
Si trattò di una particolare forma del “trucco di Dio [God-trick]” (Haraway 1988, p. 581), con il sapere borghese a rappresentare il suo marchio speciale di quantificazione e la ragione scientifica ad autocelebrarsi come specchio del mondo – lo stesso mondo poi rimodellato dalle rivoluzioni scientifiche della prima modernità in alleanza con gli imperi e i capitali. Il “trucco di Dio” era opera del carattere sociale astratto.
Con il tempo astratto, in altre parole, sarebbe arrivato lo spazio astratto (Lefebvre 1976). Insieme sono stati i corollari indispensabili alla bizzarra cristallizzazione delle nature umana ed extra-umana nella forma del lavoro sociale astratto. Fu questa legge del valore in ascesa – operante come un campo gravitazionale più che come un meccanismo – che sostenne le straordinarie rivoluzioni territoriali e biologiche della prima modernità. Malgrado le fantasiose interpretazioni storiche del dibattito sull’Antropocene e il suo modello idealizzato di una modernità durata due secoli (Steffen et al. 2011), le origini della strategia capitalistica della natura a buon mercato e degli attuali squilibri biosferici vanno ricercate nel lungo XVI secolo. La questione non è quella delle cause antropogeniche – che presuppongono una fittizia unità umana – ma quella dei rapporti di capitale e di potere. Il problema non è l’Antropocene, ma il Capitalocene.
“L’era del Capitale” si è fondata sul rapporto che consente grandi balzi nella crescita della produttività del lavoro e ancora più nella produzione delle “nature a buon mercato”, prime fra tutte quelle che ho chiamato i “quattro fattori a buon mercato”: la forza-lavoro, il cibo, l’energia e le materie prime (Moore 2015). Il problema è che le relazioni capitale-lavoro non sono ben attrezzate per mappare, codificare, indagare, quantificare, individuare e facilitare nuove fonti di natura a buon mercato. Quest’ultima ha, fondamentalmente, coinvolto tutti i tipi di pratiche conoscitive, strettamente connesse, ma irriducibili al potere territoriale (Parenti 2014), in cui la riproduzione allargata della relazione fra capitale e lavoro non retribuito è stata centrale. Questo è il terreno storico della natura sociale astratta e dell’accumulazione per appropriazione.
L’idea della natura come esterna ha funzionato così efficacemente perché la condizione per l’auto-espansione del capitale è la localizzazione e la produzione di “nature a buon mercato”. (Un ovvio processo co-produttivo). Poiché queste nature sono storiche e di conseguenza finite, l’esaurimento di una natura storica spinge velocemente alla “scoperta” di nuove nature che offrano al rapporto di valore fonti ancora intatte di lavoro non retribuito.
Così è stato dai Kew Gardens dell’egemonia britannica ai centri di ricerca agricola internazionali dell’egemonia americana, che un po’ alla volta sono stati sostituiti da pratiche di bioprospezione, ricerca di rendite e mappatura dei genomi nel periodo neoliberale (Brockway 1979; Kloppenburg 1988; McAfee 1999, 2003.) Questo significa non solo che il capitalismo è connesso con una natura storicamente specifica, ma che in tale situazione si trovano anche le sue specifiche fasi di sviluppo. Ogni lungo secolo di accumulazione non “attinge a” una natura esterna che esiste come un magazzino di risorse prestabilite. Piuttosto, ogni lunga ondata crea – ed è creata da – una natura storica che offre un nuovo, specifico insieme di vincoli e opportunità. Le strategie di accumulazione che funzionano all’inizio di un ciclo – creando particolari nature storiche attraverso scienza, tecnologia e nuove forme di territorialità e governance (natura sociale astratta) – progressivamente esauriscono i rapporti di riproduzione che forniscono lavoro, cibo, energia e materie prime “a buon mercato”. A un certo punto, questo esaurimento si registra nell’aumento dei prezzi delle materie prime.
Questa visione di una natura come oggetto esterno, benché si sia dimostrata falsa in termini di metodo storico, è stata un momento fondamentale per l’ascesa del capitalismo. Qui possiamo vedere le idee come forza materiale (Marx 1987b). La prassi-mondo del primo capitalismo, fondendo codificazione simbolica e iscrizione materiale, conduce a un’audace feticizzazione della natura. Ciò si espresse, drammaticamente, nell’era delle rivoluzioni cartografica, scientifica e quantificante. Questi furono i momenti simbolici dell’accumulazione originaria, che comportò un nuovo sistema intellettuale il cui assunto fondamentale fu la separazione tra esseri umani e resto della natura. Per il materialismo moderno delle origini il punto non era soltanto interpretare il mondo, ma controllarlo: “diventare [noi stessi] padroni e possessori della natura” (Descartes 1969, p. 175). Si tratta di una visione potente, così potente che ancora oggi l’immagine moderna della natura come effettivamente esterna rispetto all’attività umana appare interiorizzata da molti studiosi del cambiamento ambientale (Steffen et al 2011b).
Le origini della natura a buon mercato sono, naturalmente, molto più che intellettuali e simboliche. Il superamento delle frontiere intellettuali del Medioevo fu infatti accompagnato dalla trasgressione della territorialità feudale. Sebbene l’espansione della civiltà sia in un certo senso fondamentale per tutte, nella prima fase dell’Europa moderna emerse una spinta geograficamente specifica. L’estensione del potere capitalistico a nuovi spazi non ancora mercificati divenne la linfa vitale del capitalismo. Ho considerato altrove le geografie storiche della prima fase delle frontiere delle merci (Moore 2000b, 2003a) Qui vorrei invece sottolineare due assi relazionali di queste frontiere. In primo luogo, i movimenti delle frontiere delle merci non miravano semplicemente all’estensione dei rapporti di mercato, anche se questo era fondamentale. I movimenti delle frontiere delle merci riguardarono anche, in maniera cruciale, l’estensione territoriale e le forme simboliche che si appropriarono del lavoro non retribuito per metterlo al servizio della produzione di merci. Questo lavoro non pagato poteva essere eseguito dagli esseri umani – donne o schiavi, per esempio – oppure dalle nature extra-umane come foreste, terreni, fiumi. In secondo luogo, questi movimenti delle frontiere, fin dall’inizio del capitalismo, erano essenziali per creare le forme della natura a buon mercato, i “quattro fattori”.
Quali sono le implicazioni di questa linea di pensiero per un metodo post-cartesiano che assume la legge del valore come co-prodotta dagli esseri umani e dalle nature extra-umane?
Un approccio che unisce l’appropriazione delle nature a buon mercato (inclusi gli esseri umani!) e lo sfruttamento della forza-lavoro mercificata ci permette di svelare uno dei misteri del dinamismo della prima fase del capitalismo – una civiltà con poche risorse significative o vantaggi tecnologici e tuttavia già dotata dell’epocale capacità di rimodellare paesaggi a livello planetario. L’ecologia marxizzante (Foster, Clark e York 2010) tende a ignorare il valore, allontanandosi dalla formulazione di Marx, secondo cui valore d’uso e valore di scambio rappresentano in superficie l’opposizione interna di valore d’uso e valore (Marx 1987a). La discussione di Marx in queste pagine iniziali del Capitale si spinge a così alti livelli di astrazione che credo che le implicazioni di questa “opposizione interna” non siano state sufficientemente comprese. Queste implicazioni sono esplosive. Dire che il valore e il valore d’uso sono intimamente connessi significa sostenere che il rapporto di valore comprende il rapporto tra valore e valore d’uso in un modo che si estende necessariamente ben oltre il processo di produzione immediato. Qui troviamo il collegamento che ci permette di unire determinati “modi di produzione” ad altrettanto determinati “modi di vita” in unità storicamente concrete (Marx e Engels 1971).
Ciò significa che il capitalismo può essere compreso attraverso il cambiamento della configurazione dello sfruttamento della forza-lavoro e dell’appropriazione delle nature a buon mercato – una dialettica di lavoro pagato e non pagato che richiede una spropositata espansione del secondo (appropriazione) rispetto al primo (sfruttamento). Questa realtà è indicata – nonostante le sue implicazioni per l’accumulazione siano state solo parzialmente comprese – da quelle stime ampiamente citate sul contributo economico del lavoro non retribuito svolto dagli esseri umani (Maliha e Graham 2010) e dal resto della natura (per esempio i cosiddetti “servizi ecosistemici”) (Robert et al. 1997; Costanza et al. 2014). Il calcolo quantitativo del lavoro umano non retribuito – la maggior parte del quale svolto da donne – varia tra il 70% e l’80% del Pil mondiale; quello dei “servizi ecosistemici”, invece, oscilla tra il 70% e il 250% del Pil. Le relazioni tra questi due momenti non vengono quasi mai colte (Perkins 2007); il loro ruolo nelle lunghe ondate di accumulazione è stato raramente discusso [56]. Vorrei far notare che il lavoro non retribuito comprende non soltanto i contributi attivi della riproduzione quotidiana della forza-lavoro e dei cicli produttivi agricoli o forestali. Il lavoro non retribuito comprende anche l’appropriazione di lavoro non retribuito accumulato, per esempio il fatto che i bambini raggiungono l’età adulta largamente al di fuori del sistema mercantile (si pensi all’agricoltura di sussistenza) e vengono solo successivamente coinvolti nel lavoro salariato, oppure si considerino le forme di produzione di combustibili fossili attraverso i processi biologici del pianeta.
L’appropriazione di lavoro non retribuito descrive qualcosa di più dell’importante – ma comunque troppo parziale – considerazione dei costi ambientali come invisibili, non contabilizzati (Patel 2009). Credo che a questo proposito dovremmo assumere la fondamentale intuizione del marxismo femminista: il contributo del lavoro non retribuito non è un dato originario ma attivamente prodotto dai complessi rapporti di potere, (ri)produzione e accumulazione.
Con il rischio di essere pedante, torno a dire che i “regali-omaggio” della natura non sono frutti facilmente raggiungibili che possono essere semplicemente raccolti senza molto tempo e fatica. Anzi, al contrario! Le nature a buon mercato sono attivamente prodotte dall’attività umana unita al resto della natura, e le nature umana ed extra-umana sono entrambe dotate di creatività e contingenza. La natura è troppo spesso considerata come un substrato passivo – come nella popolare metafora dell’impronta ecologica (Wackernagel e Rees 1996). Questo è un concetto modernista, riflette cioè le priorità del capitale piuttosto che la storia del capitalismo. Ma la natura non è un substrato: è il campo all’interno del quale si svolge tutta la vita. E tutto ciò che è coinvolto nella vita è attivamente, creativamente e incessantemente impegnato nella trasformazione ambientale (Levins e Lewontin 1985; Moore 2013a) – per cui, nel mondo moderno, l’ingegnosità umana (così com’è) e l’attività umana (come è stata) devono attivare il lavoro di nature particolari in modo da appropriarsi di flussi particolari di lavoro non retribuito. Tale attivazione si dà necessariamente in combinazione con le attività e la vita della natura umana ed extra-umana, presente e accumulata nel tempo.
Quali sono le implicazioni per una teoria del valore storicamente fondata? Da un lato, il capitalismo vive e muore in base alla riproduzione allargata del capitale: valore-nel-movimento. La sostanza del valore è il lavoro sociale astratto, o tempo di lavoro socialmente necessario, coinvolto nella produzione del plusvalore. Dall’altro lato, questa produzione di valore è particolare – non dà valore a tutto, ma soltanto alla forza-lavoro al servizio della produzione di merci – e pertanto poggia su una serie di svalutazioni. L’abbondanza di lavoro – la maggior parte del lavoro che orbita attorno al capitalismo – non è registrata come preziosa. Si tratta del lavoro invisibile svolto dagli esseri umani, in particolare dalle donne, ma anche del “lavoro” svolto dalle nature extra-umane. A ragione, Hribal (2003) si chiede: “gli animali sono parte della classe operaia?”. La domanda in sé mostra la combinazione di prassi tanto durature quanto assurde all’interno della legge del valore. Anche se la confusione è persistente, è ora chiaro che Marx capiva che le nature extra-umane svolgono ogni tipo di lavoro utile (ma non di valore) per la produzione capitalistica, e che tale lavoro utile è immanente al rapporto di capitale (Burkett 1999). La lettura del valore di Marx era, in altre parole, eminentemente post-cartesiana.
Tutte queste forme di lavoro de- e non valorizzato sono, comunque, al di fuori della forma valore (la merce) – esse non producono direttamente valore (a differenza di quanto sostengono Della Costa e James 1972). E tuttavia – si tratta davvero di un grande e tuttavia – il valore come lavoro astratto non può essere prodotto se non attraverso il lavoro non retribuito. Ritengo pertanto che forma e rapporto di valore non sono coincidenti; essi attraversano il rapporto tra lavoro retribuito e lavoro non retribuito, per cui la mercificazione generalizzata non può essere sostenuta se non attraverso l’incessante rivoluzionamento non solo delle forze di produzione, ma anche dei rapporti di riproduzione. La condizione storica del tempo di lavoro socialmente necessario è il lavoro non retribuito socialmente necessario. Il lavoro de-valorizzato, in questo schema, diventa un’antitesi immanente all’interno della generalizzazione della produzione e dello scambio di merci (Marx 1987a). In questa contraddizione tra la riproduzione allargata del capitale e la semplice riproduzione della vita, abbiamo “due universi, dunque, due generi di vita apparentemente estranei ma le cui masse rispettive rimandano tuttavia l’una all’altra” (Braudel 1981, p. 26). La fondamentale implicazione geografica di questa autorizzante e vincolante tensione tra lavoro retribuito e lavoro non retribuito è la necessità della trasformazione delle frontiere. Ondate ricorrenti di esaurimento socio-ecologico – inteso come l’incapacità di apportare più lavoro al capitale da parte di una data congiunzione di nature umane ed extra-umane – implicano ricorrenti ondate di espansione geografica. La strategia della frontiera della merce è stata decisiva non tanto per l’estensione della produzione di merci e del commercio in quanto tali – un comune malinteso della teoria della frontiera delle merci (Moore 2013c, 2013d). Piuttosto, le frontiere delle materie prime segnarono un cambiamento così epocale perché estesero le zone di appropriazione (il lavoro non retribuito della natura) più in fretta rispetto alle zone di mercificazione. Marx punta l’attenzione su questa dialettica cruciale quando analizza le contraddizioni della giornata lavorativa, l’emergere di svariate “patologie industriali” e la necessità di incorporare nature umane “fisicamente incorrotte” nel mondo proletario (Marx 1987a). In sostanza, il capitalismo non solo ha frontiere; esso è una civiltà della frontiera.
Non sarà sufficiente, pertanto, identificare l’influenza del lavoro sociale astratto come un fenomeno “economico”, anche se questo rimane centrale. L’interminabile strategia della frontiera del capitalismo storico si fonda infatti su una visione del mondo come illimitato: questa è il presupposto del capitale e la sua teologia della infinita sostituibilità [57]. Il lavoro sociale astratto, nella mia lettura, è l’espressione economica della legge del valore, che sarebbe storicamente impossibile in assenza di strategie di appropriazione della natura a buon mercato. Perché ciò? In sostanza, perché la creazione del tempo di lavoro socialmente necessario si costituisce attraverso lo spostamento dell’equilibrio tra lavoro umano ed extra-umano; la co-produzione di natura, in altre parole, è costitutiva del tempo di lavoro socialmente necessario. Il lavoro socialmente necessario si forma e si ri-forma dentro e attraverso la rete della vita (Moore 2013b) [58]. Le trasformazioni dei paesaggi del primo capitalismo, nella loro totalità epocale, sarebbero state impensabili senza nuovi metodi di mappatura dello spazio, controllo del tempo e catalogazione della natura esterna – e rimangono inspiegabili se lette solo in termini di mercato mondiale o di cambiamenti delle strutture di classe. La legge del valore, lungi dall’essere riducibile al lavoro sociale astratto, trova le sue necessarie condizioni di auto-espansione nella creazione e nella successiva appropriazione di nature umane ed extra-umane a buon mercato. Questi movimenti di appropriazione devono essere assicurati tramite procedure e processi extra-economici, se il capitale intende ridurre la crescita dei costi di produzione.
Con ciò mi riferisco a qualcosa di più profondo che le ricorrenti ondate di accumulazione originaria che abbiamo imparato ad accettare come fenomeno ciclico del capitalismo (De Angelis 2007). Anche queste rimangono fondamentali. Ma nella nostra dialettica tra “riproduzione allargata” e “accumulazione per espropriazione” (Harvey 2006) cruciali sono anche le conoscenze e le pratiche associate a mappatura, quantificazione e razionalizzazione delle nature umana ed extra-umana al servizio dell’accumulazione del capitale. Di qui la trinità: lavoro sociale astratto, natura sociale astratta, accumulazione originaria. Questa è il nucleo relazionale della prassi-mondo capitalistica. E quale sarebbe il compito di questa irragionevole trinità? Produrre natura a buon mercato, cioè estendere la zona di appropriazione. In sostanza, ottenere lavoro, cibo, energia e materie prime – i “quattro fattori a buon mercato” (Moore 2015) – più in fretta dell’accumulazione del surplus di capitale derivante dallo sfruttamento della forza-lavoro. Perché? Perché il tasso di sfruttamento della forza-lavoro (all’interno del sistema delle merci) tende a esaurire le capacità vitali che entrano nella produzione di valore immediato. Il capitale infatti è indifferente alla divisione cartesiana:
Il capitale non si dà pensiero della durata di vita della forza-lavoro; ciò che unicamente gli interessa è il massimo che ne può mettere in moto durante una giornata lavorativa. Ed esso raggiunge lo scopo abbreviando la durata in vita della forza-lavoro, così come un rapace agricoltore ottiene dal suolo un maggior rendimento depredandolo della sua fertilità naturale (Marx 1987a, p. 375).
Questo esaurimento potrebbe prendere la forma di un ovvio deperimento della “energia vitale” (ivi, p. 336). Più spesso, comunque, l’esaurimento si manifesta nell’incapacità di un dato complesso produttivo di mettere a frutto il crescente flusso di lavoro non retribuito – svolto dagli esseri umani e dalla natura extra-umana. Quest’ultima forma di esaurimento deriva solitamente da alcune combinazioni di lotte di classe, cambiamento biofisico e crescita dell’inerzia geografica degli ambienti urbani. In un mondo considerato senza limiti, il capitale come totalità ha evidenziato una tendenza ciclicamente definita a scovare nuove quote di “elementi vitali ancora integri” (ivi, p. 379) di manodopera, cibo, energia e materie prime a buon mercato. L’esaurimento segnala la crescita della composizione del valore del capitale, il punto di inflessione e, dunque, di declino di una data composizione produttiva nel fornire un flusso crescente di lavoro non retribuito per l’accumulazione su scala regionale [59]. Nella misura in cui le “riserve straniere” possono essere individuate e dominate, tale “degradazione della popolazione” relativa ha poca importanza (ibidem) [60]. È stato così diverso per le nature extra-umane? L’agricoltura inglese, anche se non necessariamente esaurita fisicamente, fu certamente esaurita nei termini di capacità di inviare flussi crescenti di cibo a buon mercato per l’area metropolitana della capitale a partire dai primi decenni del XIX secolo (Brinley 1993). Non sorprende, quindi, che il capitalismo britannico al suo apice alla metà del secolo abbia nutrito sé stesso sulla base delle calorie a buon mercato – grano e zucchero – fornite dalle frontiere del Nuovo Mondo nell’America Settentrionale e nei Caraibi (Cronon 1991; Mintz 1985).
Ora possiamo tracciare il collegamento tra la crescita del capitalismo e la comparsa della legge del valore. I rapporti di valore incorporano un doppio movimento di sfruttamento e appropriazione – all’interno del sistema delle merci, lo sfruttamento della forza lavoro regna sovrano, ma questa supremazia è possibile solo, data la sua tendenza all’auto-esaurimento, nella misura in cui l’appropriazione delle nature non mercificate agisce da contro-tendenza. È stato un processo difficile da discernere perché i rapporti di valore sono necessariamente più ampi della produzione immediata della forma-valore (la merce). La generalizzazione della produzione di merci è storicamente proceduta attraverso una rete espansiva dei rapporti di valore, il cui scopo e la cui scala si estendono considerevolmente al di là dell’immediato processo di produzione. McMichael espone molto bene la questione quando esamina il problema dello sviluppo capitalistico come parte della globalizzazione ineguale del lavoro salariato dialetticamente legato alla “generalizzazione delle sue condizioni di riproduzione” (1991, p. 343). La difficoltà nel condurre una simile analisi ha origine nel dualismo immanente al pensiero moderno; per costruire il capitalismo nel modo che ho suggerito bisogna superare i dualismi uomo/donna, natura/società, da cui dipende l’intero edificio del pensiero modernista (Plumwood 1993; Waring 1988). Abbiamo dunque bisogno non solo di unificare le differenti ma reciproche dialettiche del lavoro umano nel capitalismo attraverso il nesso lavoro retribuito/lavoro non retribuito – cioè lavoro “produttivo” / lavoro “riproduttivo”. Dobbiamo anche riconoscere che l’autopropulsione del capitalismo deve tutto ciò all’appropriazione e alla co-produzione di configurazioni sempre più creative del lavoro umano ed extra-umano nel corso della longue durée.
Se consideriamo il nesso lavoro retribuito/lavoro non retribuito come nostra premessa – come implicitamente indicato dagli studiosi ecologisti e dalle studiose femministe – le implicazioni sono importanti. Il capitalismo e le relazioni di valore non possono essere ridotti al rapporto tra i proprietari di capitale e i possessori di forza lavoro. Ripeto: la condizione storica del tempo di lavoro socialmente necessario è il lavoro non retribuito socialmente necessario. Questa osservazione dà luogo a un approccio al capitalismo come una unità contraddittoria di produzione e riproduzione che attraversa il confine cartesiano. La divisione fondamentale è tra la zona di lavoro retribuito (sfruttamento della forza-lavoro mercificata) e la zona di lavoro non retribuito (la riproduzione della vita). Questa unità contraddittoria funziona creando una sfera relativamente ristretta della produzione di merci all’interno della quale la forza-lavoro può determinare l’ascesa o la caduta della produttività, che può essere rappresentata (in modo imperfetto) attraverso i calcoli input-output. Questa sfera ristretta, basata sullo sfruttamento della forza-lavoro all’interno della produzione delle merci, opera all’interno della ben più ampia sfera dell’appropriazione, attraverso cui la diversità dei “beni gratuiti” della natura – inclusa la riproduzione della vita, dalla famiglia alla biosfera – può essere utilizzata per la produzione di merci, ma non totalmente capitalizzate. Perché non totalmente capitalizzata? Perché la capitalizzazione della riproduzione è soggetta alla tendenza a esaurirsi di cui abbiamo appena discusso, la quale implica una crescita della composizione del valore del capitale e segnala una situazione in cui il capitale deve sostenere una grande quota dei propri costi.
Il risultato è il seguente: questa nuova legge del valore, che attiva il tempo di lavoro socialmente necessario all’interno della produzione di merci, richiede un dominio espansivo (e in espansione) di appropriazione delle nature a buon mercato. Questo era in effetti ciò che il capitalismo sapeva fare meglio: sviluppare tecnologie e saperi eccezionalmente appropriati per identificare, codificare e razionalizzare le nature a buon mercato. Da qui il nuovo modo di vedere il mondo – inaugurato dalla prospettiva rinascimentale – che condizionò in maniera decisiva la nuova tecnica di organizzazione dell’ecologia-mondo capitalistica, manifestatasi nella rivoluzione cartografica e nella cantieristica navale della prima modernità, passando dai portolani e le caravelle ai globi di Mercatore e i galeoni, e molto altro ancora.
L’appropriazione delle nature a buon mercato fu un atto molto più creativo di quello suggerito dal linguaggio del saccheggio della dependencia (Galeano 1973; Clark Brett e Foster 2009; Moore 2010a). L’”appropriazione” rappresenta un’attività produttiva tanto quanto lo “sfruttamento”. La confisca delle ricchezze di base – chiaramente non un’invenzione del XVI secolo – non determinò alcuna base durevole per l’accumulazione infinita del capitale. Ciò che produsse un sostrato affidabile per la nuova civiltà fu l’impostazione di pratiche appropriative combinate con il mercato mondiale e le innovazioni tecnologiche orientate verso l’espansione globale. Esse inclusero dinamiche coloniali assai consapevoli della riorganizzazione delle popolazioni indigene in villaggi strategici che funzionassero come riserve di lavoro: le reducciones nelle Ande e le aldeias in Brasile (Gade e Escobar 1982; Schwarz Stuart 1978). Queste pratiche comportarono l’aumento della produttività del lavoro all’interno della sola zona di interesse del capitale: l’area della mercificazione. Non importava quanto orribili fossero i livelli di mortalità che accompagnavano la crescita della produttività del lavoro, fintanto che i costi di appropriazione – attraverso i traffici di indigeni e di schiavi africani – rimanevano sufficientemente bassi (Schwarz Stuart 1985).
Ciò pone un problema non solo per la storiografia economica ma anche per l’economia politica marxista. Ci vengono offerte, nella lettura convenzionale di Marx, due categorie per la produzione di plusvalore: assoluta (più ore lavorate) e relativa (più merci prodotte nella stessa quantità di tempo di lavoro). Per una buona ragione, Marx si concentra sulle tendenze di fondo in gioco nella crescita dell’industria su larga scala, e tale attenzione è stata da allora riprodotta. Ma Marx si dirige anche verso la teoria del tasso di sfruttamento che si fonda sulla dialettica tra lavoro umano e nature extra-umane. In questa teoria, la fertilità del suolo potrebbe “agire come un aumento del capitale fisso” (Marx 2012, p. 517). Possiamo prendere questo riferimento alla fertilità del suolo come una espressione sintetica delle capacità vitali della natura umana ed extra-umana. Anche laddove questa fertilità era in qualche modo “data”, essa risultava ugualmente co-prodotta: come la fertilità di Bahia del XVII secolo o del Midwest americano e delle Grandi Pianure del XIX secolo. Senza la rivoluzione cartografica e cantieristico-navale del lungo XVI secolo, o senza quella della ferrovia e della razionalizzazione dei territori d’America nel lungo XIX secolo, l’abbondanza di queste frontiere sarebbe rimasta nient’altro che potenziale. Le tecnologie hard e soft aumentarono la produttività del lavoro incanalando le capacità di queste nature verso il lavoro non retribuito. Era tuttavia necessario uno sforzo per fare in modo che il lavoro di queste nature fosse gratuito, e questa fu l’innovazione alla base del progresso tecnologico del primo capitalismo. Le frontiere dello zucchero e dei cereali rimodellarono il mondo semplicemente attraverso uno straordinario movimento di capitale, conoscenza ed esseri umani, ciascun movimento un poderoso dispendio di energia volto a trasformare il lavoro della natura in capitale della borghesia. Certo, il carbone e il petrolio sono esempi drammatici di questo processo di appropriazione di lavoro non retribuito, inteso in tale contesto relazionale. Ma quest’osservazione – ossia che i combustibili fossili sono stati centrali nei grandi balzi della produttività del lavoro – diventa un feticcio quando gli stessi metodi non si applichino anche per la fase iniziale del capitalismo.
La conseguenza è un enorme punto debole del pensiero radicale: la grande rivoluzione della produttività del lavoro nel primo capitalismo è quasi universalmente ignorata [61]. Perché? Perché i nostri quadri concettuali e narrativi sono stati largamente incapaci (o forse indisponibili?) di considerare il lavoro non retribuito nei rapporti di valore. La sfida è di internalizzare, nelle nostre strutture narrative e strategie analitiche, come le configurazioni di lavoro retribuito e non retribuito si stabilizzano, e sono ciclicamente ristrutturate, dai regimi produttivi che si susseguono all’interno del capitalismo storico. Tornando al nostro assetto moderno, potremmo chiederci: come dar conto, analiticamente, dell’inattesa fertilità dei terreni massapé del Brasile del XVII secolo? Dei contributi delle famiglie dei mitayos (manodopera coatta e salariata) che viaggiavano verso le miniere di Potosí? Delle foreste della Norvegia e del Baltico convertite a centri e cantieri navali della Repubblica delle Sette Province Unite? Della manodopera agricola contadina delle campagne svedesi utilizzata fuori stagione nella produzione di ferro, il cui costo del lavoro era proporzionalmente molto più basso rispetto a quello dei concorrenti inglesi? E infine, forse nel modo più spettacolare – sto di nuovo violando il confine cartesiano -, delle famiglie africane i cui figli furono forzati al lavoro nelle piantagioni?
Questa rivoluzione moderna della produttività del lavoro attivò non soltanto la specializzazione smithiana, il cambiamento tecnologico e l’innovazione organizzativa, ma anche la nuova tecnica del valore tramite cui la natura a buon mercato fu mappata, organizzata e appropriata. La “fertilità” delle nature a buon mercato era la base per l’avanzamento produttivo all’interno della zona della mercificazione. Forse inavvertitamente, Clark offre un contrasto illuminante a proposito della produttività del lavoro, rilevata attraverso una misurazione delle calorie. In un passaggio che potremmo ritrovare in una qualsiasi critica energetica dell’agricoltura industriale (Pimentel 1973), Clark nota come il rapporto “lavoratore-ora” nelle campagne inglesi del 1800 si sarebbe attestato a circa 2600 calorie, basate su grano, latte e prodotti cerealicoli. Ben diversamente, il rapporto “lavoratore-ora” dell’agricoltura nomade al volgere del secolo in Brasile, per la coltivazione di manioca, mais e patate dolci, sarebbe stato ovunque tra le 7000 e le 17000 calorie.
Cosa significa tutto ciò? Prima di tutto, che una delle ragioni chiave del consolidamento del capitalismo durante la prima età moderna sta nell’abilità di appropriarsi delle straordinarie potenzialità delle nature non mercificate a livello planetario. Se l’Europa del XVI secolo fu eccezionale dal punto di vista tecnologico, fu per questo motivo. Il cibo è un buon esempio, in quanto la misurazione è relativamente semplice, ma l’appropriazione delle ore di lavoro potrebbe essere estesa a tutti i settori merceologici nella prima fase del capitalismo. Come avrebbe potuto variare la produttività ora-lavoro per la produzione di legname tra le foreste cedui inglesi e le foreste norvegesi relativamente poco controllate alla fine del XVI secolo? Oppure, tra le miniere d’argento europee sovrasfruttate e quelle del Cerro Rico di Potosí intorno al 1550? Certo, queste differenze non furono affatto “prodotte” in modo lineare e predeterminato. Ma nemmeno queste abbondanti frontiere erano semplicemente lì per essere prese. Esse furono co-prodotte.
Ci fu necessariamente un misto di serendipità e strategia in gioco nella rivoluzione della produttività del primo capitalismo: serendipità nella misura in cui le colture del Nuovo Mondo come il mais, le patate e la manioca erano ad alto rendimento; e strategia nella misura in cui le nuove frontiere delle merci (zucchero e argento su tutte) costruirono attivamente il loro sistema produttivo attorno a tali colture ad alta resa. Ma anche laddove furono introdotte le colture del Vecchio Mondo – nel Perù coloniale gli spagnoli adoravano il pane fatto con farina di grano – i rendimenti iniziali erano straordinariamente elevati (un ordine di grandezza superiore alla media europea), rimanendo tali per la prima e lunga ondata di dominazione coloniale (1545-1640) (Super 1988; Moore 2011e). Questo punto non può essere sopravvalutato: l’introduzione di cibo “a buon mercato”, come strategia civilizzatrice “agisce come un aumento nel capitale fisso”. La diminuzione del prezzo dei prodotti alimentari (composizione del valore) corrisponde a un aumento della produttività del lavoro e del tasso di sfruttamento.
Il trucco? La riduzione del prezzo dei prodotti alimentari – insieme alle materie prime e all’energia – non può essere compiuta con soli mezzi economici e territoriali. Il “cibo a buon mercato” e la “natura a buon mercato” nel progetto capitalista possono essere realizzate unicamente attraverso regimi simbolici di natura sociale astratta. Questi comprendono l’”accumulazione originaria della conoscenza botanica” organizzata dai giardini botanici iberici (Cañizares-Esguerra 2004, 2006), la comparsa di una nuova “mappa della coscienza” (Pickles 2004) “la morte della natura”, inaugurata dal materialismo agli inizi dell’epoca moderna (Merchant 1988), e molto altro. In seguito, avremo modo e motivo di ritornare sulla questione della natura sociale astratta.
La legge del valore in formazione durante la prima fase del capitalismo – e dopo – si è dispiegata attraverso due movimenti simultanei, che corrispondo alla dialettica di valore/non-valore. Quest’ultimo è “prodotto” dalla zona di appropriazione che è la condizione del valore, quanto la zona di sfruttamento; essa riguarda il lavoro non retribuito di tutti gli esseri umani, e in particolare il “lavoro delle donne”. Il capitalismo storico è stato in grado di risolvere le sue crisi ricorrenti perché agenzie territorialiste e capitaliste sono state in grado di estendere la zona di appropriazione in modo più veloce rispetto alla zona di sfruttamento. Per questo motivo il capitalismo è stato in grado di superare gli apparentemente insormontabili “limiti naturali” attraverso appropriazioni coercitive e intensive della natura globale, arrivando alla produzione dei “quattro fattori a buon mercato”: forza-lavoro, cibo, energia e materie prime (Moore 2012). I “quattro fattori” sono prodotti tramite una più rapida estensione della zona di “accumulazione per appropriazione” rispetto a quella di “accumulazione per capitalizzazione” (Moore 2011a, 2011b). Le significative estensioni nella zona di appropriazione risolvono le crisi del capitalismo attraverso la realizzazione di un notevole – e necessariamente di breve durata – trucco: l’appropriazione “funziona” nella misura in cui controlla e canalizza, ma non capitalizza immediatamente, la riproduzione delle capacità vitali a beneficio dell’accumulazione. La modernità è in questo senso un progetto potente di “codificazione e controllo”, che realizza la più ampia gamma di procedure di quantificazione e classificazione orientate all’identificazione, alla messa in sicurezza e alla regolazione delle nature umana ed extra-umana al servizio dell’accumulazione. Quest’ultimo è il terreno della natura sociale astratta.
Note
[56] Per quanto riguarda il lavoro non retribuito, si vedano Caffentzis (2013) e O’Hara (1995).
[57] Gran parte dell’economia ecologica può essere letta come una critica nei confronti di questa teologia della sostituibilità. Un’utile introduzione si trova in Daly e Farley (2004) e anche in Perelman (2007). [Si veda inoltre infra nota 23, p. 118, N.d.C.].
[58] “E precisamente, per lo scopo che ci prefiggiamo, il processo di riproduzione deve considerarsi sia dal punto di vista della reintegrazione del valore, sia da quello della sostituzione della materia, degli elementi singoli, di M’” (Marx 1987b, p. 475).
[59] Questo spiega molto delle ricorrenti ondate di finanziarizzazione nelle fasi di declino dell’egemonia mondiale. Nelle loro rispettive belles époques, le egemonie olandese, britannica e statunitense godettero ciascuna di rinnovamenti nell’accumulazione da parte dei capitalisti nei loro rispettivi luoghi geografici, dispiegando mezzi finanziari per garantire i frutti delle espansioni agro-industriali, sulla base di nuove appropriazioni di natura a buon mercato in altre parti del mondo (Arrighi 2014).
[60] Naturalmente dovremmo fare attenzione alle dinamiche che riducono i costi del lavoro, che risiedono nelle innovazioni tecnologiche al centro dei settori industriali, accanto alle politiche di classe e alle iniziative imperiali per allargare la sfera dell’appropriazione. Così, attorno alla metà del XVIII secolo, i costi del lavoro per il capitale inglese erano del 60% più alti che nel continente, cosa che incoraggiò gli sforzi per meccanizzare la produzione (Allen 2011). Ciononostante, la nuova fase di industrializzazione concentrò il vapore in quelle regioni dell’Inghilterra – come nelle Midlands settentrionali – dove i salari erano relativamente inferiori a quelli dell’Inghilterra meridionale (Hunt 1986). Eppure, tale meccanizzazione fu possibile, in larga misura, soprattutto dopo il 1780, grazie alle innovazioni tecniche che, probabilmente, comportarono tanto “risparmio di capitale” quanto “risparmio di lavoro” (Von Tunzelmann 1981), almeno fino al 1830 (Deane 1973). Nel tessile, ci troviamo chiaramente di fronte a una crescita della produttività del lavoro. Ma anche qui la composizione tecnica del capitale (la massa dei macchinari) potrebbe essere aumentata molto più velocemente della sua composizione di valore, a causa delle opportunità di appropriarsi di energia e ferro a basso costo attraverso il nesso carbone/macchina a vapore/ferro. Abbiamo quindi inevitabilmente a che fare con una serie di innovazioni tecniche a cascata che comportano contemporaneamente una riduzione del valore della forza-lavoro dei restanti “tre fattori”. Queste cascate – necessariamente e irriducibilmente – si estendono ben al di là di qualsiasi quadro settoriale o nazionale, includendo il rapporto produzione/riproduzione nelle colonie ancora poco mercificate o nelle zone di frontiera.
[61] Questa rivoluzione è in effetti in gran parte non riconosciuta (fa eccezione Landes 2002). Perché questo punto cieco? Da un lato, la storiografia economica rimane saldamente eurocentrica, metodologicamente nazionalista e feticista rispetto alla dimensione quantitativa. Dall’altro lato, essa è stata incapace di comprendere a fondo il ruolo del lavoro non retribuito, assicurato da connotati extra-economici che includono, ma pure oltrepassano, i processi di accumulazione originaria.