Renzo Del Carria | Il delitto Matteotti
Tratto da Renzo Del Carria, Proletari senza rivoluzione. Storia delle classi subalterne italiane dal 1860 al 1950, vol. 2, Edizioni Oriente, Milano, 1970.
Ma quando, con la frode e la violenza, sembra ormai consolidata la vittoria fascista, avviene un episodio che porta il regime sull’orlo del crollo. Il 21 maggio si apre la Camera eletta con le elezioni-truffa e, come di consuetudine, la seduta si inizia con la convalida degli eletti. Questa convalida, che normalmente aveva un carattere di ordinaria amministrazione, è presa dall’opposizione come occasione per denunciare le violenze fasciste ed invalidare le elezioni. L’elemento di punta di tale attacco è il deputato socialista Matteotti che alla seduta del 10 maggio in un discorso di trenta minuti (che dura però due ore per le continue interruzioni dei fascisti) con coraggio fisico ed ardore polemico, elenca tutte le violenze e le illegalità compiute dai fascisti durante la campagna elettorale e chiede che le elezioni vengano invalidate in blocco.
Il 7 giugno si chiude la discussione alla Camera, che dà naturalmente la maggioranza ai fascisti, ed il 10 giugno avviene la scomparsa di Matteotti. Il giorno dopo il suo discorso, sul «Popolo d’Italia» era testualmente scritto: «Se l’On. Matteotti avesse la testa rotta, ma veramente rotta, non se ne meravigli». Matteotti è ora sparito. Un’ondata di commozione serpeggia nel paese (così facile ad improvvise emozioni e ad altrettanti improvvisi disinteressi) che accusa della scomparsa i fascisti, man mano che passano le ore ed i giorni. L’On. Chiesa, repubblicano, grida alla Camera rivolto al capo del fascismo: «Risponda il Capo del Governo. Risponda! Tace: è complice», e naturalmente è picchiato dai fascisti. La Milizia viene mobilitata in tutta Italia; ma solo un 20% degli effettivi si presenta alla chiamata. Secondo il bilancio che ne fa Gramsci su «L’Ordine Nuovo», a Roma si presentano alle caserme solo ottocento militi e analogamente in tutte le località italiane, ad eccezione di alcune province agrarie (come Grosseto e Perugia) dove la mobilitazione dà buoni risultati, consentendo al fascismo di far calare su Roma qualche legione. Si dovrà arrivare al 16 agosto per ritrovare il corpo sfigurato di Matteotti in un bosco lontano da Roma.
Cos’era avvenuto? Lo possiamo ricostruire da quanto è emerso dai processi durante e dopo il fascismo. Dumini, noto squadrista, aveva avuto l’incarico, secondo quanto lui stesso raccontò a Filippelli, di «dare una lezione» a Matteotti l’indomani del discorso. Insieme a altri scherani avevano atteso il deputato vicino a casa e lo avevano costretto con la forza a salire sulla loro auto. Mentre l’automobile partiva a gran velocità, gli squadristi avevano percosso a morte Matteotti che cercava di resistere. Il cadavere sfigurato sarà poi abbandonato in un bosco a molti chilometri da Roma dove verrà ritrovato, scarnificato, 65 giorni dopo.
La notizia della scomparsa prima, il dubbio del delitto poi e infine la certezza dell’uccisione con il rinvenimento del cadavere, suscitano in tutto il paese un’ondata di orrore, di indignazione e di commozione e, investendo il regime, lo fanno scricchiolare dalle fondamenta. Sorgono in numerose località del paese comitati di opposizione. Il 18 giugno i partiti ed i gruppi antifascisti si impegnano per un’azione comune. Il 27 giugno si riuniscono nell’aula B di Montecitorio tutti i deputati antifascisti (che non avevano per protesta più partecipato ai lavori della Camera) per la commemorazione dello scomparso, che è tenuta da Turati. Sono presenti tutti i deputati dei gruppi popolare, socialista, repubblicano, comunista e demo-liberale di opposizione. La mozione, letta dall’On. Tupini ed approvata all’unanimità, chiede l’abolizione della milizia fascista, la repressione di ogni illegalismo, le dimissioni del Governo e nuove elezioni fatte con la proporzionale. Nasce così « l’Aventino » come opposizione morale al fascismo «l’Aventino delle coscienze» lo chiamò Turati in quella stessa riunione) e si chiamò così volendosi ricollegare a quell’altro, dell’epoca romana, quando i dirigenti della plebe si erano staccati dai patrizi e si erano ritirati in secessione sul colle di quel nome.
Ci voleva ben altro però per abbattere il fascismo! Questi, malgrado tutto, aveva ancora la fiducia della Corona, del Papato, degli industriali e degli agrari ed aveva al suo servizio tutto l’apparato dello Stato, oltre alla Milizia. Per Mussolini era sufficiente durare. Comincia così la sua politica temporeggiatrice: il 30 giugno allarga il governo attraverso un rimpasto, con alcuni liberali, clericali e nazionalisti. Poi, col trascorrere dei mesi, riprende l’iniziativa: il 31 agosto, in un discorso ai fascisti del Monte Amiata, taccia gli oppositori di «impotenti» e minaccia che il giorno in cui «fossero usciti dalla vociferazione molesta, per andare alle cose concrete, quel giorno di costoro se ne sarebbe fatto lo strame per gli accampamenti delle camicie nere». L’Aventino non ha nessuna base politica su cui appoggiarsi, salvo lo sdegno della grande maggioranza del popolo italiano. L’unica possibilità di successo può venire solo dall’appello alle masse degli operai, dei contadini, del ceto medio e degli intellettuali, indignati e decisi a rovesciare il fascismo; l’unica strada da percorrere è la mobilitazione del popolo, attraverso larghe manifestazioni di massa, scioperi e, occorrendo (e sarebbe sicuramente occorso) l’armamento degli elementi antifascisti più agguerriti e decisi nell’ipotesi che la milizia si fosse opposta. Invece l’Aventino conta solo sul Re, che avrebbe dovuto licenziare Mussolini, così come due anni prima l’aveva chiamato. Tale visione è una pura illusione, come del resto è dimostrato dal fatto che nel rimpasto era entrato nel governo fascista illiberale Alessandro Casati che non poteva che avere avuto il consenso della Corona a questo passo. Lo stesso Papa Pio XI interverrà alcuni mesi dopo (9 settembre) condannando la possibilità di un’alleanza antifascista tra cattolici popolari e socialisti, dopo che il 25 giugno «l’Osservatore Romano» aveva messo gli Aventiniani in guardia dal «fatale salto nel buio». Del resto già a fine giugno, e cioè nel pieno della crisi di sfiducia al fascismo, l’atteggiamento del papato era stato di appoggio al traballante Mussolini: il Papa aveva declinato una richiesta di udienza avanzata dalla vedova di Matteotti ed il Cardinale Gasparri, in una udienza al corpo diplomatico, aveva escluso l’opportunità della caduta del governo fascista.
Verso l’appello alle masse invece gli aventiniani hanno profonda sfiducia, anzi meglio ne hanno terrore. Temono che, se il popolo viene mobilitato con un’azione e un appello insurrezionale contro il fascismo, il popolo stesso possa fare «la propria» rivoluzione. Temono cioè che le azioni di massa, gli scioperi e i combattimenti di strada antifascisti si mutino in un movimento per il socialismo. Rimangono così prigionieri della loro paura di classe. In una riunione dell’Aventino a Gramsci, che aveva proposto di far ricorso alle masse, l’On. Amendola replica: «Chi dominerà le masse una volta in movimento?». Sul giornale socialista «Giustizia», in quei mesi, si legge: «Noi non vogliamo mettere in movimento le masse, perché quando sono scatenate non si è sicuri se si fermeranno a Kerenski, andranno sino a Lenin o oltrepasseranno anche Lenin». Del resto Mussolini, con chiara visione politica, afferma nel suo discorso del luglio 1924: «Cosa fanno i nostri avversari? Scatenano scioperi generali o per lo meno scioperi parziali? Organizzano manifestazioni di piazza? Tentano di provocare rivolte nell’Esercito? Nulla di tutto questo. Essi si limitano a una campagna di stampa». L’Aventino aveva una sola strada: costituirsi in vero parlamento del popolo contro il parlamento-truffa fascista e opporre alla forza la forza portando il popolo italiano, che in quei mesi era per nove decimi antifascista (la valutazione è del Nitti), a combattere su tutte le piazze d’Italia contro i fascisti, scoraggiati e divisi, e occorrendo contro quella parte della polizia e dell’esercito maggiormente fascistizzata. Dopodiché forse si sarebbe mosso anche il Re. In caso diverso il Re avrebbe continuato ad avallare il fascismo; così come fu. Del resto un sintomo inequivocabile della volontà della Corona si ebbe quando il Senato alla fine di giugno confermò la fiducia al fascismo con 225 voti (tra cui quello di Croce) contro 21. Cionostante l’Aventino, forte della sua opposizione morale, continuò a puntare sul Re. La cecità della vecchia classe dirigente non poteva essere maggiore! [153]
D’altra parte o l’opposizione rimaneva a lottare nel parlamento oppure, come avvenne, si ritirava sull’«Aventino»; in questo caso però l’Aventino non poteva che diventare l’Antiparlamento, pena l’abdicare alla lotta in un’opposizione sterile, in una protesta morale, priva di mordente e di prospettiva politica. Il tempo lavorava per Mussolini rimasto abbarbicato saldamente al governo e pressato dagli estremisti squadristi, soprattutto emiliani, guidati dal Farinacci che chiedevano una seconda ondata con la morte fisica degli oppositori e la distruzione dei loro giornali. Passa così l’estate e l’autunno senza che «l’opposizione morale» rechi alcuna seria minaccia al fascismo, senza che Mussolini lasci il governo e senza che il Re gli tolga la fiducia.
Mussolini sollecita l’estremismo di Farinacci, mentre ufficialmente posa a pacificatore: continua così la sua politica del doppio binario (quello legale e quello illegale) che l’aveva portato al successo prima della marcia su Roma. A novembre, alla riapertura della Camera, assenti i deputati aventiniani, vi sono solo 6 voti contrari al governo e 26 astenuti. Alla vigilia della fine dell’anno tredici consoli della milizia sollecitano a Mussolini «la seconda ondata». Poi il 3 gennaio 1925, dopo sei mesi dall’inizio della crisi, venuta ormai chiaramente per tutti alla luce l’inanità dell’opposizione aventiniana, Mussolini rompe gli indugi e pronuncia alla Camera il famoso discorso, dal quale è stato datato l’inizio della dittatura fascista: «Io dichiaro qui, al cospetto di questa assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto».
Al discorso segue la repressione. Tre giorni dopo il Ministero degli Interni riferisce che sono stati chiusi 95 circoli politici, sciolte 25 organizzazioni sovversive, chi usi 150 esercizi pubblici, effettuate 655 perquisizioni domiciliari, arrestati 111 «sovversivi».
Quale bilancio dobbiamo trarre dal semestre successivo alla morte di Matteotti? Tutti gli storici, nessuno escluso, che hanno esaminato quel periodo sono concordi nell’affermare che per cinque o sei giorni il fascismo era sembrato veramente agonizzare (il momento più acuto della crisi si deve collocare tra il 12 ed il 18 giugno) per una spinta protestataria unanime e spontanea in tutte le località grandi e piccole italiane e per lo squagliamento dei fedeli del fascismo (tutti i testimoni sono concordi che non si vide in quei giorni per le strade un distintivo fascista all’occhiello, a parte l’elemento più decisivo della pressoché totale mancata mobilitazione della Milizia [154]). Numerose sono le testimonianze dei capi dell’opposizione fatti segno in quella settimana in piena strada (in particolare a Roma e Milano) a manifestazioni di simpatia da parte di migliaia di lavoratori che si riunivano spontaneamente al grido di «Abbasso il fascismo», «Viva la libertà», mentre nessun fascista osava reagire. «Appena si fu diffusa la persuasione che Matteotti era stato assassinato da sicari del regime in tutt’Italia corse un’ondata incontenibile di indignazione. Dovunque si scioperò e si sospese il lavoro. Gli operai scioperarono a Milano e a Torino, a Roma e a Napoli, a Bari e in Sicilia. La collera portò alla lotta tutti gli strati della popolazione. A Roma gli studenti imposero l’esposizione della bandiera abbrunata all’Università: gli avvocati e i giudici si astennero dalle udienze. Sul luogo ove Matteotti era stato catturato dai suoi assassini, le donne di Roma, in file interminabili, portavano ogni giorno fasci di fiori… I gruppi dannunziani di Firenze additavano all’esecrazione del mondo civile gli assassini e i mandanti» (Grilli).
Un secondo momento di grave crisi del fascismo, anche se forse minore del primo, si ebbe nei giorni successivi il 16 agosto, quando si diffuse nel paese la notizia del ritrovamento del cadavere sfigurato di Matteotti. Un terzo momento di grave commozione si ebbe ancora a dicembre, quando fu pubblicato dall’opposizione il memoriale segreto di Cesare Rossi (ex capo dell’ufficio stampa fascista, nel frattempo incarcerato) vera e propria chiamata di correo di tutti i maggiori dirigenti del fascismo. Durante quei giorni, in ognuno dei tre periodi, le masse erano veramente in fermento e potevano essere mobilitate. Abbiamo visto come l’impotenza politica dei partiti dell’Aventino avesse lasciato passare queste giornate senza alcuna iniziativa politica.
Diversa da tutti i partiti borghesi di opposizione è la valutazione che si deve dare del comportamento politico del Partito Comunista, anche se la sua azione risultò ugualmente insufficiente. Questi era un piccolo partito, con un seguito limitato tra le masse; pure la sua azione fu molto maggiore del suo peso e le sue iniziative lo distinsero da tutti gli altri partiti antifascisti. Alla prima riunione dell’Aventino i comunisti proposero agli altri partiti la proclamazione dello sciopero generale; ma tutti gli altri gruppi la respinsero. La stessa proposta fu avanzata dai comunisti ad una riunione dei partiti antifascisti a Milano per uno sciopero della grande città industriale; ma tale proposta fu accettata solo per i socialisti da Nenni e respinta da tutti gli altri. I comunisti saranno i soli che cercheranno di fare dell’Aventino l’antiparlamento con la stessa visione politica che il Gobetti di «Rivoluzione liberale» aveva fatto prevalere nell’assemblea delle opposizioni di Torino. Anzi il 20 ottobre i comunisti presenteranno una formale richiesta agli altri gruppi di opposizione affinché l’aventino si costituisca in «un vero Parlamento delle opposizioni, Parlamento del popolo in contrasto con il Parlamento fascista»: ma tale proposta è respinta da tutti i gruppi capeggiati dai popolari che temono un’azione diretta rivoluzionaria.
Allorquando il 27 giugno l’Aventino decide di commemorare il delitto con lo sciopero in tutta Italia di dieci minuti (il Governo fascista per svuotare tale iniziativa aderisce anch’esso allo sciopero), il Partito Comunista si ribella a questa platonica ed inutile protesta e indice – lui solo perché la sua proposta non era stata accolta dagli altri gruppi – uno sciopero di un giorno con la parola d’ordine «rovesciamento del governo». Questo piccolo partito comprese la profonda volontà di lotta delle masse: allo sciopero infatti aderirono, malgrado le violenze del governo e dei fascisti locali, ben 500.000 lavoratori, cifra notevole se si pensi che l’invito proveniva da un piccolo partito che contava allora poco più di 10.000 aderenti e che aveva raccolto alle ultime elezioni solo 268.000 voti. Aderirono cioè allo sciopero il doppio di coloro che avevano votato per il P.C. d’I. e un iscritto mobilitò 50 scioperanti. La giusta linea del partito rivoluzionario aveva consentito che in pochi mesi, malgrado le violenze fasciste, gli iscritti al P.C. d’I., salissero da 11.000 a 30.000 (nell’agosto erano entrati nel partito i terzinternazionalisti con Serrati, Di Vittorio e Picelli) malgrado il clima di semi-illegalità. Quando fu chiaro che ormai l’Aventino niente avrebbe fatto di concreto e le masse stesse mostrarono di non aver più fiducia in questa opposizione di carattere puramente «morale», il Partito decide di far rientrare nel Parlamento – i propri deputati (12 novembre) per continuare da quella tribuna la battaglia contro il fascismo. Il 22 novembre 1924 il deputato comunista Molinelli legge alla Camera, in mezzo al tumulto dei deputati del governo, la dichiarazione del Partito che è un atto di accusa contro il fascismo. E non vi è giorno da allora in cui i diciannove deputati comunisti non siano presenti in aula (della quale si servono per spiegare al paese la loro opposizione), fatti oggetto a continue aggressioni. Qualche giorno prima, il 12 novembre, il deputato comunista Luigi Repossi era riuscito, in mezzo alle interruzioni dei fascisti, a commemorare Matteotti con queste parole: «Noi non viviamo nell’attesa di un compromesso borghese per il quale la borghesia invoca oggi l’intervento del re… Via il governo degli assassini e degli affamatori del popolo. Disarmo delle camicie nere; armamento del proletariato. Instaurazione di un governo degli operai e dei contadini… Ed ora commemorate pure Giacomo Matteotti, ma ricordatevi che il grido lanciato dalla madre del martire è diventato anche il grido di milioni di lavoratori: Assassini! Assassini». Dopo il colpo di stato del 3 gennaio, ancora il 14 gennaio Ruggero Grieco, in piena camera, ha la forza di affermare la «necessità dell’insurrezione e della guerra civile».
Note
[153] Con acutezza ha osservato Lelio Basso come vi fosse una completa discordanza tra i dirigenti nazionali antifascisti e la volontà e la decisione che invece incalzava dal basso e cioè dalle basi dei partiti e da tutto il popolo: «Basterà ricordare il diverso suono che davano, rispetto alle dichiarazioni votate a Roma, gli ordini del giorno votati dalle organizzazione periferiche. A Torino il 18 giugno su proposta del gruppo di ‘Rivoluzione Liberale’ veniva votata all’unanimità, nella riunione delle opposizioni, la seguente risoluzione: “L’Assemblea dei rappresentanti dei partiti, delle organizzazioni dei combattenti e delle tendenze politiche torinesi non fasciste; constatato che nell’omicidio di Giacomo Matteotti è implicata la responsabilità di tutto il governo fascista; reclama le dimissioni di Mussolini e invita i deputati della minoranza – i soli eletti legittimamente dalla volontà popolare – ad autoconvocarsi e a provvedere all’ordine del paese e al nuovo governo”).
[154] Sotto la spinta della paura e per gettare all’opinione pubblica qualche capro espiatorio Mussolini fece dimettere Finzi, sottosegretario agli Interni; così come dette le dimissioni Rossi, capo dell’Ufficio stampa. Quattro giorni dopo l’episodio Matteotti si dimise dalla carica anche il quadrunviro De Bono, direttore generale di P.S., mentre il 17 giugno Federzoni, nazionalista, sostituì Mussolini al Ministero degli Interni.