Gianfranco Pala | Introduzione a Il salario sociale
Tratto da Gianfranco Pala, Il salario sociale. La definizione di classe del valore della forza-lavoro, Laboratorio Politico, Napoli, 1995
La capacità di lavoro, se non è venduta, non è niente.
(Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi)Ciò che l’operaio scambia con il capitale è il suo stesso lavoro;
nello scambio è la capacità di disposizione su di esso: egli la aliena.
Ciò che riceve come prezzo è il valore di questa alienazione
[Karl Heinrich Marx]
Il salario, per il suo stesso carattere storico, è sociale. Dunque, l’apposizione di quest’ultimo aggettivo sembrerebbe tautologica, suona come un pleonasmo. L’essere “sociale” del salario, la sua dimensione di classe, deriva direttamente dal suo essere la categoria centrale delle società in cui predomina il modo di produzione capitalistico. L’analisi di Marx sul tema è talmente inequivocabile che occorre solo riesporla, con le sue stesse parole, aggiungendo solo quel tanto di attualizzazione, che potrebbe essere perfino ridondante, se non fosse per la dimenticanza e il travisamento in cui è caduta. Numerosi sono i luoghi da cui sono state tratte le parole di Marx; in particolare, tuttavia, si rimanda al Capitale [I-4.8.15.17/19; II-16.20; III-48], ai Lineamenti fondamentali [Q.II-26/28; Q.III-5/16; Q.VI-11.12]; e al Salario [Laboratorio politico, Napoli 1995]. Con una riscrittura della lezione marxiana troppo spesso ignorata, dimenticata o fraintesa, quindi, si può offrire quella proposizione di concetti, categorie e determinazioni economiche delle quali è inutile tentare rielaborazioni artificiose. Giacché non potrebbero essere scritte meglio, neppure per l’attualità.
Il salario racchiude in sé la forma necessaria del rapporto di capitale. É una forma di relazione, pertanto, che non riguarda il singolo lavoratore e il singolo capitalista. Il lavoratore salariato, la cui sola risorsa è la vendita della sua capacità di lavoro, non può abbandonare l’intera classe dei compratori, cioè la classe dei capitalisti, se non vuole rinunciare alla propria esistenza. Egli non appartiene a questo o a quel borghese, ma alla borghesia, alla classe borghese. Perciò nei costi di produzione del lavoro devono essere conteggiati i costi di riproduzione, per cui la “razza degli operai”, come la chiamava Adam Smith, viene posta in condizione di moltiplicarsi, di continuare a far sopravvivere gli ex-lavoratori logorati e di sostituirli con nuovi lavoratori.
I costi di produzione e di riproduzione del lavoro ammontano quindi ai costi di esistenza e di riproduzione dell’intera classe lavoratrice, del proletariato tutto: l’intero proletariato da considerare, con Marx, quasi come “specie”, o almeno la parte della specie umana che qui interessa. Sia ben chiaro che, qui, quando si dice “intera classe” ci si riferisce ai lavoratori che per esistere e riprodursi sono costretti a vendere la propria capacità di lavoro: quale che sia il tipo di attività da essi svolta e chi che sia l’acquirente, un capitalista propriamente detto o un bottegaio o un trafficante, un ente privato o pubblico o lo stato. Il prezzo di questi costi di esistenza e di riproduzione costituisce il salario. Il salario così determinato si chiama salario minimo. Questo salario minimo, dunque, vale non per il singolo individuo, ma appunto per la specie. Singoli lavoratori, milioni, forse miliardi, di proletari non ricevono abbastanza per vivere e riprodursi, accomunati dalla forma di sfruttamento specifica di questa società di classe; ma il salario dell’intera classe lavoratrice, entro i limiti delle sue oscillazioni, è uguale a questo minimo.
La definizione di salario come entità sociale è appunto rilevante, in questo senso storico reale e relativo di “minimo”, nel generale comando del capitale sul lavoro. E il senso del “generale” comando del capitale sul lavoro è da intendere pertanto quale dominanza storica del rapporto di capitale stesso, anche laddove il “capitale” in senso proprio non appaia. Non già che tutto “si fa” capitale (come ingenuamente alcuni, anche in tempi non remoti, pensavano di ripetere); è piuttosto che quella sua forma di rapporto, che si rappresenta nella figura del lavoro salariato, informa ogni relazione di prestazione di attività per altri, foss’anche lo stato stesso a costituire tale alterità. Con ogni sviluppo delle crisi, in effetti, tale comando assume sempre più evidenza mondiale; fino al punto che – e non è certo una novità odierna – la conseguente espulsione dal mercato del lavoro per molti diviene definitiva. Non solo, ma per i rimanenti più o meno occupati a fronte di più lavoro corrisponde sempre meno salario. Ogni lavoratore è spinto, osservò Marx, a fare concorrenza a se stesso in quanto membro della classe operaia.
L’essere sociale del salario, pertanto, è unicamente conseguenza dell’essere merce della forza-lavoro entro il rapporto di capitale posto come “generale” da questo modo della produzione sociale. Dunque esso è tutto interno alla contraddizione della merce stessa, a partire proprio dal luogo più specifico della riproduzione del capitale. É cioè il luogo e il motivo per cui il denaro si trasforma in capitale: l’esistenza e l’individuazione di quella merce peculiare – la forza-lavoro, appunto – che sola, allorché sia contrapposta al capitale, al non-lavoro cioè, è in grado di produrre più del proprio valore. Ma, qui, nelle società apparentemente libere e uguali in cui predomina il modo di produzione capitalistico, codesta maggior produzione di valore, e la sua conseguente appropriazione avviene per altri, come si è detto. É una classe formalmente libera e giuridicamente uguale che lo fornisce a un’altra classe. Più “sociale” di così non può essere.
Cionondimeno, quando si parla di salario si è soliti, nel senso comune, riferirsi immediatamente alla “busta-paga”: il che significa pensare al salario come alla retribuzione individuale e diretta, in forma monetaria. Il salario, inoltre, non è neppure una partecipazione del lavoratore alla merce da lui prodotta. Il salario è quella parte di merce, già preesistente, con la quale il capitalista si compera una determinata quantità di lavoro che a lui procura profitto. Che la forma salariale, soprattutto nella sua espressione in denaro, come prezzo, sia costitutiva ed essenziale per il modo di produzione capitalistico – ma anche per la mistificazione dei suoi reali rapporti di valore – è una precisa e inderogabile affermazione scientifica marxiana.
Dunque, quella forma – in quanto “forma” – risponde adeguatamente al contenuto del rapporto di capitale. Si fa così giustizia di ogni altro pseudo-criterio, dalla remunerazione del rendimento e dalla partecipazione del lavoratore al risultato dell’impresa, fino alla fruizione di una quota di reddito nazionale, e via armonizzando. La forma di salario rappresenta l’aspetto esteriore della duplicità del rapporto di lavoro col capitale: ed è precisamente questo il concetto da chiarire. D’altra parte, pur restando fermi a codesta esteriorità, anche l’economia borghese volgare sa che il salario nominale, ossia il prezzo in denaro della forza-lavoro nella sua parvenza più formale, non coincide con il salario reale, cioè con la quantità di merci che vengono realmente date in cambio del salario. Quando si parla di aumento o diminuzione del salario, non avrebbe senso riservare l’attenzione principale a quel prezzo in denaro, al salario nominale (tanto che, sotto i colpi della crisi, se ne accorse anche Keynes).
Ma neppure questa ulteriore discrepanza tra salario nominale e salario reale, come si spiegherà più diffusamente, può limitarsi, alla maniera seguìta nell’economia politica ideologicamente dominante e presso il keynesismo stesso, a una mera formalità contabile, risolta col dividere l’un per l’altro in base a un anodino e inspiegato “potere d’acquisto”. Il problema è invece connesso, come fu posto da Marx ed Engels, con il concetto di salario relativo alla capacità del capitale di rivolgere a proprio vantaggio ogni aumento di produttività, aumentando l’estorsione dell’eccedenza del prodotto del lavoratore sul suo costo. É attraverso tale relatività che si manifesta la duplicità contraddittoria della merce forza-lavoro. Ed è questo che determina la perdita di capacità sociale di acquistare merci da parte del proletariato, in rapporto all’accumulazione di capitale e all’arricchimento della borghesia.
Infatti, il salario è determinato anche dal suo rapporto col guadagno, col profitto, del capitalista. Questo è il salario relativo. Il salario reale esprime il prezzo del lavoro in rapporto al prezzo delle altre merci; il salario relativo, invece, il prezzo del lavoro immediato, in confronto col prezzo del lavoro accumulato, il valore relativo di lavoro salariato e capitale, il valore reciproco di capitalisti e proletari. Il salario reale può restare immutato, anzi può anche aumentare, e ciononostante il salario relativo può diminuire. Dunque neppure la distinzione esteriore tra salario nominale e salario reale esaurisce i rapporti sociali contenuti nel salario.
Il carattere “sociale” del salario non deve tuttavia assolutamente essere frainteso. Vi sono difatti molti, oggigiorno, che sull’onda di mode autoriproduttive e fuori mercato, intendono “abbellire” la cosa apponendo l’aggettivo sociale a forme spurie di salario o reddito garantito dallo stato, mediante prestazioni più o meno accessorie fornite a lavoratori e disoccupati, donne e giovani, cittadini e utenti. Una tal commistione di categorie (e meglio sarebbe dire una tale lista di attributi tra loro incongruenti) conduce a un pasticcio di rapporti di forza, di lotta e di diritti, di assistenzialismo e di elemosina, degno dell’ironia hegeliana sui “ferri di legno” tipici del confusionismo concettuale. Gli equivoci sul cosiddetto “stato sociale” sono strettamente connessi a codesta confusione, come si dirà meglio più avanti. Il salario non è dunque né una forma accidentale della produzione borghese (come vorrebbero i riformatori sociali utopisti), né tantomeno però una figura assoluta, naturale ed eterna (come amano far credere gli agenti della borghesia). Ma il fatto rilevante è che tutta la produzione borghese rappresenta una forma storica transitoria della produzione. Tutte le sue caratteristiche, quindi il salario, come il capitale e il profitto, la rendita, ecc., sono forme transitorie e dun¬que suscettibili di essere sop-presse a un certo punto dell’evoluzione storica. Questo insegnamen¬to marxiano sulla necessaria cadu-cità anche del capitalismo come modo di produzione è siste¬maticamente occultata dall’ideologia bor-ghese (e si capisce perché), ma è anche sempre più so¬vente dimenticata dall’antagonismo proletario (e ciò si capisce molto meno, o per niente).