Miguel Bonasso | Operazione Messico
Il capitolo del libro di Miguel Bonasso, Ricordo della morte, dedicato alla fuga di Tulio “Tucho” Valenzuela, un uomo che ha combattuto fino alla morte contro la dittatura argentina; una dittatura che non è mai finita.
El General Galtieri, que entonces era jefe de esa zona, ideó un plan por el cual tucho y otro miembro de Montoneros irían a México para señalar a los jefes montoneros refugiados allí, que los militares argentinos querían secuestrar. Edgar accedió y partió para México, dejando a Raquel y Sebastián como rehenes. Una vez en México denunció el plan a sus compañeros montoneros, sabiendo que esto significaría la muerte de Raquel y posiblemente Sebastián. Tucho volvió a la Argentina, donde fue nuevamente secuestrado. Toda la familia, excepto Sebastián que fue devuelto a sus abuelos, continúa desaparecida. [LINK]
Sabato 14 gennaio 1978, ore 12 circa. Il gruppo composto dai tre effettivi dei servizi militari (Sebastián, Daniel e Barba) e dai due prigionieri (Tucho Valenzuela e Carlos Laluf), lascia la fattoria di Funes. Valenzuela porta lo stesso documento falso che aveva al momento della cattura, a nome di Jorge Raúl Catione. Il maggiore Sebastián è il signor Ferrer; Barba si chiama Caravetta e Nacho Laluf è diventato Miguel Vila. I documenti falsi di questi ultimi sono stati stampati a Funes, utilizzando il servizio di documentazione sottratto alla colonna Rosario, dell’organizzazione montoneros.
Ore 12,30. All’aeroporto Fisherton, il gruppo viene a conoscenza che l’aereo delle linee Austral, che doveva portarli a Buenos Aires per le 13,30, è in riparazione. Decidono di percorrere i 350 chilometri via terra. Le auto ritornano, solo per alcuni minuti, alla fattoria di Funes, e poi si dirigono verso la capitale federale.
Ore 18,30. Nell’aeroporto internazionale di Ezeiza salgono sul volo Varig che li porterà a Río de Janeiro.
Ore 21. Arrivo a Río. Il personale militare prende alloggio nella camera 2701 dell’Hotel Meridien. Tucho e Nacho, all’Hotel Río Copa. Il governo brasiliano non è ancora stato messo al corrente, ma il programma è di farlo. Il maggiore Sebastián informa i componenti del commando che, in caso di complicazioni con le autorità del posto, devono chiamare un certo numero del ministero dell’Agricoltura e chiedere del tenente colonnello Ricardo Bastos Huerta. È il contatto militare del Secondo Corpo dell’Esercito argentino in Brasile, parte degli accordi tra i servizi dei due paesi.
Lunedì 16 gennaio, ore 2,30. Partenza da Río per il Guatemala su volo Pan Am con scalo in Venezuela, in ritardo di un’ora. I cinque argentini arrivano insieme in Guatemala. In questo paese non è necessaria alcuna precauzione: le relazioni tra i due governi militari sono eccellenti.
Dal Guatemala, Valenzuela telefona in Messico, al Centro Studi Generale San Martin, sede ufficiosa del Movimento. Con sua sorpresa risponde Olimpia Diaz. La Negra gli dice che ha già fatto tutto ciò che doveva e che si appresta a ritornare a Panama. Tucho l’avverte che lui è in viaggio per il Messico. Olimpia domanda: «Ti aspetto?» La risposta è decisa: «No. Ti raggiungo io a Panama». Prima di lasciare Funes, Tucho ha chiesto a Jaime: «Se vedo la Negra, vuoi che le dica qualcosa?» «No» ha risposto il Pelado «dille soltanto che sto bene.» Ovviamente, non si è arrischiato a sfiorare le sue idee di fuga.
Ore 14 (circa). Catione (Tucho) e Vila (Laluf) salgono su un altro aereo Pan Am che questa volta li porta in Messico. Il biglietto del signor Cattone ha il numero 0269403436122, emesso il 13 gennaio dall’agenzia di viaggi D.E. Johnstone di Rosario. Sebastián, Daniel e Barba si fermano in Guatemala un giorno in più. Hanno deciso di separarsi per evitare che l’arrivo di cinque argentini in gruppo possa destare l’attenzione dei servizi messicani.
Ore 15,40. L’aereo Pan Am atterra all’aeroporto Benito Juarez di Città del Messico. Entrano nella zona critica. Il generale Galtieri li ha avvertiti: «In Messico dovrete agire da clandestini, senza appoggi di alcun genere. Non è il Brasile o la Bolivia, e tantomeno l’Uruguay». Tucho e Nacho superano i controlli senza problemi. Il funzionario addetto ai passaporti non nota alcuna irregolarità, pone il timbro e consegna loro la copia rosa del visto. Salgono su un taxi, e Laluf dice: «All’Hotel Premier». Il tassista li informa che non ci sono camere libere e propone di portarli al Mayaland, «in pieno centro, un albergo come si deve». Qui occupano la stanza 404. Senza disfare le valigie, Tucho esce da solo dall’albergo per prendere contatto con l’organizzazione. Non ha alcun appuntamento prefissato. Fa ciò che si è concordato in questi casi: recarsi nella sede del Movimento, al numero 17 di Calle Alabama. L’operazione Messico entra nella fase cruciale.
— E allora, che novità ci sono dal nostro gazzettinaro del Grande Esercito?
Bonasso corrugò la fronte, guardando l’orologio: cinquantadue minuti di ritardo.
— Stavo per andarmene — disse con un sospiro.
Il Loco Galimberti scoppiò a ridere, facendo voltare i clienti della trattoria. Si era tagliato quasi a zero i capelli lunghi e ondulati. Con la sua impeccabile giacca di pelle, i pantaloni di buon taglio e il borsello alla spalla sinistra, sembrava un turista dei più rispettabili. Quando si sedette nella poltrona rosa fucsia e accese la pipa, recuperò la sua aurea leggendaria, l’atteggiamento un po’ decadente di un junker, di un cadetto aristocratico della Wermacht. I capelli coprivano a malapena la cicatrice lasciatagli da una pallottola calibro 11 25. Gli occhi azzurri brillavano di ironia. Le labbra sottili si stringevano sul bocchino della pipa. Espirò una densa boccata di fumo.
— Perché mi guardi con quella faccia da gestore di grandi magazzini? Andiamo, tu non sei un burocrate montonero. Lo sai com’è Kafkatitlán23… Mi sono inchiodato in un ingorgo da non crederci, e per giunta…
Bonasso sorrise all’ennesima scusa dell’amico.
— E per giunta non sai mai come amministrare il tempo, vero?
— Sì, questo è vero. Solo che stavolta si tratta di qualcosa di serio, di molto serio. — E all’espressione scettica dell’altro, si affrettò ad aggiungere: — Davvero. E se vuoi te lo racconto.
Aveva abbassato la voce, assumendo il suo classico atteggiamento cospirativo.
— Cos’è successo?
— Non ti dico niente, finché non la pianti con quella posa da esattore di provincia.
Bonasso si strinse nelle spalle. Tanto sapeva che la chiacchierata sarebbe stata interrotta. Non avrebbero tardato a comparire i soliti tre o quattro giovani militanti della corte del Loco, per ricevere qualche ordine secco, pronunciato con grande sicurezza. Tra una visita e l’altra, il Loco avrebbe infarcito il tutto con le sue fantasticherie, evocando amori con aristocratiche europee di sinistra, aneddoti su Perón, sparlando senza pietà delle scelte politiche dei suoi avversari nel Direttivo Nazionale, si sarebbe lamentato perché era stato messo da parte, per poi protestare sulla lentezza della cameriera. A volte le chiacchiere logorroiche di Galimberti lo affascinavano. E spesso il Loco finiva con l’indovinare i suoi pensieri.
«Mi stai guardando come fossi un personaggio da romanzo, figlio di puttana che non sei altro. Io l’ho sempre detto che tu sarai il nostro Malraux.»
E la frase rimaneva sospesa nell’aria, a metà tra il complimento e l’offesa.
Altre volte, invece, il suo parlare lo intristiva, o gli provocava l’ansia per tutte le cose che aveva ancora da fare.
«A che stai pensando?» chiedeva allora il Loco. «Di sicuro a qualche porcata per questa notte. Ricordati che gli abusi erotici indeboliscono le certezze ideologiche…»
Oppure gli stringeva forte una spalla, fissandolo negli occhi, e poi gli diceva: «Tu pensi che io me la tiro da condottiero, non è così? Non ti fiderai di me finché non mi avranno ammazzato. Anche tu sei vittima della necrofilia nazionale. Il genio che rimane vivo è fottuto. Non c’è niente di più sospetto del continuare a respirare. A sancire la gloria, ci sono solo le pompe funebri. La tomba è l’unica prova di onorabilità per gli argentini. E va bene, mi toccherà proprio morire, per farmi credere».
La cameriera portò il succo d’arancia doppio.
— Oggi mi tocca la dieta liquida — fece il Loco.
— Nient’altro? — aggiunse la ragazza, programmata per ordinazioni più sostanziose.
— Nient’altro, bimba mia. Lo stipendio del partito non mi permette di mangiare come quel maiale del tavolo a fianco.
Mentre la cameriera si allontanava indispettita, Bonasso insistette: — Mi vuoi raccontare, o hai intenzione di tenermi qui tutto il pomeriggio?
Il Loco non lo ascoltava. Era assorto nella contemplazione di due ragazze che parlavano al telefono.
— Niente male. Come fianchi, sembrerebbero argentine. Voglio dire, se lasci perdere quei pantaloni poco eccitanti, con quell’assurda scampanatura… prova a immaginarle con un paio di Pucci, o Christian Dior, e dimmi tu se… E poi, guarda come parla, la morettina. Quel labbro che trema un po’ isterico, pensa le cose perverse che potrebbe fare…
Tornò improvvisamente serio. Con l’aria da carbonaro, si decise a dirglielo.
— La squadra è in giro per Città del Messico.
— Che?!
— Sì. Ieri ero con Carlos nel Vips24 tra la San Antonio e la Revolución, e ce ne siamo dovuti scappare col pepe al culo. A un tavolo c’erano cinque gorilla inconfondibili. Di quelli che tirano di karate, jujitsu, judo, tae kwan-do e tutto il resto. Tipi che estraggono in un decimo di secondo, e prima che sbatti le palpebre ti ficcano otto colpi nella fronte.
— Non sarà una tua impressione…?
— Ti sto dicendo che c’era anche Carlos. Stanno preparando qualcosa.
— E…?
— E niente. Tanto meglio. Cominciavo a rompermi di tutta questa burocrazia da esiliati. Non c’è niente che mi dia la sveglia come il pericolo. O il potere, chiaro. Il potere è addirittura afrodisiaco…
Non finì la frase. Prese il conto e si avviò alla cassa.
Quando uscirono nel pomeriggio afoso di Città del Messico, intasata di macchine e fumo, aggiunse: — Dammi retta su questa faccenda della squadra. È una cosa seria. Tu devi vedere Buendía, e io vado a Gobernación25. Alzò lo sguardo verso un aereo che scendeva come un grasso pesce nel cielo grigio, ed esclamò: — Che città surrealista! Da un momento all’altro, piovono cani morti.
I due si allontanarono senza immaginare che entro poche ore sarebbero stati travolti dagli avvenimenti. Ciò che il Loco aveva visto, non era che un piccolo particolare dell’Operazione Messico.
Tucho uscì da quella specie di scatolone a cinque piani che era l’Hotel Mayaland, e si diresse per Calle Antonio Caso verso il Paseo de la Reforma. Era talmente concentrato nei suoi pensieri che all’incrocio per poco non fu investito da una Dodge Polara.
Camminò sui marciapiedi pieni di gente, zigzagando fra venditori di lotterie e lustrascarpe. Il pomeriggio del tenue inverno messicano cominciava a degradare verso il tramonto. I grattacieli di vetro splendevano di un oro antico, in un cielo da apocalisse che avvampava laggiù, nello squarcio di verde sul parco Chapultepéc.
Il mostro lo avvolgeva, respirava fuoco, inghiottiva il torrente di auto, occhieggiava col rosso dei suoi semafori. L’odore della metropoli sembrava l’alito greve della Morte. Nell’indaco delle pareti di un ristorante, nel grigiore della statua a Cuauhtémoc, nell’insegna spenta di un teatro di rivista, nei grumi di cemento delle diagonali, nel volto indio di alcuni passanti, vedeva la paura di essere di nuovo lì, fatale e inaspettato come una cometa di sventura.
In certi momenti cercava nella spietata mole delle banche la risposta impossibile ai suoi interrogativi, e si ritrovava con quella nausea sottile, incessante. Altre volte, si lasciava condurre dai suoi passi intorpiditi dall’angoscia per strade dove ardevano i fuochi di mille miserie. Nessuno faceva caso a quell’uomo magro e scuro, piuttosto alto, che non aveva neppure la pelle chiara da poterlo scambiare per un gringo o un argentino. La sua disperazione si confondeva tra le tante disperazioni, più antiche della sua e ormai parti integranti del paesaggio.
Ogni tanto gli appariva un frammento di sorriso, una spalla di Maria… Sebastián cominciava a sfumare nella lontananza. Più che i volti, erano i loro nomi che gli facevano male, che vuotavano le sue viscere e le scuotevano come un vento impietoso.
Fermo davanti a un giornalaio, fissava con sguardo da automa le riviste straniere, incomprensibili. Ricordò qualcosa che aveva letto sulla teoria del trampolino, la legge dei momenti limite, l’istante in cui il corpo sta per gettarsi oltre il punto di non ritorno. I colori sgargianti di una copertina acuirono l’angoscia, e lui capì che la paura cresceva come una ragnatela oscura, lo spingeva su sentieri impraticabili. Solo, in una città di diciassette milioni di abitanti, oscillava tra il ricordo delle ultime ore e i minuti che lo separavano dallo scatenarsi dell’inferno.
Sotto lo stesso cielo apocalittico, Bonasso era sceso da una Volkswagen bianca. L’aveva parcheggiata a duecento metri da Calle Alabama, più per abitudine che per motivi di sicurezza.
Era pervaso da un’ansia ossessiva: gli incarichi per i Mondiali si stavano accumulando, e il Gruppo di Lavoro meritava più la definizione di Gruppo di Riposo. Ammetteva che c’erano delle eccezioni, ma doveva lottare ogni giorno con una maggioranza di sfaticati. Galimberti lo prendeva in giro: «Sei già riuscito a diventare acido come tutti i vecchi giornalisti». Altri gli ricordavano che molti avevano mollato, e che tutti erano a pezzi. «Non puoi chiedere l’impossibile, devi capirlo.» José era stato più esplicito. Alludendo alla massa di militanti che ogni giorno, verso sera, arrivava alla casa di Alabama come una nube di zanzare, aveva sentenziato amaramente: «Un giorno molti di questi torneranno in Argentina, e non certo prima che i militari se ne siano andati. Avranno fatto i soldi coi loro lettini da psicanalisti, avranno potuto educare i figli nei migliori collegi, ovviamente nei sani principi del marxismo-leninismo, e finiranno con l’occupare i posti all’università e nel governo. Tu e io, in cambio, saremo morti da un pezzo, o ci avranno sequestrato e magari ce la saremo pure cantata, così i nostri figli si saranno sorbiti un’educazione di merda, e dovranno persino cancellare il ricordo del nostro nome». Ma lui non voleva condannarli tutti in anticipo, voleva credere che niente fosse irrevocabile. Il debole di oggi poteva diventare il forte di domani, e viceversa. Però, la mancanza di efficienza lo spingeva al limite dell’apoplessia.
Attraversò con la sua pesante cartella le due strade che lo separavano dalla casa. Era un quartiere tranquillo, incredibilmente silenzioso per essere così vicino al frastuono di Insurgentes26. Strade alberate, con le abitazioni dei ceti medi, senza le muraglie inespugnabili delle zone residenziali. Le villette a due piani erano circondate da modesti giardini, e lo stile imperante era un ibrido tra barocco e moderno, con bassorilievi arabescati in pietra di un colore malva slavato. Case che gli ricordavano quelle del quartiere di Miraflores, a Lima. Tipicamente latinoamericane, diverse dalle villette rivierasche di Martinez o Acasusso.
Quella affittata dall’MPM era l’archetipo del quartiere. Una grossa costruzione a tre piani, con un’ala che si innalzava in una torre dal tetto spiovente. Le finestre avevano le inferriate verniciate di nero, e sulla sinistra c’era una tettoia ad arco che poteva ospitare un paio di auto. Davanti, un piccolo giardino incolto, e sotto l’arco dell’entrata principale una panchina di maiolica che dava un tocco andaluso all’insieme.
All’interno, era un mezzo disastro. Una vasta sala che finiva in una scalinata da film, e ai due lati, su differenti livelli e separati da arcate, due stanzoni più piccoli. Uno era usato come sala da pranzo e l’altro per le riunioni, occupato soprattutto dai seguaci di Galimberti. Accanto al primo c’era la cucina, che dava sul cortile più grande. Prima della scala, un corridoio portava all’entrata principale. Qui si apriva una piccola stanza destinata alla segreteria dell’ufficio stampa, e un bagno maleodorante che sembrava aver sofferto un inspiegabile cataclisma. Al piano superiore c’era il salone per le riunioni del Consiglio Superiore, e altre stanze occupate dai gruppi di lavoro. La tipografia era nello scantinato, mentre la soffitta era toccata all’ufficio stampa, con l’archivio e una stanzetta da disegno.
Era incredibile come in pochi mesi avesse assunto un aspetto così decrepito. La silenziosa fatica quotidiana dei “Tíos” non poteva nulla contro la marea dei militanti, che si ostinava a lasciare ovunque tazze e bicchieri, a sfondare poltrone, a scrivere numeri di telefono sulle pareti o a dimenticare cicche accese sui tavoli. Per di più, molti venivano coi figli, e così loro dovevano farsi in quattro per preparare panini e bibite, e al tempo stesso parare i colpi dell’orda barbarica.
Ma il torrente di blue-jeans non si era ancora abbattuto sulla casa quando Bonasso attraversò l’entrata, quel pomeriggio. Il salone era in penombra, deserto, e riusciva a evocare tempi più floridi.
Il silenzio fu rotto da un bisbigliare. Il Tío S. era con uno sconosciuto, a cui si rivolgeva con evidente rispetto. Doveva essere un personaggio stimato, se il Tío aveva quell’atteggiamento. Vecchio sindacalista cresciuto sotto la bandiera rossa e nera, era solito riassumere in una frase la sua storia di militante: «Finché ero anarchico non ho mai avuto problemi. Facevo le mie storie da solo, e non mi hanno mai beccato. Poi mi sono messo coi montoneros, e mi sono fatto conoscere dagli sbirri».
— Miguel… — mormorò il Tío S.
— Come va, Tío? Tutto bene?
Il Tío S. fece un cenno perché si avvicinasse. Improvvisamente aveva assunto un atteggiamento circospetto, lui che era sempre così chiassoso e alla mano con tutti. “Ma che succede oggi, a tutti quanti?” si chiese Bonasso andando verso il tavolo.
— Conosci questo compagno? — mormorò il Tío nervoso, guardandosi attorno. Bonasso fece segno di no, e allora gli fu presentato. L’uomo indossava una giacca sportiva e una camicia a maniche lunghe, col colletto slanciato. Il volto rimaneva in penombra e brillava di sudore. Bonasso notò con una sensazione di inquietudine quel vago squilibrio che sembrava muoversi tra la bocca, gli zigomi e le sopracciglia. Lo sconosciuto parlò in tono grave.
— Forse non ti ricorderai di me, ma io ti conosco. Ero passato una volta a Noticias. Sono Tucho… nell’organizzazione ho il grado di maggiore, comandante di Rosario.
Il Tío S. confermava da dietro con cenni del capo.
Ricordando un aneddoto di quei tempi, Tucho sorrise, tranquillizzando il giornalista: aveva disteso i lineamenti, riacquistando per un attimo serenità nel volto.
— Tu sei un contatto con i compagni del Direttivo? — chiese con una sfumatura di ansia. Bonasso si irrigidì.
— Be’…
L’altro avvertì l’imbarazzo e si affrettò ad aggiungere: — Non dirmi niente. Non ti sto chiedendo di portarmi dal Pe… da loro. Non dirmi neppure se puoi localizzarli subito. Ma una cosa devo chiedertela: se puoi fare arrivare un messaggio.
Il volto di Tucho era color cenere, e la sua voce aveva un tono triste e spento. Capiva tutto: cominciava a inoltrarsi nel terreno del sospetto.
Bonasso finse di rilassarsi, ma continuava a stare in guardia.
— Non so se sarà possibile — disse.
Tucho gli prese il braccio con un gesto brusco e si avvicinò guardandolo negli occhi.
— Devi promettermi che gli farai arrivare il mio messaggio. È una questione di vita o di morte.
Bonasso si lasciò cadere sulla sedia. Tucho gli si mise accanto, a pochi centimetri.
— Ci proverò — disse l’addetto stampa.
— No — fece Tucho, con uno sguardo implorante. — Devi farlo. A ogni costo. Da questo dipende la vita di Firmenich.
L’aveva detto senza enfasi, con la semplicità delle rivelazioni più terribili. Poi si irritò: era evidente che l’altro lo stava guardando come un mitomane. Si voltò verso la cucina, come per chiedere aiuto al padrone di casa.
— Il Tío può dirti chi sono. Non sono venuto fin qui per scherzare. Ti prego! — E aggiunse con la voce incrinata: — Sono venuti per uccidere Firmenich. Io lo so… perché sono venuto con loro.
Nonostante gli sforzi, ci volle tempo per organizzare l’incontro. Fissava impaziente il piccolo apparecchio radio. Il bip-bip si faceva sentire spesso, “per stronzate”, ma adesso, proprio adesso, rimaneva silenzioso. Gli venne voglia di scaraventarlo contro il muro.
Finalmente risuonò la voce militaresca e al tempo stesso scherzosa di P., l’aiutante di Firmenich. L’appuntamento era per il mattino seguente.
Arrivò puntuale, contrariamente alle sue abitudini. E lo fu anche P. Con gli occhiali scuri, sembrava uno della squadra. Qualcuno aveva detto di lui: «Era un ragazzo in gamba, ma l’hanno trasformato in un poliziotto. Certo, in un poliziotto nostro…» P. gli fece segno di salire sulla Chevrolet, e si diressero a sud, verso Revolución, senza una meta precisa. Bonasso non perse tempo e gli raccontò lo strano incontro. P. si irrigidì.
— Allora lo sai anche tu. Bonasso si sorprese.
— Perché, voi lo sapevate già? — si azzardò a chiedere. P. contrasse i muscoli del viso.
— Ordine del Direttivo: non una parola con nessuno. Mi hai capito? — Poi sembrò rilassarsi. — L’abbiamo saputo ieri notte. Quel tipo è riuscito a vedere Manolo, e proprio Manolo aveva un appuntamento con me. — Dopo una pausa, aggiunse: — Riceverete presto ordini, per te e Galimberti.
Era una delle tipiche sparate militaresche di P.
Bonasso sorrise e si limitò a commentare: — Sembra che questo compagno faccia sul serio.
P. scrutava il traffico nello specchietto retrovisivo. Storse la bocca e sputò un: — Compagno! Altro che compagno! È un traditore figlio di puttana. — E senza smettere di guardare nello specchietto, aggiunse tra i denti: — Se lo lasciavano un po’ a me, la diceva di certo la verità. Ma noi siamo teneri, troppo teneri.
Poi gli diede un appuntamento con Galimberti.
Era notte fonda quando il taxi si fermò davanti al Mayaland.
Tucho salì gli scalini con la sensazione fisica che qualcuno lo stesse osservando. Guardò dentro il box dell’agenzia viaggi, vuoto e buio, e poi nella hall: un portiere con la faccia da divinità olmeca dormiva accanto a un centralino dei tempi della rivoluzione. Dopo un rapido sguardo alla reception, Tucho si avvicinò al bancone circolare. Nella casella 404 c’era la chiave. Quindi Nacho era uscito. Squadrò attentamente il ristorante dell’albergo, separato da una vetrata, dove sedevano due coppie e un uomo da solo. Nacho non era lì. E neppure loro. Chiese la chiave e si informò stupidamente se c’era qualche messaggio.
— Come? — fece il budda della reception, tornando da chissà quale sogno.
Si avvicinò all’ascensore incorniciato da lastre di marmo nero. In alto c’era un orologio fermo. Ai lati, due sputacchiere di metallo accentuavano la sensazione funebre.
Salì al quarto piano e percorse il corridoio in penombra, in preda a un timore infantile, aspettandosi che qualcuno gli saltasse addosso da dietro ogni angolo. Con la stessa apprensione aprì la porta e cercò a tentoni l’interruttore. Entrò solo quando la luce fu accesa. Guardò le sue poche cose sul letto. Ma non c’erano quelle di Nacho. Forse nell’armadio… Infatti, le trovò lì dentro. Perché mai non avrebbero dovuto esserci?
La stanza era squallida, ma pulita. C’era persino un televisore, in bianco e nero. Andò in bagno a lavarsi le mani. Guardò distrattamente il cartello sulla parete; acqua potabile – drink water. Serviva a tranquillizzare i turisti gringos, perseguitati dallo spettro delle amebe intestinali. I suoi spettri erano ben altri. Si bagnò le palpebre e fissò nello specchio quel viso invecchiato. “Davvero sono io? E che significa essere me stesso, e stare qui, alle dieci della sera del 16 gennaio 1978, a Città del Messico… Perché sono qui?” Si sorprese di quel ritorno all’infanzia. Verso gli otto, dieci anni, lo assaliva quella strana sensazione nel vedere la sua immagine riflessa, di trovarsi nel mondo. E sfuggiva con un salto a quella incertezza insopportabile. Era un abisso simile a quello della morte. Altrettanto incomprensibile e misterioso. Perché aveva quel volto, e non un altro? Perché quella voce, e quelle mani, e tutto attorno a lui era così, e non in un altro modo?
Per allontanare quel malessere cominciò ad appendere i pantaloni e a ripiegare i vestiti nell’armadio. La stanza, con la sua monotonia di colori tra il marrone e il nocciola, diventava sempre più opprimente. Riguardò le carte del rapporto su Rosario e sentì un brivido. Riuscì a reprimerlo a fatica. Nel portafogli aveva una foto di Maria e Sebastián sul bordo di una piscina. Come se compisse un rito, baciò le immagini fredde e lontane, e senza smettere di fissarle si lasciò cadere sul letto. Poi rimase a guardare il soffitto, atterrito da ciò che stava vivendo e tutto quello che ricordava. Quel Bonasso, gli aveva creduto? Manolo si era impegnato a passare il messaggio. Gli aveva dato appuntamento per l’indomani. Pensò con un senso di nausea che presto sarebbe tornato Nacho, e che avrebbe dovuto conviverci ancora qualche giorno, controllandosi a vicenda e mentendosi. Poi lo assalì un altro timore: e se il Direttivo gli dava un appuntamento e loro lo seguivano? E se avessero operato contro il Direttivo nonostante la manovra fosse già smascherata? Sarebbe rimasto un traditore per il resto dei suoi giorni. No, doveva riuscire. Il Direttivo non rischiava tanto facilmente la propria sicurezza. E comunque Sebastián, Daniel e Barba non avevano armi. Già, non ne avevano. Ma che poteva saperne, se adesso qualcuno gliele aveva procurate? E neppure poteva giurare che fossero solo loro tre. Magari erano la punta dell’iceberg, il vertice del gruppo, quello che avrebbe dato il segnale perché gli altri entrassero in azione. Il resto della squadra poteva già trovarsi lì, in attesa di ordini.
Cercò di tranquillizzarsi, pensando che l’allarme era già stato diramato, e tutta l’organizzazione doveva essere sul chi vive, pronta a prevenire un attentato. D’altra parte, non era sicuro che Firmenich si trovasse lì. Oppure, poteva essere partito appena saputo dell’operazione. Ma invece sentiva che era proprio in quella città, che era ancora lì, in quella metropoli smisurata, in qualche punto di quella immensa distesa di luci oltre la finestra. “No” si sforzò di credere “tutto andrà bene, come era previsto.” Però… che significava quell’andrà bene? Bene per l’organizzazione, per l’Argentina, per la rivoluzione. Ma per lui, per Maria, per il piccolo Sebastián, ormai nulla sarebbe finito bene. Pianse, ricordando che avrebbero ucciso Maria. “Forse, con Sebastián non lo faranno, lo riconsegneranno ai nonni… ma la mia Maria, l’ammazzeranno. Sarà prima di mettere al mondo la nostra creatura, o lo faranno dopo…?”
Il suo primo figlio. Se fosse sopravvissuto, l’aspettava l’ignoto. Forse un orfanotrofio, o più probabilmente la casa di qualche militare sterile che l’avrebbe adottato… Lo avrebbero educato alle loro idee, cancellando per sempre i veri genitori. “Ma è mio figlio” singhiozzò premendo il volto nel cuscino. “È il mio unico figlio, e non lo conoscerò mai.” Sapeva che non avrebbe più rivisto Maria, e che il suo stesso destino lo portava verso la morte. Se non gli credevano, forse lo avrebbero ucciso i suoi stessi compagni. Se gli credevano, lui avrebbe chiesto una missione per chiudere il cerchio. Si alzò, tormentato dal senso di colpa. Sul cuscino bagnato, c’era l’impronta della sua testa. “E se avessi fatto tutto questo solo per salvarmi, soltanto per egoismo? Se avessi ingannato me stesso e Maria, con la scusa della salvezza di tutti i compagni? E se fossi soltanto una carogna…?”
Si lanciò come un pazzo fuori dalla stanza, in preda alla nausea. Si ripeteva non è vero, non è vero.
Le porte dell’ascensore si spalancarono e andò quasi a sbattere contro il Nacho. Tutti e due trasalirono.
— Che stai facendo? — chiese Nacho, mentre teneva premuto il tasto per non far chiudere le porte automatiche.
— Scendevo… a mangiare qualcosa… E tu, dove sei stato?
— A fare un giro — mentì. — Io ho già mangiato, ma ti accompagno.
La discesa sembrò interminabile. A un certo punto Nacho domandò: — Come ti va?
— Bene… Come vuoi che vada — rispose, continuando a fissare il tasto nero con le lettere bianche P.B.27
Erano gli ultimi clienti. Chiese che cosa erano i tacos de cochinita pibil28, li ordinò e poi li lasciò a metà. Nacho non smetteva di far domande, e lui fu costretto a fingere di cascare dal sonno. Era molto tardi, quando si accorse che Nacho stava piangendo.
— Hai portato il registratore?
— Ce l’ho qui.
Il piccolo ristorante del centro era vuoto. Troppo tardi per la colazione, e troppo presto per il pranzo. Potevano parlare con relativa tranquillità.
— Ho portato le cassette del Direttivo. Ce n’è una per me, una per te, e un’altra per tutti e due.
— Le manda il Pelado Carlitos?
— Sì. Cioè, no. Una è di Carlitos, ma è per Tucho. Le istruzioni per noi le manda il Lauchón. — E Galimberti s’infervorò in una lunga considerazione sul comandante Mendizábal, alias Lauchón, che finì con un teatrale: — È proprio un uomo terribile.
— L’hai sentita? — chiese Bonasso.
— Non ancora. Ma già lo so, di che si tratta: a partire da questo momento, siamo in operativo militare. Io ne sono il responsabile. Tu sei incaricato di diffondere tutta la faccenda.
— Ci sarà una conferenza stampa?
— Sì, ma discreta. Solo per i giornalisti di fiducia. Non possiamo rischiare che operino su Tucho.
— Certo.
Ascoltarono a turno le rispettive istruzioni. Quando il Loco ordinò il suo quarto succo d’arancia, lo fece con l’espressione di chi sta per scolarsi una bottiglia di rum. La cassetta l’aveva lasciato male. Cercò la complicità.
— Guarda che è soltanto per me. Se vengono a sapere che te l’ho fatta sentire, mi rovinano. Ma voglio che ascolti l’ultima parte.
Bonasso si mise l’auricolare. Quando il nastro arrivò alla fine, era pallido come un morto. Mentre riaccendeva la pipa, il Loco lo guardò alzando le sopracciglia, come per dire: “E allora?”
Erano le 12,30 di mercoledì 18 gennaio 1978. Il D-Day. La controffensiva era partita.
Bonasso arrivò a Calle Alabama alle sei del pomeriggio. I gruppi di lavoro dell’MPM erano all’oscuro di tutto. Avevano convocato solo i membri del Consiglio Superiore residenti in Messico e i militanti scelti dell’ufficio stampa e della Gioventù Peronista. Ma a nessuno era stato rivelato il motivo della riunione. L’addetto stampa aveva selezionato quattro giornalisti: tre argentini e il messicano Luis Alberto Garcia. Erano gli unici rappresentanti della stampa presenti alla conferenza. All’influente corsivista Manuel Buendía aveva riservato un’intervista esclusiva con Tulio Valenzuela per il giorno seguente. «È una faccenda molto grave» aveva sottolineato nell’invitarli. «Però non vi posso dire in che cosa consiste, fino a questa sera.»
Il suo compito era solo quello di incontrare Tucho, offrirgli completa fiducia ed evitare che, per qualsiasi motivo, uscisse dalla sede. “È importante che Tucho si sottragga alla pressione del nemico”, pensava. “Che torni a sentirsi tutt’uno coi compagni. Se ci vede come Galtieri, come poliziotti di segno opposto siamo fottuti.”
Tucho gli era piaciuto fin dal primo momento. Una simpatia istintiva lo legava al fuggiasco. Questo sentimento diretto, più di qualsiasi altra considerazione, era fondamentale per accorciare le distanze e intavolare il dialogo. In ogni caso, a parte le parole, nessuno dei due era in mala fede: Tucho sapeva che finché non avesse dato una prova determinante della sua lealtà, era sospetto. Si trovava sotto la “libertà vigilata” che imponeva il codice rivoluzionario.
Alle otto la casa aveva ripreso il suo aspetto abituale. Guardie nascoste e altre ben visibili si disposero nei punti nevralgici. Una sentinella della Gioventù era appostata di fronte alla stanza del primo piano, da dove Tucho non era uscito da almeno due ore. Aveva istruzioni precise affinché nessuno, assolutamente nessuno, entrasse senza un ordine diretto. Due auto noleggiate entrarono nel giardino, infilandosi nel cortile. Ne scesero di corsa Galimberti e i suoi.
Tucho era già stato informato; sapeva esattamente ciò che il Direttivo voleva da lui. Venne sistemato un registratore sul tavolo, e pochi secondi dopo cominciò ad ascoltare la voce del Pelado Carlitos, il comandante Perdía. Dopo una lunga esposizione sugli obiettivi del nemico nella presente congiuntura, il numero due dell’organizzazione esortava Tucho a denunciare tutta la manovra orchestrata da Galtieri. Era doveroso farlo, in una conferenza stampa che si sarebbe tenuta quella sera stessa.
I pochi presenti non perdevano una sillaba. La tensione paralizzava l’atmosfera nella stanza. Ci furono due sole interruzioni. La prima, quando la voce del registratore disse: «Il problema della compagna e della bambina lo devi valutare alla luce degli interessi nel loro complesso…» Tucho gettò indietro il ciuffo di capelli che gli cadeva sulla fronte, e commentò con un sorriso indecifrabile: — Bambina il mio Sebastián…
L’altra fu causata dall’esterno. Il ragazzo di guardia, contravvenendo agli ordini, lasciò passare il dottor Ricardo Obregón Cano, membro del Consiglio Superiore. All’imprevisto aprirsi della porta, Galimberti spiccò un salto e si lanciò sull’intruso. Obregón si fece indietro, spaventato. L’incidente si risolse con il sorriso di entrambi.
— Deve scusarmi, dottore… Ma avevo dato ordine che non entrasse nessuno. È chiaro che non valeva per lei. Si sieda, la prego. Conosce il compagno Valenzuela?
Fermarono il registratore per le inevitabili presentazioni. Poi la voce metallica di Perdía riprese inesorabile.
Tucho si trovò d’accordo sulle linee generali. Espresse la sua contrarietà su due questioni: il dubbio che Maria potesse essere coinvolta nella manovra, e l’aver menzionato persone che, come il Pelado Dri, sembravano solo apparentemente fedeli all’organizzazione. Il criterio del Partito era quello di esaltare gli esempi di eroismo, e dimostrare che c’erano militanti che resistevano alla tortura e alle minacce di morte.
Si accordarono rapidamente sullo svolgimento della conferenza stampa, e quindi il gruppo si spostò nella sala riunioni del Consiglio, dove c’erano già gli altri convenuti. I quattro giornalisti aspettavano a pianterreno, bevendo caffè. Erano già passate le nove.
La sala era spoglia: gli unici mobili, un lungo tavolo e una grossa madia che faceva anche da libreria. In fondo, sulla sinistra, una finestra che dava sulla Calle Alabama, ovviamente chiusa.
Tucho prese posto al centro del tavolo, nel punto più lontano dalla porta. Bonasso si sedette alla sua sinistra e Galimberti alla destra. Gli altri posti furono occupati dai consiglieri Obregón Cano, Holver Martinez Borelli, Sylvia Berman, René Chávez, César Calcagno, Pablo Fernández Long e Manuel Pedreira, oltre ai quattro giornalisti di fiducia. Nessun fotografo né riprese televisive. La documentazione sonora, fotografica e filmata era a carico dell’ufficio stampa dell’MPM. Quando Rodolfo Galimberti prese la parola per presentare Valenzuela e dare inizio all’incontro, l’aria era già spessa di fumo.
Tucho cominciò a parlare con voce indecisa. La sigaretta tremava leggermente tra le sue dita. Quando stava acquistando sicurezza nell’esposizione degli eventi, fu interrotto da un incidente grottesco: uno del gruppo di lavoro del settore stampa sbagliò tasto del registratore e accese la radio. Nello spazio ristretto esplose a tutto volume un boogie-woogie assordante. Ci fu qualche risatina nervosa.
Con precisione puntigliosa, Tucho riprese dal punto in cui era stato interrotto: «Il due gennaio scorso sono stato catturato dal nemico all’ingresso dei magazzini Los Gallegos di Mar del Plata. A pochi isolati, tra l’Avenida Luro e la Catamarca, hanno preso la mia compagna, su segnalazione di quadri del Partito prigionieri del nemico…» E per oltre mezz’ora raccontò tutto, senza omettere un solo dettaglio. Parlò dei resuscitati, come il Tío Retamar, delle traversie di Jaime Dri in Uruguay e poi nella Scuola di Meccanica, degli incontri con Galtieri, delle caratteristiche dell’operazione che i servizi volevano lanciare in Messico, e delle mosse effettuate fino a quel momento.
Fu estremamente preciso nei dati: i nomi falsi del commando, le tappe del viaggio, il numero di telefono della villa di Funes, l’ubicazione di Laluf-Vila nell’Hotel Mayaland. Mostrò anche i biglietti utilizzati a nome di Jorge Raúl Cattone, e il passaporto falso.
Mise un’enfasi particolare parlando della violazione della sovranità messicana e riaffermò che i montoneros circoscrivevano la loro lotta al solo territorio nazionale, rispettando «l’autodeterminazione di ogni paese», mentre la dittatura militare si proponeva di «esportare la guerra sporca in tutti i paesi del mondo». Rivelò anche che un gruppo della Marina era stato in Messico qualche giorno prima, con l’obiettivo di «colpire un dirigente di alto livello del partito». «Non essendo riusciti a individuarlo in un appuntamento» aggiunse «sono stati costretti a tornare indietro.»
Il silenzio si fece più pesante quando disse: «Dovete tener conto delle condizioni in cui sono venuto fin qui. Ho lasciato credere di essere politicamente convinto a collaborare. La condizione principale era che la mia compagna Raquel Negro, incinta di sei mesi, e nostro figlio Sebastián, di un anno e mezzo, restassero nelle mani dei militari. Loro sono gli ostaggi dell’operazione: mi hanno detto chiaramente che saranno uccisi se la missione di infiltrazione dovesse fallire, o nel caso di un fatto come questo… Chiunque può rendersi conto di quanto penosa sia una simile situazione per un uomo, anche se è militante rivoluzionario. Io ho discusso di tutto ciò con la mia compagna. Lei ha detto di essere assolutamente convinta di voler restare nel paese come ostaggio, e quindi… di morire. Per salvare qualcosa che va al di là delle nostre stesse vite, perché io potessi arrivare fin qui e informare i nostri compagni e il mondo intero dei piani della dittatura, e compiere ogni sforzo per sventarli».
Tucho si accalorò esclamando: «La mia compagna, un figlio che deve ancora nascere e un bambino di un anno e mezzo, sono in questo momento nelle mani del generale Galtieri. Io ritengo responsabili delle loro vite e della loro integrità fisica tutti i capi militari che partecipano a questa operazione: il generale Videla, il generale Viola, il generale Martinez, che è il cervello dell’intero piano, e il generale Galtieri, che li tiene sequestrati nella tenuta di Funes, alla periferia di Rosario…»
Più avanti, fece una precisazione che in seguito avrebbe ripetuto in molti documenti: «Ciò che ci ha dato la forza, è quanto sta facendo il nostro popolo nella resistenza. È la fiducia in questa gente che giorno dopo giorno ci dimostra fino a che punto valga la pena di lottare. E non lo dico tanto per me… quanto per la mia compagna, che ha avuto il terribile coraggio di restare nelle loro mani, consapevole di votarsi alla morte».
La testimonianza si concluse con l’affermazione che l’obiettivo principale dei militari consisteva nell’eliminazione dei dirigenti montoneros, ovunque li avessero trovati. «Credono che la lotta di popolo, per quanto sia irreversibile, si possa in tal modo decapitare e disperdere, senza quella direzione che settori sempre più vasti della popolazione riconoscono come propria.» E quindi si mise a disposizione dei giornalisti per rispondere alle domande.
Il confronto si animò immediatamente.
La prima domanda: — C’è un punto che non è chiaro: quando hai parlato di aver incontrato dei traditori, subito dopo hai nominato Retamar e Dri. Sono da ritenersi tali?
— No, no. Io non ho la pretesa di stabilire chi è un traditore e chi no. Ho detto di aver incontrato il compagno Dri, che mi ha raccontato le fasi della sua cattura e delle torture subite. Il compagno Dri aveva i mezzi per arrivare a me, eppure non mi ha mai attirato in un appuntamento, né cercato di contattarmi in alcun modo.
Buona parte delle domande e delle risposte servirono a precisare dati che erano già contenuti nella testimonianza. Ma ce ne furono altre che misero in luce aspetti particolari della situazione venutasi a creare.
Giornalista: — Tutto il potere di controllo da parte dei militari consiste nell’avere in mano tua moglie e tuo figlio, oppure hanno anche un altro strumento?
Valenzuela: — C’è un apparato di controllo, visibile. E ce n’è un altro che non potrei dire se è presente o meno. Lo ammetto in tutta franchezza: io credo che ci sia, e potrebbe prepararsi a operare anche contro questa casa, però io non l’ho visto. Ciò di cui sono a conoscenza diretta è la presenza dei tre individui menzionati.
Giornalista: — Lo chiedevo, perché mi è sembrato di notare un certo nervosismo tra i presenti.
La conferenza stampa fu chiusa da Galimberti, con la rivelazione che immediatamente avrebbero informato le autorità messicane e attivato tutti i «meccanismi di difesa politici, attraverso la denuncia ai parlamenti, ai partiti e ai governi di ogni paese, per prevenire attentati e ogni altra forma di provocazione». Infine sottolineò «l’eroismo e la tempestività della manovra di controspionaggio operata dal compagno Tulio Valenzuela».
Ci furono pochi convenevoli di commiato. I giornalisti si precipitarono alle rispettive redazioni. Obregón Cano e Calcagno, con le registrazioni e gli appunti della conferenza stampa, si diressero alla segreteria di Gobernación, mentre il gruppo comandato da Galimberti si dispose a coprire la ritirata.
Sotto l’arco dell’ingresso principale c’era l’auto che avrebbe portato via Tucho: una Chevrolet Malibù arancione. Accanto al portone, la macchina della scorta li aspettava col motore acceso. Al volante della Malibù avevano messo un operativo esperto nella guida veloce. Galimberti si sedette al suo fianco, Valenzuela sul sedile posteriore, in mezzo a Fernández Long e Bonasso, che gli facevano scudo coi propri corpi.
— Giù i vetri! — ordinò il Loco. Poi si voltò verso Tucho, assumendo un’aria marziale: — Maggiore Valenzuela, chiedo autorizzazione per proseguire nell’operazione.
Tucho gli rivolse un sorriso amaro.
— Dai, Loco, piantala… Fai quello che devi fare.
A un cenno di Galimberti, le guardie aprirono il portone di ferro, e l’auto della scorta li precedette con uno stridore di gomme. La Malibù la seguì. In pochi secondi le due macchine raggiunsero una velocità folle, in una corsa assurda per le strade della Colonia Napoli. Un quarto d’ora più tardi, quando era chiaro che nessuno li seguiva, le auto si separarono e la Malibù si diresse verso sud, a San Angel.
Quando i cinque occupanti scesero davanti a un ristorante di lusso, nessuno poteva immaginare da dove venivano. Era uno strano gruppo, senza dubbio, ma per i nottambuli della metropoli non costituiva alcun motivo di interesse particolare.
Durante la cena, mentre Tucho non smetteva di parlare fornendo altri dettagli e ripetendo mille volte ciò che aveva visto, gli agenti della sicurezza messicana stavano già chiedendo spiegazioni al comando argentino.
In realtà, la caccia era cominciata prima ancora che si concludesse la conferenza stampa. Nacho Laluf e il Barba furono arrestati nelle vicinanze del Mayaland. Sebastián e Daniel nel loro albergo. Nessuno dei partecipanti alla conferenza era ancora andato a dormire, quando una particolare cartella, portata da un agente motociclista, arrivò nelle mani del sottosegretario di Gobernación. Dopo un rapido ma attento esame, il sottosegretario uscì dall’ufficio al primo piano del vecchio palazzo in Calle Bucarelli e si incamminò verso i vicini uffici ministeriali.
Anche il segretario di Gobernación aveva rinunciato al sonno, quella notte. Quando finì di leggere l’ultimo paragrafo del rapporto, arrossì al punto che i suoi uomini di fiducia capirono immediatamente che cosa li aspettava. Diede gli ordini, trattenendo a stento la collera. Ne aveva tutti i motivi: quella che stringeva tra le mani, era la confessione completa resa da Sebastián, Daniel, Barba e Nacho.
Il telefono nella residenza dell’ambasciatore argentino cominciò a suonare insistentemente.