John Reed | Così i poveri si vogliono bene tra loro
Brano tratto da John Reed, I dieci giorni che sconvolsero il mondo, BUR, Prima edizione digitale 2012. Dedicato ai nostri caduti in combattimento
Era ormai notte inoltrata quando attraversammo le vie deserte e, passando sotto la Porta di Iberia, entrammo nella grande Piazza Rossa di fronte al Cremlino. La cattedrale di San Basilio alzava nell’oscurità le sue cupole a spirale ricoperte di tegole d’oro. Nessun danno evidente… Su un lato della piazza s’innalzava la massa scura delle torri e delle mura del Cremlino. In cima all’alta muraglia tremolava il riflesso rosso di fiammelle nascoste. Sentimmo delle voci provenire dall’altra estremità dell’immensa piazza, insieme al rumore di vanghe e di picconi. Attraversammo.
Vicino alla base della muraglia si alzava una montagna di terra e di sassi. Ci arrampicammo in cima e ci trovammo a guardare due enormi fosse profonde quattro o cinque metri e lunghe una cinquantina di metri. Centinaia di soldati e di operai scavavano alla luce di enormi falò.
Un giovane soldato ci spiegò in tedesco che cosa stavano facendo. «È la fossa comune. Domani qui seppelliremo cinquecento proletari morti per la rivoluzione.»
Ci fece scendere nella fossa insieme a lui. I volontari lavoravano febbrilmente e la montagna di terra cresceva. Nessuno parlava. Sopra la nostra testa la notte era fitta di stelle e l’antica muraglia del Cremlino degli zar incombeva enorme sopra di noi.
«Qui, in questo posto sacro,» disse lo studente, «il più sacro di tutta la Russia, seppelliremo ciò che abbiamo di più sacro. Qui dove ci sono le tombe degli zar dormirà il nostro zar, il popolo…» Il soldato portava un braccio al collo: era stato ferito durante la battaglia. Si guardò il braccio.
«Voi stranieri disprezzate noi russi perché abbiamo tollerato per tanto tempo una monarchia medioevale. Ma noi ci siamo resi conto che lo zar non era il peggior tiranno del mondo: il capitalismo era peggio e, in tutti i paesi del mondo, il capitalismo imperava… La tattica rivoluzionaria russa è la migliore…»
Mentre ce ne andavamo, i lavoratori nella fossa, esausti e coperti di sudore nonostante il freddo cominciarono ad uscire faticosamente. Un gruppo confuso di uomini si avvicinava in fretta attraverso la Piazza Rossa. Senza una parola scesero nelle fosse, presero pala e piccone e cominciarono a scavare…
Così, per tutta la notte i volontari del popolo si dettero il cambio senza mai rallentare il lavoro; la fredda luce dell’alba cominciò a rischiarare la grande piazza coperta di neve e la grande buca spalancata e scura della fossa comune ormai pronta.
Ci alzammo prima del sole e, lungo le strade ancora buie, ci affrettammo verso piazza Skobelevskaja. In tutta la grande città non si vedeva un’anima, ma si percepiva, ora vicino ora lontano, un vago rumore di movimento, come l’ansito del vento che sale. Davanti alla sede del soviet, nella pallida luce del mattino, si era raccolto un gruppetto di uomini e di donne con le bandiere rosse a lettere d’oro: il Comitato centrale esecutivo del soviet di Mosca. Spuntò il giorno. Il vago rumore di movimento si fece più profondo e più forte trasformandosi in una specie di basso continuo incessante. La città si svegliava. Scendemmo verso la Tverskaja, con le bandiere che sventolavano sopra di noi. Le piccole cappelle sulla nostra strada erano chiuse e buie, così come lo era la cappella della Vergine Iberica che ogni zar visitava prima di andare al Cremlino per posarsi la corona sul capo. Di giorno e di notte la chiesa era sempre aperta e piena di gente, sempre illuminata dalle candele dei devoti che si riflettevano sull’oro, sull’argento e sulle pietre preziose delle icone. Ora per la prima volta da quando Napoleone era giunto a Mosca, dicevano, le candele erano spente.
La Santa Chiesa Ortodossa aveva tolto la luce della sua benevolenza a Mosca, nido di vipere sacrileghe che avevano bombardato il Cremlino. Le chiese erano buie, fredde e silenziose, i preti erano scomparsi. Non c’erano pope ai funerali rossi, niente sacramenti per i morti, niente preghiere sulla tomba dei blasfemi. Tichon, metropolita di Mosca avrebbe di lì a poco scomunicato i soviet… Anche i negozi erano chiusi e le classi possidenti restavano in casa, ma per altri motivi. Questo era il giorno del popolo e il rumore di quelli che arrivavano era simile al rombo del mare…
Sotto la porta di Iberia scorreva un fiume umano e la vasta Piazza Rossa era punteggiata da migliaia di persone. Osservai che mentre la folla passava di fronte alla cappella della Vergine Iberica, dove prima tutti si facevano il segno della croce, questa volta nessuno pareva accorgersene…
Ci aprimmo la via verso le mura del Cremlino attraverso la fitta folla che si stringeva sotto e ci arrampicammo sui mucchi di terra. C’era già diversa gente tra i quali Muranov, il soldato che era stato eletto comandante della piazza di Mosca, un uomo alto, barbuto, dall’aria semplice e dal viso dolce.
Da tutte le strade si riversavano nella Piazza Rossa torrenti di folla: migliaia e migliaia di persone, tutte segnate dalla fatica e dalla povertà. Arrivò a passo di marcia una banda che suonava l’Internazionale e il canto, spontaneamente, si accese e si diffuse come un fremito sul mare, lento e solenne. Dalla sommità delle mura del Cremlino pendevano fino a terra gigantesche bandiere rosse con grandi iscrizioni bianche e dorate: «Ai martiri della rivoluzione sociale mondiale in cammino», e «Viva la fratellanza dei lavoratori di tutto il mondo».
Un vento freddo spazzava la piazza, facendo sventolare le bandiere. Ora dai quartieri lontani della città stavano arrivando gli operai delle varie fabbriche con i loro morti. Li si vedeva passare la porta tra uno sventolio di bandiere rosse e il rosso cupo — simile a sangue — delle bare che portavano. Erano rozze casse di legno grezzo pitturate di rosso, posate sulle spalle di uomini rudi seguiti da donne che gridavano e singhiozzavano o camminavano rigide, pallide come morte. Alcune delle bare erano aperte e il coperchio veniva portato dietro, altre erano coperte di tessuto ricamato d’oro o d’argento. Su qualche cassa era inchiodato un berretto da soldato. C’erano molte corone di orrendi fiori artificiali.
Il corteo avanzava lentamente verso di noi attraversando la folla che si apriva per poi richiudersi subito dopo. Sotto la porta sfilava un’interminabile fila di bandiere di tutte le sfumature del rosso, con iscrizioni d’argento e d’oro, nastri di crespo legati alla sommità dell’asta. C’erano anche alcune bandiere anarchiche, nere a lettere bianche. La banda suonava la marcia funebre rivoluzionaria e nel coro immenso della folla immobile a capo scoperto si distinguevano le voci rauche dei portatori soffocate dai singhiozzi…
Tra gli operai delle fabbriche marciavano compagnie di soldati anch’essi con le loro bare. Poi venivano squadroni di cavalleria che cavalcavano al saluto, batterie di artiglieria, con i pezzi velati di rosso e di nero, per l’eternità, sembrava. Sulle loro bandiere era scritto: «Viva la III Internazionale!» oppure: «Vogliamo una pace onesta, generale, democratica.»
Lentamente i portatori giunsero con le bare sull’orlo della tomba e scendendo con il loro carico giunsero sul fondo. C’erano molte donne tra loro: donne proletarie tarchiate e robuste. Seguivano i morti altre donne, donne giovani e schiantate o vecchie rugose che gridavano come animali feriti, che cercavano di seguire i loro figli e i loro mariti nella tomba; le loro grida aumentavano quando mani compassionevoli cercavano di trattenerle. Così i poveri si vogliono bene tra loro.
Per tutta la giornata, arrivando dalla Porta di Iberia e uscendo dalla piazza lungo la Nikol’skaja, il corteo funebre sfilò, simile a un fiume di bandiere rosse, portando parole di speranza, di fratellanza e splendide profezie attorniato da cinquantamila persone, sotto gli sguardi dei lavoratori di tutto il mondo e di tutti i loro discendenti.
Una a una, le cinquecento bare vennero posate nelle fosse. Venne il tramonto e le bandiere sventolavano sempre al vento, la banda suonava la marcia funebre e l’enorme folla continuava a cantare i suoi canti. Le corone funebri vennero appese ai rami degli alberi spogli sopra la tomba, simili a strani fiori multicolori. Duecento uomini cominciarono a spalare la terra. Le palate piovevano pesantemente sulle bare con un rumore sordo, che si confondeva con i canti…
Apparvero delle luci. Le ultime bandiere passarono e le ultime donne singhiozzanti che si guardavano indietro con un’intensità impressionante si allontanarono. Lentamente l’onda proletaria rifluì dalla Piazza Rossa…
Improvvisamente mi resi conto che il devoto popolo russo non aveva più bisogno di preti per salire verso il cielo. Sulla terra stava costruendo un regno più luminoso di quello offerto da qualunque paradiso, un regno per il quale era glorioso morire…