Marco Riformetti | Largo ai giovani!
Tratto da Marco Riformetti, Tutti dentro con il biglietto del movimento. Gli “autoriduttori” nelle controculture giovanili degli anni ‘70, Tesi di laurea magistrale in “Sociologia e ricerca sociale”, maggio 2022
Uno degli elementi che caratterizzano l’intera decade degli anni ‘60 è certamente quello dell’affermazione dei giovani sulla scena sociale; le avvisaglie di questa affermazione si manifestano già dalla metà degli anni ‘50 quando i giovani diventano protagonisti della cultura di massa americana nella musica (con il rock’n’roll) o nel cinema (con film come Il selvaggio, Gioventù bruciata, Il seme della violenza…), ma anche nella graduale diffusione dei temi posti dalla beat generation (dal rapporto con la sessualità e l’omosessualità fino all’uso di droghe passando attraverso il mito del viaggio, fisico o spirituale…[1]).
I giovani stanno diventando protagonisti dal punto di vista della cultura di massa perché stanno diventando protagonisti dal punto di vista sociale e anche commerciale con i loro specifici consumi e le loro specifiche mode.
Gli anni ‘60 sono anche gli anni in cui si affermano molte subculture giovanili (COHEN [2011]) attraverso le quali i giovani intraprendono un percorso di “distacco”[2] dai loro mondi di origine (la famiglia, innanzitutto, ma anche la scuola, la chiesa, la comunità locale e nazionale) alla ricerca di una nuova identità che per una certa fase essi trovano proprio nello spazio liminale della subcultura e negli elementi simbolici che lo caratterizzano, dallo stile nel vestire ai riferimenti culturali (musica, film, libri, riviste…).
Negli anni ‘60 i giovani mettono in discussione un po’ tutti gli elementi su cui si fonda la tradizionale concezione della famiglia e dei rapporti sociali. «Re Nudo» scrive ironicamente
«“La famiglia è ariosa e stimolante come una camera a gas”» (GUARNACCIA [2011])
Si tratta di un processo che sviluppa la propria critica dei rapporti di produzione esistenti anzitutto dal punto di vista “sovrastrutturale”.
In alcune esperienze – come quella degli hippies – il “chiamarsi fuori” dal mondo esistente si manifesta nell’adozione di stili di vita alternativi a quello consumistico e nella costruzione di comunità che cercano di sottrarsi all’omologazione.
La “nausea” dei giovani esistenzialisti francesi o il “nichilismo” dei giovani beat americani potrebbero apparire atteggiamenti snob in società profondamente segnate dallo sfruttamento, dalla violenza, dal razzismo, dal patriarcato… ma diventano più comprensibili se vengono letti come forme di resistenza, sia pure ancora soltanto individuale, alla rassegnazione nei confronti di un’esistenza che appare senza senso in quanto segnata da un senso già dato e apparentemente immodificabile.
In una società che pare aver risolto i problemi riguardanti il soddisfacimento dei bisogni primari cresce la rilevanza di consumi che in una logica economicistica sembrerebbero dover essere considerati secondari (diciamo, semplificando, i consumi collegati al tempo libero) e questo spinge ad un ripensamento proprio del tema dei bisogni in generale. Ad esempio, la filosofa ungherese Agnes Heller dedica un intero libro alla teoria dei bisogni in Marx ed afferma che sono proprio i “bisogni” ad essere al centro della riflessione del rivoluzionario tedesco
«Riassumendo le proprie scoperte economiche, rispetto all’economia politica classica, Marx elenca i seguenti punti: 1. Elaborazione della teoria secondo la quale il lavoratore vende al capitalista non il suo lavoro, ma la sua forza-lavoro. 2. Elaborazione della categoria generale del plusvalore e sua dimostrazione (profitto, salario e rendita fondiaria sono soltanto forme fenomeniche del plusvalore). 3. Scoperta del significato del valore d’uso (Marx scrive che le categorie di valore e valore di scambio non sono nuove, ma sono riprese dall’economia politica classica).
Se si analizzano le tre scoperte che Marx si attribuisce, non è difficile dimostrare che in qualche modo sono costruite tutte sul concetto di bisogno.» (HELLER (1978), pag. 23)
«Ombre Rosse» – una rivista che parla soprattutto dei giovani e ai giovani – osserva come per la Heller nel pensiero di Marx si manifesti una rottura – potremmo dire epistemologica, usando il linguaggio di Louis Althusser[3], ma dal segno rovesciato – tra un giovane Marx pensatore di una teoria dei bisogni “umanista” e un Marx maturo pensatore di una teoria dei bisogni “economi(ci)sta”
«in Marx sarebbero presenti, per così dire, due facce: la prima, caratteristica del Marx “giovane” e dei Grundrisse, da salvare e valorizzare, imperniata sul concetto di bisogno radicale e conseguentemente sul processo rivoluzionario inteso come rottura, di cui è protagonista la soggettività collettiva degli uomini che si emancipano rompendo il feticismo dei rapporti sociali capitalistici. La seconda, presente soprattutto nel Marx “economista” del Capitale, che è legata ad una visione naturalistica ed evoluzionista di tipo essenzialmente positivistico: secondo questa è lo sviluppo delle forze produttive che il capitalismo attiva a rappresentare la contraddizione fondamentale rispetto ai rapporti sociali (privati) ed a consentire, ad un certo livello di maturazione, il passaggio quasi “naturale” al socialismo» (DI PAOLA [1975], pag. 6)
È possibile che la Heller non abbia ben compreso il modo in cui Marx pensa il rapporto tra sviluppo storico e azione cosciente (che in realtà non prevede alcuna necessità storica del socialismo) ma questo, nel presente contesto, non è importante; più interessante è piuttosto il fatto che la Heller amplifica l’importanza “rivoluzionaria” di quel genere di bisogni – da lei definiti radicali – che possono essere soddisfatti pienamente solo oltre il modo di produzione capitalistico
«avere rapporti umani diversi o il bisogno artistico […] che, pur sorgendo nell’ambito dei rapporti sociali capitalistici, non sono soddisfacibili all’interno di questi e rimandano, dunque, ad una organizzazione sociale alternativa e superiore in cui possano essere soddisfatti» (DI PAOLA [1975], pag. 7)
Agnes Heller opera questa distinzione per poter sviluppare la propria critica del socialismo reale ungherese (che in fondo sembrerebbe garantire i bisogni economici, mentre negherebbe quelli radicali) e nello stesso tempo confutare l’idea che il processo rivoluzionario possa essere considerato la semplice rimozione di un ostacolo allo sviluppo delle forze produttive (idea che fonda la critica rivolta frequentemente – ma ingiustamente – alle riflessioni di Marx contenute nella Prefazione del 1859 a Per la critica dell’economia politica).
In questo modo la Heller – e proprio per questo «Ombre Rosse» analizza criticamente la sua riflessione – propone un discorso per alcuni aspetti analogo a quello proposto dai movimenti autoriduzionisti ai concerti (caso diverso è quello delle autoriduzioni dei fitti o delle bollette dove invece il discorso è più strettamente economico) per i quali, in un contesto di relativa disponibilità dei beni primari, diventa naturale enfatizzare la richiesta di consumi culturali a prima vista non primari (qualcuno propone addirittura slogan sul “diritto al lusso” piuttosto che, come ci si aspetterebbe, sull’abolizione del lusso).
Quello che interessa in questa sede è osservare come la riflessione sull’estensione del concetto di bisogno oltre il campo della sola riproduzione materiale possa aiutarci a spiegare l’importanza che assumono tra i giovani temi come la “riappropriazione della musica” o la richiesta di libero consumo delle droghe leggere o il rifiuto del lavoro e delle gerarchie… che riempiono le pubblicazioni d’epoca di una certa area “controculturale” alla quale va certamente riconosciuto il merito di aver saputo cogliere l’importanza dei bisogni “immateriali”, soprattutto tra i giovani.
Si potrebbe anche aggiungere: mentre le classiche forme di lotta operano per far ottenere “di più” ai lavoratori (a livello sindacale: più salario, più diritti sul posto di lavoro, più forza contrattuale…; a livello politico: più consensi, più parlamentari, più potere istituzionale…) ovvero, in definitiva, per soddisfare bisogni e richieste soprattutto di ordine quantitativo, al contrario molti giovani sembrano porre il problema di voler soddisfare bisogni soprattutto di tipo qualitativo: in definitiva, sembrano porre il problema di un diverso modo di vivere
«La rivoluzione è cominciata. La rivoluzione siamo/siete. La rivoluzione è il nuovo modo di vivere» (RE NUDO [19713,1], pag. 12)
e lo fanno, pragmaticamente, sperimentando forme creative di esperienza comunitaria che hanno tutte alla base la medesima ambizione, o illusione se vogliamo: far vivere qui ed ora, anche dentro il modo di produzione capitalistico e senza aspettare una qualche “ora X” della rivoluzione, esperienze di vita collettiva autogestita, autonoma, anticapitalista: «vogliamo il mondo e lo vogliamo adesso»[4].
Note
[1] Questi temi, come vedremo, saranno importanti anche nel discorso politico e culturale dei movimenti che animano le lotte ai concerti.
[2] Victor Turner nel suo studio sui riti di passaggio usa il termine “disaffiliazione” (TURNER [2001]).
[3] Cfr. ALTHUSSER [1972].
[4] The Doors, When the music’s over, in Strange days, 1967.