Antiper | Sulla fascistizzazione dello Stato (1)
Tratto da Antiper, Essere antifascisti. Riflessioni su fascismo e democrazia, aprile 2009, ver. 2.0
Spesso, per descrivere una riduzione degli spazi di agibilità democratica può essere fuorviante ricorrere troppo sbrigativamente allo schema della “fascistizzazione dello Stato”, della “deriva autoritaria” delle istituzioni. Ora, è evidente che possono darsi Stati più o meno autoritari e fasi in cui uno Stato è più o meno autoritario. Ma livello di “democraticità” e livello di autoritarismo dipendono dal particolare [1] equilibrio sociale che regola i rapporti tra le varie classi della società; e questo equilibrio non è una concessione definitiva della borghesia illuminata (ci mancherebbe…), ma il prodotto dinamico della lotta di classe e di particolari rapporti di forza.
Gli spazi democratici (ad esempio, il diritto di sciopero) si ampliano o si restringono a seconda della forza e del consenso popolare con cui si esprimono le lotte dei lavoratori. L’evidente differenza esistente tra il livello di agibilità democratica esistente nell’Italia precedente alla Seconda guerra mondiale e quello esistente successivamente ad essa è stato conquistato, armi in pugno, con la Resistenza.
Ci si domanda se la “deriva autoritaria” e la repressione che la caratterizza si determinino per effetto di un indebolimento delle classi sfruttate oppure se siano la risposta, conseguente o preventiva, al loro rafforzamento (concretizzato o ipotizzato). Con questa varietà, si può supporre che la deriva autoritaria avvenga più o meno sempre, come azione o come reazione, perché si hanno determinati rapporti di forza o perché non si hanno (e si cerca di conquistarli).
E in effetti le cose stanno, pressappoco, proprio così. Lo Stato può ricorrere alla forza per sedare una rivolta o per impedire che essa si sviluppi. E può anche non ricorrervi. Ma è la possibilità immanente di esercitare l’uso della violenza legittima che caratterizza il fatto stesso di “essere Stato” e questa possibilità si risolve, attraverso il potere legislativo, nella facoltà di decidere ciò che è e ciò che non è legittimo, ovvero nel potere di ridefinire la legittimità [2] a seconda delle esigenze.
Lo stesso Max Weber – che di certo non fu un campione della concezione marxista dello Stato – afferma
“Lo stato è quella comunità di uomini che all’interno di un determinato territorio pretende per sé (con successo) il monopolio dell’uso legittimo della forza fisica”.
“Lo stato moderno è un’associazione di dominio in forma di istituzione, la quale, nell’ambito di un determinato territorio, ha conseguito il monopolio della violenza fisica legittima come mezzo per l’esercizio della sovranità, e a tale scopo ne ha concentrato i mezzi materiali nelle mani del suo capo, espropriando quei funzionari dei ceti che prima ne disponevano per un proprio diritto, e sostituendovisi con la propria suprema autorità”. [3]
“Max Weber aveva definito lo Stato moderno l’istituzione che rivendica il monopolio sulla coercizione ammissibile (‘legittima’, senza appello e senza indennizzo): in altre parole un’istituzione che si proclama l’unico agente avente diritto a valersi dell’azione coercitiva per costringere lo stato di cose esistente a essere diverso da ciò che è stato e continuerebbe a essere se lasciato a se stesso” [4].
La discrasia tra sistema giuridico-istituzionale e sistema politico è sempre un fatto transitorio e “d’eccezione” perché una volta che un sistema politico si afferma (non importa come) poi riscrive le forme giuridico-istituzionali e storico-ideologiche a propria immagine e somiglianza. Analogamente, il fascismo ha conquistato il potere dopo una mobilitazione eversiva (la “marcia su Roma” e le violenze del 1919-22) dopo la quale i fascisti avrebbero dovuto essere inviati alle regie galere invece che al vertice del potere. Invece, questo atto illegittimo, che fu peraltro un mezzo fallimento sul piano militare [5], fu usato per offrire l’immagine di un movimento capace, con le buone o con le cattive, di conquistare il consenso o di ridurre al silenzio la gran parte del paese. Il Re assegnò a Benito Mussolini l’incarico di formare il nuovo Governo con l’appoggio dei partiti del Blocco Nazionale e di tutta quella “brava gente” pia e timorata di Dio che votava Partito Popolare o che, da liberale qual’era, aveva fatto sparare addosso agli operai in lotta o in manifestazione (centinaia di morti nel 1917 a Torino [6], tanto per fare un esempio). E in questo modo, l’illegittimità delle azioni squadristiche [7] fu trasformata nella più alta legittimità politica del paese.
Il programma del fascismo e la sua costituzione in regime contrastava dal punto di vista formale con le leggi dello Stato liberale? Ecco allora che il fascismo produsse una nuova “legalità” scrivendo nuove leggi e varando nuovi provvedimenti. Ma se la legalità giuridica imposta dal fascismo può essere messa in discussione sulla base della sua illegittimità originaria come movimento politico “eversivo”, non è “stupefacente” pensare che su tematiche di importanza capitale come la “giustizia” (codice Rocco) o l’istruzione (riforma “gentiliana”) la “democrazia” abbia mantenuto le leggi del fascismo? A questo si aggiunga che anche dal punto di vista economico-finanziario le cose non cambiarono per moltissimi anni. Si pensi al sistema delle partecipazioni statali (inaugurato in grande stile dal fascismo con la nascita dell’IRI) che fu addirittura uno strumento di potere politico. Si pensi al rapporto economico e normativo tra padroni e operai che, malgrado la reintroduzione delle libertà sindacali già all’indomani della caduta di Mussolini (25 luglio 1943), conservò per lunghi anni molte caratteristiche dell’epoca fascista (diversificazione delle retribuzioni su base geografica, anagrafica, di sesso…, definizione dei tetti salariali in tabelle nazionali stabilite dall’autorità politica, limitazione della contrattazione collettiva nazionale, ecc…[8]).
In effetti tutto questo sarebbe stupefacente se considerassimo il fascismo solo una “parentesi” tra 2 fasi “democratiche”. Le cose, invece, stanno in modo diverso perché tra le diverse fasi ci sono punti di discontinuità, certo, ma anche molti punti di continuità. Il fascismo fu il “degno” sbocco di un certo tipo di democrazia borghese-liberale, così come la democrazia emersa dopo la seconda guerra mondiale fu influenzata anche da 20 anni di fascismo e dal ruolo egemonico degli USA, sebbene queste influenze siano state molto parzialmente mitigate proprio dall’esperienza della Resistenza.
D’altra parte, affermare – come fanno alcuni movimenti – che “dal fascismo non si torna indietro” o che il fascismo è la forma moderna della democrazia borghese può essere, da un certo punto di vista, eccessivo. Se mettiamo a confronto il decennio 1968-1978 con il ventennio 1922-1942 non ci pare proprio di riscontrare nel primo i caratteri del secondo né dal punto di vista culturale – com’è ovvio – ma neppure dal punto di vista economico e sociale. I Consigli di Fabbrica del 1970 non saranno stati quelli del 1920 ma neppure quelli (sciolti con l’accordo di Palazzo Vidoni nel sindacato unico corporativo) dal 1925 in poi. Ciò che fa la differenza tra la conquista del “punto unico di contingenza” del 1975 (tanto per fare un esempio) e la situazione di scomposizione sociale del 1935 è, in definitiva, la diversa configurazione dei rapporti di forza tra le classi. Non saper cogliere l’importanza della dinamica dello scontro di classe nell’evoluzione della Storia (e quindi anche delle forme statuali), rinchiudendosi in una visione deterministica e meccanica (dunque anti-dialettica) di tale evoluzione è sempre il sintomo di una incapacità che non si può nascondere dietro frasi roboanti e “professioni di fede” (del tutto ingiustificate) al marxismo.
Note
[1] Storicamente determinato.
[2] Zygmunt Bauman, La società sotto assedio, Laterza 2005: “Il diritto di tracciare il confine tra coercizione legittima (ammissibile) e coercizione illegittima (non ammissibile) è il principale obiettivo di tutte le lotte per il potere”.
[3] Max Weber, La politica come professione, Einaudi, 1971, pp. 47.
[4] Cfr. Zygmunt Bauman, La società sotto assedio, Laterza.
[5] Cfr Massimo Bontempelli, Il respiro del ‘900. Gli anni dal 1914 al 1945, CRT.
[6] Il 23 agosto 1917, dopo una rivolta contro il peggioramento delle condizioni di vita, verranno uccisi 500 operai, 2.000 verranno gravemente feriti, mentre molti altri verranno arrestati. Cfr. Renzo Del Carria, Proletari senza rivoluzione, Vol. II, Cap. I, pag. 35, “Prima guerra imperialista, crollo dell’Internazionale e insurrezione di Torino”.
[7] Cfr. Mimmo Franzinelli, Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista (1919-1922), Oscar Storia Mondandori, 2003.
[8] Coordinamento Nazionale RSU, Rivista di critica sindacale, 2006.