Marco Riformetti | Ricerca sociale e campo giornalistico tra nuovi media e big data. Quadro storico-teorico (3)
Da Marco Riformetti, Ricerca sociale e campo giornalistico tra nuovi media e big data, Tesi di laurea in Sociologia e ricerca sociale (quasi completata, ma non presentata), Unipi, 2021, Pisa
Che da tempo le testate giornalistiche si stiano spostando verso la rete è piuttosto evidente. Secondo i dati Audipress, nel periodo che va dal 2013 al 2020, la vendita di copie cartacee è diminuita stabilmente passando da poco più di 3 milioni a poco più di 1 milione e mezzo; la vendita di copie digitali è rimasta stabile (da 250.000 circa a 210.000 circa, con qualche lieve oscillazione) [1]. Questo vuol dire che quando parliamo di crescita del venduto digitale sul venduto cartaceo nell’ambito del giornalismo italiano non dobbiamo intendere tanto la debole crescita delle copie digitali vendute quanto piuttosto la netta riduzione di quelle cartacee. Si tratta di un fenomeno che si spiega alla luce anche della tendenza di molte persone ad informarsi utilizzando fonti alternative a quelle “classicamente” giornalistiche e a considerarsi informate grazie all’uso dei “social network” o dei blog (senza dunque acquistare copie né cartacee, né digitali).
D’altra parte è innegabile che il digitale abbia conquistato una solida e importante quota di mercato. Ed è altresì innegabile che sia in atto un processo di dematerializzazione che riguarda non solo i giornali, ma anche libri, film, musica…, un processo in cui il mero consumo si sostituisce al consumo legato alla proprietà o al possesso [2] di beni tangibili. Quando guardiamo una serie su Neflix o Prime non abbiamo in mano alcun supporto (VHS, DVD…) e lo stesso accade quando ascoltiamo musica su Spotify o YouTube; al massimo, alcuni vecchi supporti resistono come mercati di nicchia (si pensi al vinile). I crack di Blockbuster e Kodak o il tracollo di Nokia vengono citati come case study per mostrare l’effetto dell’evoluzione tecnica (e sociale) su chiunque non riesca a stare al suo passo.
Per quanto riguarda i media dobbiamo porci la seguente domanda: siamo di fronte a vecchie forme di giornalismo supportate da una maggior dose di tecnologia o siamo di fronte ad un vero e proprio “cambiamento di paradigma” (Kuhn [2009])? Come cambia il campo giornalistico con l’avvento della dimensione online) [3]?
Intanto c’è un problema di “pirateria” (che però non è sempre e comunque una cosa cattiva). Un giornale o un magazine in formato cartaceo non possono essere copiati e distribuiti gratuitamente in modo massivo; al contrario, la versione digitale di un giornale è un file e può essere caricata su una piattaforma di file sharing per essere poi scaricata da migliaia di utenti; lo stesso vale per libri e audiolibri. In questo modo la diffusione cresce notevolmente (e questa sarebbe certamente una buona notizia per la diffusione globale dell’informazione, sempre che i giornali facessero veramente informazione), ma chi scarica gratuitamente i giornali da queste piattaforme non compra certo né le copie digitali né, tanto meno, quelle cartacee (e questa è ovviamente una cattiva notizia per le imprese editoriali). Per questa ragione molti editori offrono una certa resistenza psicologica nei confronti del passaggio completo al digitale (che in linea di principio permetterebbe loro molti vantaggi, a cominciare dalla notevole riduzione dei costi e dalla notevole espansione delle inserzioni pubblicitarie).
I giornali digitali offrono parte dei propri contenuti in modo gratuito per attirare e fidelizzare il lettore e riservano agli abbonati una quota di contenuti a pagamento. Ma la fonte principale di profitto non sono gli abbonamenti (così come non lo erano i ricavi dalle vendite delle copie cartacee) bensì la pubblicità [4] che viene presentata attraverso immagini e video presenti sulla pagina o attraverso banner pop-up che si aprono al caricamento della medesima. I browser offrono l’opportunità di installare advertising blocker che inibiscono l’apertura dei banner pubblicitari e l’avvio automatico dei video, sterilizzandone l’efficacia; ma talora i siti rilevano l’attivazione dell’ad blocker e ne pretendono la disabilitazione per consentire la visualizzazione dei contenuti (esempio: Corriere della sera e da qualche tempo Repubblica). Dal momento che questa richiesta è fastidiosissima (in quanto l’accesso agli articoli pubblici è permesso solo a seguito della visione di noiosi video e immagini pubblicitarie) molti utenti smettono di visitare il sito; d’altra parte, quando la crescita delle visite è sostenuta le testate online preferiscono perdere parte degli utenti purché si possano obbligare tutti gli altri a visualizzare le inserzioni. I vantaggi offerti dalla pubblicità online sono numerosissimi e non è questa la sede per passarli in rassegna, ma è indubbio che costituiscano una potentissima spinta del giornalismo verso la rete.
Oggi tutti i quotidiani e le riviste possiedono siti web e profili social. Ci sono anche dei modelli di sito basati su blog personali, come nel caso di “Huffington Post” o “Il fatto quotidiano”. Le motivazioni che spingono questa evoluzione sono numerose. C’è sicuramente il fatto che la rivoluzione dei “modelli di business” prodotta dalla rete ha indotto un cambiamento anche nelle modalità di accesso alle (e di consumo delle) notizie; c’è ovviamente la sempiterna motivazione commerciale la cui fame è ulteriormente stuzzicata dall’enorme ampliamento delle possibilità nella creazione di inserzioni pubblicitarie (e soprattutto nella creazione di inserzioni pubblicitarie personalizzate, straordinariamente più efficaci di quelle che si rivolgono ad intere audience). E c’è anche una motivazione che ha a che fare più specificamente con il funzionamento del campo giornalistico: la velocità.
«Nella logica specifica di un campo orientato verso la produzione di quella merce altamente deperibile che sono le “notizie”, la concorrenza per accaparrarsi la clientela tende ad assumere la forma di una concorrenza per la priorità, in altre parole per notizie sempre più nuove: lo scoop. […] la concorrenza per la priorità richiama e favorisce gli agenti dotati di disposizioni professionali che tendono a porre tutta la pratica giornalistica sotto il segno della velocità (o della precipitazione) e del rinnovamento permanente» (Bourdieu [1997])
Nel passato i giornali dovevano attendere il mattino del giorno dopo per “dare la notizia” e venivano sistematicamente preceduti dai tele e radio giornali che andavano in onda più volte al giorno. Oggi la situazione si è invertita e sono i tele e radio giornali che si trovano perennemente in ritardo rispetto al web in quanto vengono trasmessi ad orari fissi mentre in rete il flusso delle informazioni è ininterrotto.
In generale si è tentata la strada della diversa specializzazione con la redazione online che dà le notizie e la redazione cartacea che produce gli approfondimenti e le inchieste. Ma in un’epoca in cui le fonti di informazione si moltiplicano (mentre voglia e possibilità di approfondimento si riducono), limitarsi al commento e all’approfondimento vuol dire andare a parlare a pubblici di nicchia.
Nel medio periodo quello che sembra delinearsi all’orizzonte è un futuro in cui solo poche testate sopravviveranno con una edizione cartacea (da diffondere in tutta una serie di ambienti, come ad esempio i bar o le biblioteche o le scuole o le uscite delle metropolitane) mentre la gran parte del sistema giornalistico si collocherà esclusivamente online.
La moltiplicazione delle fonti deriva anche da un fatto tecnico: è sempre più semplice pubblicare i propri interventi su un blog. Già i social permettono la pubblicazione ad un “costo tecnico” molto basso [5]; ma ormai anche l’evoluzione delle tecnologie per la realizzazione di siti web – in particolare la diffusione dei Content Management Systems che permettono la separazione tra progettazione tecnica della struttura del sito e inserimento dei contenuti (realizzabile anche senza grandi competenze tecniche) – consentono a chiunque di affacciarsi su Internet e di diventare, con piccoli costi dal punto di vista economico e tecnico, produttore di contenuti. Si è parlato, non a caso, di “citizen journalism”, specialmente in relazione alle mobilitazioni popolari della cosiddetta “primavera araba” (El – Nawawy e Khamis [2013], Radsch [2016], Nah e Chung [2020], Banda [2010]).
Ovviamente, anche se tutti possono diventare produttori di contenuti non è detto che ogni contenuto abbia davvero visibilità perché il Web offre più l’illusione che non la reale possibilità di parlare ad un pubblico molto vasto (Barabasi [2004]).
D’altra parte, pur se molti singoli blog raggiungono spesso pubblici relativamente modesti, quando i blog diventano milioni nasce comunque un fenomeno.
Note
[1] Pier Luca Santoro, Il trend di vendite dei quotidiani in Italia dal 2013 al 2020, DataMediaHub, 10 marzo 2021.
[2] Come quando venivano noleggiati VHS o DVD.
[3] Eugenia Siapera, Lia-Paschalia Spyridou, The Field of Online Journalism: A Bourdieusian Analysis, in Siapera e Veglis [2012].
[4] A parte i finanziamenti statali.
[5] Diverso è il discorso per quanto riguarda la promozione dei contenuti dove i costi possono essere elevati.