Xepel | Il dibattito sulla caduta tendenziale del saggio di profitto. La teoria del profit squeeze
Questo brano è tratto da un testo più lungo che si intitola Su alcuni aspetti della teoria delle crisi. Lo pubblichiamo in quanto introduttivo di una teoria – il cosiddetto “profit squeeze” – che si può riassumere nell’idea che alle origini delle crisi capitalistiche vi sia la capacità dei lavoratori di imporre significative conquiste salariali ai capitalisti riducendone così i profitti. Questo contributo è interessante soprattutto in quanto ribadisce l’importanza sia delle dinamiche economiche globali, sia delle dinamiche della lotta di classe locali [Antiper].
Il dibattito sulla legge della caduta tendenziale [*] si intreccia al problema della teoria delle crisi. Negli anni ’70, alcuni economisti inglesi (soprattutto Glynn e Sutcliffe) avanzarono una teoria nota come “profit squeeze”, secondo la quale la caduta del saggio di profitto non era attribuibile alla crescita della composizione organica del capitale, che la svalorizzazione del capitale costante può contrastare indefinitamente, ma alle difficoltà nel contenere la crescita del capitale variabile (i salari) come conseguenza della piena occupazione e della forza del movimento operaio. A dimostrazione che il clima esplosivo di quegli anni aveva contagiato gli intellettuali, uno di questi economisti, professore a Oxford, aderì alla tendenza marxista del partito laburista, il Militant, e vi portò il dibattito sulla sua teoria del profit squeeze.
I partecipanti al dibattito erano d’accordo sul fatto che ci fosse stata una caduta della profittabilità come conseguenza dell’accumulazione di capitale. Non concordavano sul fatto che ciò dipendesse dall’operare della legge. Nella sua critica, Glyn sostenne che la legge della caduta tendenziale non fa parte del nucleo della teoria marxista come si evincerebbe dal fatto che non è citata nel primo libro del Capitale, o nell’Imperialismo, nel Manifesto. Essa avrebbe inoltre una impostazione economicista, basandosi su questioni tecnologiche anziché sociali e condurrebbe a un’analisi politica meccanica. In definitiva sarebbe un errore dargli troppa importanza.
In effetti, la quantità di capitale mossa da ogni lavoratore si basa su due processi contraddittori: l’aumento della composizione tecnica e la svalorizzazione del capitale. I sostenitori del profit squeeze ritengono che ogni supposizione su quale tendenza prevalga sia errata. Sotto il profilo empirico, secondo i dati citati da questi autori, la composizione organica del capitale risulterebbe crescere rapidamente in Italia e Giappone, mentre scenderebbe per il Regno Unito. Se il saggio di profitto è diminuito, ciò dipende dunque da altre cause.
Queste sono da ricercarsi nell’aumento del costo totale del lavoro (tasse, contributi, salari nominali grazie alla forza sindacale). Tutto ciò “is the direct economic result of the exhaustion of the reserve army of labour” (Glyn). Il motivo per cui la riserva di manodopera non poteva essere costituita era per via della guerra fredda e dei processi di decolonizzazione dei paesi arretrati che rendevano difficile investire fuori dal ristretto numero dei paesi avanzati. La forza del sindacato inglese non permetteva di tagliare i salari e dunque i profitti venivano compressi. Il ruolo storico del thatcherismo fu appunto di annientare il movimento sindacale per salvare il capitalismo britannico.
Non c’è dubbio che l’importanza attribuita da questa scuola alla lotta di classe come fattore che incide sul saggio del profitto fosse un riflesso delle lotte dell’epoca. E occorre anche ricordare che di per sé, l’operare di queste tendenze non è in contrasto con la legge della caduta tendenziale. Anzi, Marx criticando i sottoconsumisti della sua epoca spiegava che all’apice del boom i salari sono sempre alti e la disoccupazione bassa. Rimane il fatto che le crisi del capitalismo hanno preceduto la contrattazione salariale di secoli. Inoltre, la forza dei sindacati è molto diversa tra i paesi capitalisti, mentre le crisi tendono a presentarsi simultaneamente.
Sull’importanza della legge per il marxismo occorre osservare diversi aspetti. In primo luogo, sminuire l’importanza di un aspetto della teoria economica marxista è la prima mossa di chi sta allontanandosi dal marxismo. La rottura non avviene immediatamente, ma all’inizio il “critico” sostiene che l’innovazione proposta serve a rendere più “attuale” la teoria. È lo stesso argomento che usò Bernstein per criticare il materialismo dialettico. Anche l’artificio retorico di sostenere che il punto difeso è un feticcio, e che quello che conta è il “metodo” è ricorrente. Bernstein lo utilizzò contro la dialettica.
In secondo luogo, per Marx le leggi economiche sono tendenze. Questo significa che vi sono delle leggi di movimento di fondo del sistema e delle forze che spingono in altre direzioni. È un approccio empirista selezionare alcuni fatti (per esempio alcune controtendenze) e farne un’altra legge di movimento.
La teoria del profit squeeze può poi essere criticata sotto altri punti di vista. Innanzitutto, seppure i suoi sostenitori ricordassero giustamente che i capitalisti non possono trovare “razionalmente” una soluzione collettiva alla crisi del loro sistema, toglievano all’analisi del capitalismo l’aspetto del processo contraddittorio del rapporto tra il singolo capitale e i molti capitali. Quando Marx parla dell’introduzione delle nuove macchine spiega che la singola nuova macchina, che richiede investimenti maggiori e dunque rovina i piccoli produttori, appena messa in funzione porterà a un aumento della merce prodotta per unità di tempo e dunque si mostrerà più conveniente. La variazione del saggio del plusvalore non è uguale a quella della produttività.
Se le merci salario si producono in meno tempo, il capitalista intasca la differenza. Quindi la riduzione del prezzo non corrisponde per forza alla crescita della produttività a meno che tutto l’incremento non si riversi nella svalorizzazione del capitale costante. La crescita del saggio del plusvalore trova dei limiti nel fatto che più il lavoro vivo è sostituito dal lavoro morto, meno ulteriori guadagni si possono fare se non aumentando enormemente il capitale costante. Per questo la svalorizzazione dei beni capitali non può compensare la caduta del saggio di profitto.
La svalutazione del capitale costante non può nascondere il fatto che esso diventi una parte crescente del capitale complessivo. Per quanto possa svalutarsi il macchinario, è un fatto che ogni singolo operaio muova un valore crescente di capitale. La progressiva caduta del saggio di profitto è un’espressione peculiare al modo di produzione borghese dello sviluppo della produttività del lavoro. Il modo con cui si presenta questa caduta può dipendere da ogni tipo di circostanza singola ma il lavoro morto, accumulato per generazioni, cresce sempre di più.
Sulla svalutazione del capitale costante (soprattutto dei costi fissi) occorre poi osservare questo. Questi costi sono spesati nel bilancio delle aziende, ovviamente. Sia che si sia investito troppo e che dunque vi sia del capitale fisso immobilizzato (che pesa come un macigno sul saggio di profitto), sia che un nuovo macchinario abbia eliminato ex post parte del valore del capitale costante stesso, l’unico modo per uscire dalla crisi è svalutarlo, ma questo capitale fisso è stato comprato, svalutarlo comporterà un peso notevole per il futuro.
Per questo l’aggiustamento non può essere immediato. Con quale denaro (profitti, crediti) potrà il capitalista sostituire il vecchio macchinario, quando gli attuali prezzi già non consentono di ricostituire il costo di produzione originale? Se i profitti, qualunque ne sia la causa, scendono, vi sono minori risorse per investire. Di necessità l’innovazione tecnologica si ridurrà e con essa la svalorizzazione del capitale costante. Il processo di distruzione della sovra-accumulazione non avviene armonicamente e in un istante ma attraverso una guerra aperta tra capitalisti e tra le classi [22].
Anche la “soluzione” che secondo questa tesi risolverebbe la crisi, ovvero la riduzione dei salari, non è di per sé la via di uscita, anzi, riducendo i mercati può aggravare la crisi. Ma può essere una via di uscita quando avviene per una sconfitta storica della classe operaia di cui la borghesia ha la forza di avvantaggiarsene. Quando ciò avviene, la borghesia si disinteresserà delle contraddizioni del proprio sistema prendendo a prestito dal futuro. Così accadde, per esempio, all’inizio degli anni ’80.
Un’altra posizione errata dei teorici del profit squeeze è l’idea che dato che la legge della caduta tendenziale è un problema “tecnico”, ci sarà anche nel socialismo, confondendo produzione capitalistica e produzione in generale. Nel socialismo la riduzione del tempo di lavoro necessario servirà principalmente a ridurre l’orario di lavoro effettivo come strumento per accrescere la partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’economia e dunque porre le basi per l’estinzione dello Stato. Scomparso il mercato, scomparsa la regolazione incosciente del lavoro sociale tramite i prezzi, scomparsa la forma stessa del profitto, il pluslavoro sarà usato collettivamente e socialmente per accrescere il benessere della collettività. Non si potrà dare la caduta tendenziale di qualcosa che non ci sarà più.
Quanto all’argomento della piena occupazione, è errato considerare una percentuale assoluta della popolazione come attiva. Il capitalismo trova il modo di ricreare l’esercito di riserva in un modo o nell’altro. I controlli sull’immigrazione non hanno favorito la piena occupazione. Sotto il piano empirico, vi sono dati contrastanti circa l’effettiva dimensione delle concessioni fatte alla classe operaia nel dopoguerra, così come sul ruolo della redistribuzione concreta dovuta allo stato sociale. Tuttavia è indubbio che la disoccupazione negli anni 60 fosse ai minimi storici nei paesi del G7 e che i sindacati fossero molto più forti che in passato.
Inoltre, è superficiale la teoria che sia la concorrenza ad abbassare il profitto. Come già aveva osservato Ricardo criticando Adam Smith: la concorrenza può livellare il saggio, ma non eliminare profitti, la concorrenza esegue le leggi di movimento del capitalismo, non è queste leggi.
Infine, occorre ricordare che la legge della caduta tendenziale si accompagna sempre all’aumento del plusvalore relativo (se no i capitalisti non investirebbero in tecnologia), ma ciò non può contrastare la caduta del saggio di profitto. Si può dimostrare anche con una semplice formula matematica. Infatti, se scriviamo la composizione organica del capitale come: c/(v+c) vediamo che per ogni c, v, s: (c+v)/c>s/(c+v). Quindi la tendenza del saggio di profitto a calare non può essere fermata dalla crescita del plusvalore relativo perché il saggio di profitto è minore di c+v/c che tende a diminuire (aumento della composizione organica del capitale).
Sebbene, in definitiva, l’idea del profit squeeze abbia difficoltà a spiegare il fatto che il calo del saggio di profitto è una tendenza mondiale e di lungo periodo, mentre le vicende della lotta di classe sono diverse in ogni paese, c’è il rischio di esagerare anche in senso opposto, concependo le leggi economiche come operanti in modo avulso dalla lotta di classe. Ciò significa negare che la classe operaia possa ottenere delle vittorie nel capitalismo o che gli effetti di queste vittorie durino anni nei rapporti tra le classi. Come le sconfitte.
Dimenticarsi della lotta di classe significa ridurre il saggio di profitto a una frazione aritmetica. Ma i capitalisti basano le proprie decisioni di investimento sul saggio di profitto futuro. Lotte operaie importanti possono scoraggiare gli investimenti. Negarlo significherebbe che l’attività sindacale è inutile, che il ruolo dei marxisti si riduce a convincere gli operai della bontà del socialismo. Significherebbe negare il programma di transizione di Trotskij come metodo e strategia. L’essenza del programma di transizione è che il movimento operaio può mettere in campo un programma nel capitalismo che ponga le basi per la rivoluzione. Come sarebbe possibile che questo programma non riducesse gli investimenti e i profitti?
Il rapporto tra la caduta del saggio di profitto e la lotta di classe è dialettico. In linea generale, l’acuirsi della lotta di classe riflette la necessità dei capitalisti di accrescere i profitti. Ma la lotta di classe non deriva direttamente e meccanicamente dal ciclo economico. Il maggio francese e l’autunno caldo italiano sono esempi di esplosioni rivoluzionarie dovute all’accumularsi di tensioni sociali politiche, senza che ciò fosse direttamente connesso al calo dei profitti nel periodo immediatamente precedente. Quei movimenti condussero a consistenti vittorie per i lavoratori e dunque, tra le altre cose, a una riduzione del saggio del profitto. Su scala storica, dove i decenni si intravedono appena, distinguere la causa scatenante (ha cominciato prima la classe operaia con le lotte o la borghesia con i licenziamenti?) è secondario di fronte al punto centrale: il processo della accumulazione di capitale.
Note
[*] (Nota Antiper) Per “caduta tendenziale” si deve intendere “caduta tendenziale del saggio di profitto”.
[22] A questo proposito occorre osservare quanto antidialettica e antimaterialista sia l’idea, sintetizzata nel noto “teorema di Okishio” secondo cui l’innovazione, che ha lo scopo di ridurre i costi e non di aumentare i profitti, comporta sempre un aumento del saggio di profitto. Ovviamente, il fatto che per giungere a questa conclusione (matematica, non certo empirica) si debba astrarre dal processo di diffusione dell’innovazione e dal capitale fisso non è un problema per questi teorici.