Geoffrey de Ste. Croix | La lotta di classe nell’antichità greca e romana
Lo statuto teorico delle classi sociali nel pensiero di Marx ha suscitato numerose interpretazioni. Al fine di comprenderne il senso, G. E. M. de Ste. Croix propone di ritornare sulle difficoltà specifiche della sua pratica di storico, nonché dell’oggetto fortemente problematico di quest’ultima: le lotte di classe nell’antichità. Gli schiavi costituivano una classe nell’antica Grecia? A detta di altri storici marxisti come Vidal-Naquet e Vernant, la risposta non può che essere negativa {Se il discorso dei due antichisti fosse corretto dovremmo dedurre che non esistono classi distinte nel mondo antico e che dunque tutti fanno parte di una stessa classe; ora, anche senza scomodare analisi più raffinate, si può davvero sostenere che gli schiavi – che ancora nel diritto di Roma sono considerati cose (rei) – e le famiglie aristocratiche (o anche i semplici cittadini liberi) facciano parte di una medesima classe? [Antiper]}. Di fronte a tali società, così lontane dal capitalismo contemporaneo, il solo modo per restituire senso al corso della storia, per de Ste. Croix, consiste nel ristabilire la prospettiva marxiana nella sua forma più rigorosa e coerente: le classi sono l’altra faccia del rapporto sociale di sfruttamento. L’intervento dello storico dell’antichità mostra dunque come un decentramento radicale, uno sguardo rivolto al lontano passato, possa chiarire la complessità dei rapporti sociali odierni. [Traduzioni marxiste]
È allo stesso tempo un onore ed un piacere prendere la parola qui oggi (1). È un onore che mi sia stato chiesto di tenere la conferenza annuale in memoria di Isaac Deutscher, un uomo che ha sempre seguito il proprio pensiero con grande coraggio, il quale ha cercato per tutta la vita di dire la verità, così come egli la vedeva, senza lasciarsi intimidire dagli attacchi, da qualsiasi parte provenissero. (Non posso che rimpiangere vivamente di non aver avuto occasione di conoscerlo personalmente). Ed è un piacere tenere questa conferenza alla London School of Economics [d’ora in poi abbreviato come LSE, n.dt.]. Infatti, e la cosa potrebbe forse sorprendervi, è proprio qui che ebbi il mio primo incarico accademico, insegnandovi per tre anni all’inizio degli anni Cinquanta. «Insegnato», tuttavia, è probabilmente un termine eufemistico, poiché i miei interessi, in quanto assistente in Storia economica dell’antichità, erano assai lontani da quanto previsto dal programma del corso; e in effetti, alcuni dei miei colleghi del Dipartimento di storia economica mi hanno talvolta fatto capire – molto educatamente, sia ben chiaro – di essere un po’ infastiditi dal mio occupare un posto che, altrimenti, sarebbe stato appannaggi di qualcuno realmente utile, capace, a differenza di me, di farsi carico di parte del programma. Allora iniziai a far del mio meglio per trovar qualcuno interessato a quanto avevo da offrire; ma quando facevo il giro dei dipartimenti, chiedendo se potevo tenere delle conferenze suscettibili di riscuotere un qualche interesse fra i loro studenti, le mie proposte venivano prudentemente rifiutate. Poi, improvvisamente, con mia grande gioia, venni inserito nel programma, per quanto ad un livello marginale. Ricevetti una lettera del professore di contabilità, Will Baxter (un’autorità riconosciuta in materia nel mondo anglofono), il quale mi chiedeva di tenere dei corsi nel suo dipartimento. «Sarebbe un grande piacere per noi, era scritto nella lettera, sapere di più a proposito della contabilità dei greci e dei romani, in particolare se conoscevano il sistema della partita doppia – insomma, cose del genere». Ovviamente, io non sapevo niente in merito alla contabilità antica, non più della maggior parte degli altri antichisti, ma mi sono immerso nello studio della questione. Si rendeva necessario un enorme lavoro sulle fonti originali, poiché mi ero reso conto che non vi era praticamente niente di buono nei libri moderni. Viceversa, trovai una quantità sorprendente di testimonianze di prima mano, non solo nelle fonti letterarie e giuridiche, ma anche nelle iscrizioni e sopratutto nei papiri. Quello che scrissi rappresenta, che io sappia, l’unico studio generale sull’argomento ad aver impiegato tutte le differenti tipologie di fonte (2). (Credo venga ancora citato come riferimento). Tenni anche alcuni corsi alla LSE, tanto sulla contabilità antica quanto su argomenti correlati, come il prestito a cambio marittimo (un precursore dell’assicurazione marittima) (3): l’uditorio era costituito dal professore, dalla sua squadra e da storici dell’antichità provenienti da altre facoltà, ma non, per quanto mi era dato sapere, da studenti della LSE stessa. E persino dopo aver lasciato Londra per Oxford, ormai trent’anni fa, sono stato invitato ogni anno a ritornarvi per tenere una conferenza sulla contabilità antica e medioevale, sino alla fine degli anni Settanta.
Non farò oggi dei rimandi nella forma dovuta alle differenti opere pubblicate che avrò occasione di citare, tuttavia, esse possono essere tutte identificate agevolmente appoggiandosi sia al mio recente volume The class Struggle in the Ancient Greek World, sottotitolo From the Archaic Age to the Arab Conquests (vi farò riferimento come al «mio libro sulla lotta di classe»), sia ad un recente articolo che presenterò al «colloque Marx» che si svolgerà a Parigi prossimamente, i cui atti verranno pubblicati appena possibile (4).
Il problema dei concetti di classe e lotta di classe
Vi chiedo di scusarmi poiché mi lascio andare direttamente a dei ricordi personali. Questi ultimi sono di fatto assai pertinenti riguardo al soggetto di questa conferenza (vale a dire, il concetto di classe nella concezione della storia di Marx), dato che spiegano un aspetto importante del processo di maturazione intellettuale che mi ha condotto alla mia posizione attuale.
A proposito di Marx, non ho saputo niente di questo autore sino alla metà degli anni Trenta, l’epoca all’incirca dei miei venticinque anni. Dopo un’educazione solidamente orientata a destra, mi qualificai come avocato e trovai lavoro in uno studio di Westminster; a seguito dell’ascesa del fascismo, inizia ad interessarmi al movimento operaio. Sempre in questo periodo, sebbene fossi molto impressionato dall’interpretazione marxista della storia, e per quanto ero riuscito a comprenderne qualcosa (in realtà la ma conoscenza era davvero limitata), le mie idee rimanevano confuse. In particolare, anche se ero disposto ad accettare le idee marxiste sulle classi sociali e la lotta di classe, le quali esercitavano su di me una forte attrazione sin da quando ne ero venuto a conoscenza, in questo dominio vi erano delle difficoltà che all’epoca non ero in grado di affrontare in modo soddisfacente. Mi consideravo già un marxista (forse dovrei dire «mi sentivo marxista»), ma per il momento non ero del tutto preparato a prendere parte a delle controversie. Per esempio, non sapevo ancora dare una risposta all’argomento secondo il quale sarebbe incorretto parlare della «classe operaia», cosa che molti a sinistra facevano e fanno tutt’oggi, come si trattasse di un corpo unificato, il quale porta avanti all’unisono un’attività politica, con un obiettivo comune ed una vera e propria «coscienza di classe». Ricordo che un amico attivo nel Partito comunista mi rimproverava di non avere fede «nella coscienza rivoluzionaria del proletariato». Non credo di aver avuto la sicurezza necessaria a rispondere (come avrei fatto oggi) che il proletariato possiede certamente una «coscienza rivoluzionaria» potenziale, e che gli avvenimenti potranno un giorno renderla attuale; ma rammento di aver avuto, anche all’epoca, il sentore che parlare di «coscienza rivoluzionaria» come un qualcosa già in atto nella classe operaia britannica significava illudere se stessi. Soprattutto, non avevo alcuna risposta da dare ai miei amici non-marxisti, i quali mi facevano notare – a giusto titolo – come tale fatto implicasse necessariamente che una classe abbia coscienza della propria identità comune, una coscienza di classe dunque, e che essa partecipi ad un’attività politica comune. Le stesse persone, inoltre, sottolineavano il fatto – poiché di un fatto si tratta – che nella maggior parte dei paesi del mondo, in epoca moderna, queste due caratteristiche nono sono presenti ad un livello sufficiente, e mancano in particolare nella classe operaia dei paesi più avanzati, sopratutto in quelli in cui il capitalismo è maggiorente sviluppato: gli Stati Uniti, dove nel complesso la politica non viene praticata su linee di classe o in termini di classe. Gli amici non-marxisti ne traevano la conclusione, esattamente come fanno in molti ancor’oggi, secondo la quel il concetto stesso di classe sociale, ed in particolare la teoria marxista dell’importanza del conflitto di classe (della lotta di classe), hanno ben poco valore euristico ed esplicativo, non consentendo di comprendere il mondo contemporaneo, al punto che l’analisi marxista della società moderna può essere ritenuta un fallimento.
Spero di aver chiarito come tutta l’argomentazione che sto descrivendo poggia su alcuni presupposti (da me oggi ritenuti falsi), ovvero, che è necessario considerare tanto la coscienza di classe, quanto l’attività politica regolare, quali tratti necessari all’esistenza delle classi e della lotta fra di esse, da cui consegue l’impossibilità di praticare un’analisi marxista di classe laddove tali caratteristiche siano assenti. Attualmente, se non rigettiamo queste false premesse, risulterà ancora più difficile fronteggiare gli argomenti che andrò ad abbozzare; ad esempio, perché alle elezioni del giugno 1983, di fatto, solo una minoranza della classe operaia britannica che ha partecipato al voto ha scelto il Partito laburista, mentre circa un terzo, persino di più a seconda di come viene definita la classe operaia, ha votato i conservatori, guidati da una donna dalle opinioni profondamente reazionarie e del tutto opposte ai suoi interessi. Oggi più che mai, coloro le cui idee sono orientate a destra ci ripetono con insistenza (mi sbaglio forse?) che l’analisi marxista e di classe della società è in procinto di divenire sempre più inadeguata.
Al momento presente, ritengo di poter far fronte alle argomentazioni cui ho accennato, ma negli anni Trenta non mi ero ancora reso conto di quanto dipendessero da presupposti falsi e, come spiegherò, solamente durante il percorso che mi ha portato a diventar uno storico dell’antichità ho scoperto perché tali premesse vadano respinte vigorosamente.
Prima che potessi risolvere questa ed altre questioni, sopraggiunse la guerra, durante la quale decisi di abbandonare la carriera legale nel momento in cui mi sarei congedato dalla RAF, e di tentare la strada dell’insegnamento. Avevo lasciato la scuola a quindici anni, dopo aver dedicato la maggior parte del mio tempo al greco e al latino e, ricordando ben poco di ciò che avevo appreso di tali lingue, speravo che l’università mi avrebbe permesso di studiare la storia greca e romana, della quale sapevo poco e niente. Com’era costume all’epoca, il mio studio scolastico delle lettere classiche verteva soprattutto su alcuni testi letterari, intesi innanzitutto come un’estenuante serie di problemi grammaticali e stilistici, e ovviamente comportava anche dei tentativi di scrivere in prosa latina e greca, oltreché in versi, nello stile degli autori classici. Non ricordo di aver mai trovato il minimo interesse e senso in questa attività, ciò nonostante vi ero abbastanza portato, ed ero sicuro che con la perspicacia storiografica che avrei acquisito in seguito avrei trovato, può darsi, quel senso nella storia greca e romana. Ebbene, non restai deluso. Ebbi l’eccezionale occasione di ricevere, allo University College di Londra, gli insegnamenti di A. H. M. Jones, il quale, dal mio punto di vista, è stato l’anglofono che più di tutti, dopo Gibbon – e senza aver mai letto Marx che io sappia, ha contribuito alla storiografia antica. Ottenni la mia prima laurea a trentanove anni, e dopo un anno di ricerca giunsi alla LSE nel 1950, come ho già avuto modo di dire.
È vero che un approccio marxista può elevare lo studio della storia ad un grado di comprensione affascinante, a mio modo di vedere impossibile da raggiungere altrimenti. Ma il problema della storia è che essa ha a che fare, in gran parte, con i nudi fatti, i quali, nella misura in cui possono essere scoperti, esercitano d’abitudine una terribile vendetta su colui che li spaccia per qualcosa d’altro rispetto a ciò che sono realmente. Sono consapevole che vi sono numerosi sedicenti storici che si sentono a disagio quando quando sentono dire che la storia si occupa di fatti, e si impegnano a confutare ciò – inutile ripetere le loro argomentazioni, che alcuni tra di voi avranno sentito sin troppo frequentemente. Vorrei soltanto riprendere una magnifica osservazione (citata nel mio libro sulla lotta di classe) di Arthur Darby Nock, un’autorità riconosciuta in materia di religione ellenica e romana, emigrato dalla Cambridge inglese a quella del Massachusetts, il quale ha scritto: «un fatto rappresenta qualcosa di sacro, e non dovrebbe ami essere deposto sull’altare della generalizzazione» (5). Nel complesso, per quanto riguarda la storia antica, si dispone di meno fati affidabili rispetto alle epoche più recenti. Il che mi fa pensare ad una celebre massima in rapporto con una disciplina molto diversa, il cui spirito vorrei vedere all’opera presso gli storici dell’antichità: «su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere» (6). Se simile principio fosse regolarmente applicato nel dominio della storia antica, e in particolare agli esordi dalla storia greca, un’enorme parte dei diluvi speculativi che si riversano nella stampa europea, di alcuni paesi d’oltre atlantico e degli antipodi, si prosciugherebbe.
Nello studiare le fonti della storia greca e romana, mi trovai a dover constatare che, per quanto un approccio marxista apportasse elementi di comprensione inediti, esso urtava precisamente con le stesse difficoltà che mi avevano impensierito in rapporto al mondo contemporaneo, e oltretutto, in maniera ben più acuta. La ragione per la quale la situazione sembrava peggiore per l’antichità risiedeva nel fatto che Marx ed Engels avevano sempre considerato gli schiavi come una classe (7); e tuttavia, di tutti i gruppi sociali della storia che parevano meritevoli di essere ritenuti una classe, nel senso di Marx, proprio gli schiavi greci e romani erano chiaramente privi di qui tratti che, come ho già spiegato, ero giunto a concepire quali ingredienti essenziali del concetto di classe: ovvero, la coscienza di classe e l’attività politica comune. Ancor più che nel caso degli schiavi neri dell’America del Nord, dell’America centrale, dell’America del Sud e dei Caraibi, ad esempio, una famiglia di schiavi greca o ramana era sovente composta, deliberatamente, da individui di nazionalità e lingue assai diverse. (Vi è tutta una serie di scrittori greci e romani – citati nel mio libro sulla lotta di classe – che incita i proprietari ad acquistare un insieme di schiavi etnicamente e linguisticamente variegato) (8). L’eterogeneità di un gruppo di schiavi rendeva loro difficile la comunicazione reciproca, se non nella lingua del loro padrone e dunque, ovviamente, ben più complicato rivoltarsi o anche solo resistere. Non sorprende constatare come le differenze etniche e culturali giocheranno un ruolo importante nel favorire la disunione nelle grandi rivolte di schiavi, in italia e Sicilia, che avranno luogo in maniera concentrata nel corso di alcune generazioni, sul finire della Repubblica romana, tra gli anni 130 e 70 a. C. (9) – le quali, d’altronde, non implicheranno mai più di una ridotta frazione della popolazione servile totale del mondo romano dell’epoca. Allora a cosa diavolo si riferivano Marx ed Engels quando parlavano, nel Manifesto del partito comunista, di lotta di classe a proposito degli schiavi antichi?
Non vi è dubbio, chiunque supponga – a torto – che la coscienza di classe e/o l’attività politica comune siano caratteristiche essenziali di una classe si pone in una posizione impossibile, laddove ammetta che gli schiavi formano una classe. Credo sia precisamente questa la ragione per cui quasi tutti gli storici continentali dell’antichità che ho avuto modo di leggere, compresi dei sedicenti marxisti, prendendo coscienza del dilemma, hanno scelto la strada peggiore decidendo che gli schiavi non possono essere intesi come una classe (10). (Uso l’espressione «sedicenti marxisti» o «marxisti autoproclamatisi» poiché mi sembra che chiunque rifiuti di considerare gli schiavi una classe neghi, per ragioni che indicherò a breve, un principio basilare del pensiero di Marx). Mi sono sempre sentito a disaggio rispetto ai testi che ho descritto, ma soltanto in questi ultimi anni sono stato in grado di comprendere cosa non andava. Mi piace credere di aver ben presto sospettato che se un uomo di così vertiginosa potenza intellettuale come Marx, sin dall’inizio, ha scritto degli schiavi come se costituissero una classe, malgrado le serie difficoltà che ciò sembrava causare, è perché forse aveva un’altra idea del concetto di classe rispetto ai suoi commentatori moderni. Ma qual era tale idea? Come sappiamo tutti, Marx non propose mai una definizione di classe in generale. Alla fine del III volume del Capitale, dove l’opera si arresta bruscamente, egli era sul punto di fornirla… ma non del tutto: egli si apprestava a definire, non la classe in generale, bensì «le tre grandi classi della società», le classi considerate individualmente della sua epoca (11).
Il primato dello sfruttamento
È giunto il momento di spiegare, senza ulteriori indugi, ciò che Marx, a mio modo di vedere, intendeva principalmente col termine «classe», un concetto che ritengo fondamentale nel suo pensiero e che condivido interamente. Considero tutto il complesso dei ragionamenti, dei quali la classe costituisce il cuore stesso, il contributo più utile ed efficace mai fornito all’analisi della società umana, superato, quest’ultima, il suo stadio più primitivo. Parlo di «ciò che Marx intendeva principalmente col termine “classe”» – poiché è possibile dimostrare come egli impieghi in alcuni casi il termine in un senso assai differente (più ristretto) rispetto a quello che considero fondamentale. Mi piace credere che il contributo più importante della parte teorica del mio libro sulla lotta di classe consista nel delucidare questo significato fondamentale del concetto di classe in Marx (12), nonché distinguerlo da altri usi da egli fatti del termine, laddove lascia che sia il contesto a dargli un senso più ristretto rispetto a quello che normalmente gli appartiene. Che io sappia, il mio volume è il primo, qualsiasi lingua si prenda in considerazione, a decifrare al contempo questa teoria nella sua interezza e applicarla nel dettaglio ad un lungo periodo della storia – qualcosa come tredici o quattordici secoli, subito dopo l’epoca arcaica della storia greca sino alla conquista, da parte degli arabi, di una buona parte della metà orientale («greca») dell’Impero romano. Laddove un dilemma ha come causa apparente il ricorso incoerente di Marx alla terminologia di classe (e specialmente in rapporto al conflitto di classe, la lotta di classe, Klassenkampf), numerosi marxisti autoproclamatisi hanno finito, come ho detto poc’anzi, per imboccare la strada sbagliata, rigettando una parte fondamentale della teoria di Marx. Ovviamente, non dobbiamo mai seguire Marx ciecamente, né esitare a correggerlo quando dà un giudizio falso o insufficiente, come talvolta gli accade, generalmente per mancanza di conoscenza circa le testimonianze storiche, quest’ultime non sempre accessibili ai suoi tempi. Ma il neo-marxismo o pseudo-marxismo, che vanta tanti adepti nel mondo contemporaneo, è dovuto spesso alla pura e semplice incomprensione di ciò che Marx intendeva realmente, come mi auguro di dimostrare oggi in relazione al senso del concetto di «classe».
Per dare corpo alla mia breve definizione: la classe (come ho affermato nel capitolo II, ii sottosezione del mio libro) (13), è l’espressione sociale collettiva dello sfruttamento, la maniera con cui quest’ultimo si integra in una struttura sociale. (Col termine «sfruttamento», intendo ovviamente l’appropriazione di una parte del prodotto del lavoro altrui: in una società produttrice di merci, si tratta dell’appropriazione di quello che Marx chiama «plusvalore»). La classe costituisce essenzialmente una rapporto – allo stesso modo del capitale, un altro dei concetti base di Marx, da lui esplicitamente descritto, in una decina di passi che ho identificato, come un «rapporto», «un rapporto di produzione sociale», e così via (14). E una classe (una classe in particolare) è un gruppo di persone in seno ad una comunità, identificate dalla loro posizione nel’insieme del sistema di produzione, la quale è definita innanzitutto in funzione del loro rapporto (principalmente in termini di grado di controllo) con le condizioni della produzione (vale a dire, ai mezzi e al lavoro di produzione) e con le altre classi. Gli individui che costituiscono una data classe possono essere pienamente o parzialmente coscienti della loro identità ed interessi comuni di classe, ma non necessariamente; essi possono nutrire ostilità verso membri di altre classi in quanto tali, ma non si tratta di un’eventualità necessaria. Il conflitto di classe (lotta di classe, klassenkampf) costituisce essenzialmente il rapporto fondamentale tra le classi, che comporta lo sfruttamento e la resistenza a quest’ultimo, ma non implica necessariamente la coscienza di classe o l’attività collettiva comune, politica o d’altra natura, benché tali qualità abbiano possibilità di aggiungersi, quando una classe abbia raggiunto un certo stadio di sviluppo e sia divenuta quella che Marx ha chiamato una volta «una classe in sé» (ricorrendo ad un’espressione di Hegel) (15). Gli schiavi dell’antichità (e delle epoche posteriori) corrispondono perfettamente a questo schema. Non soltanto Marx ed Engels hanno a più riprese designato gli schiavi antichi come una classe; in tutta una serie di passi (16), lo schiavo antico si vede attribuire esattamente la posizione del salariato libero sotto il capitalismo e del servo in epoca medioevale – lo schiavo è, in rapporto al proprietario di schiavi, ciò che è il proletario rispetto al capitalista e il servo rispetto al signore feudale. In ognuno dei tre casi, i rapporto è esplicitamente di classe, implica un conflitto di classe la cui essenza è lo sfruttamento, l’appropriazione di un eccedenza del produttore primario: proletario, servo o schiavo. Ecco la vera essenza del concetto di classe. Di fatto, in tre delle loro opere giovanili, scritte nel corso degli anni Quaranta del XIX secolo, Marx ed Engels hanno commesso quello che ho definito nel mio libro «un errore metodologico e concettuale minore» (17), laddove parlano di lotta di classe non tra schiavi e proprietari di schiavi, come avrebbero dovuto fare, bensì tra schiavi e uomini liberi o cittadini. Si tratta chiaramente di un errore perché la stragrande maggioranza degli uomini liberi, e anche dei cittadini, non possedeva schiavi; ovviamente, la distinzione tra schiavo e uomo libero o cittadino, per quanto possa essere importante, non è una distinzione di classe ma solamente di condizione o «ordine». Fortunatamente, Marx ed Engels non ripeteranno questo errore dopo il 1848, almeno per quanto mi è dato sapere , tuttavia se qualcuno dovesse essere a conoscenza di un esempio posteriore, sarei felice di avere un riferimento.
Questa posizione teorica, alla quale sono pervenuto negli anni Settanta, risolve tutti i problemi che ho evocati precedentemente. Essa sopprime tutte le difficoltà che impediscono di considerare gli schiavi come una classe. La sua applicazione alla Gran Bretagna thatcheriana è sin troppo evidente. Il fatto che la classe operaia britannica sia lungi dall’essere cosciente di se stessa, o dal costituire un’unità politica cessa di essere pertinente. Ad essere significativo è che il governo si schiera in maniera schiacciante dalla parte delle classi possidenti, e che tiene assolutamente – nella misura in cui può raggiungere i propri obiettivi senza esser fatto fuori alle prossime elezioni – a mantenere alti i profitti riservati principalmente alle classi possidenti e bassi i salari destinati ai lavoratori, i quali si sentono dire, incessantemente, che se si dimostrano «avidi» (in primo luogo tramite i loro sindacati), saranno loro a farci perdere le nostre quote di mercato a causa dei prezzi troppo alti.
Sopratutto, la prospettiva teorica che ho descritto ci aiuta a comprendere un fenomeno sinistro di estrema importanza nel mondo contemporaneo: lo sfruttamento capitalistico su scala mondiale, il quale ha assunto dimensioni senza precedenti in questi ultimi decenni, con l’aumento dell’esportazione di capitali dai paesi più avanzati verso le aree meno sviluppate, in particolare in quelle dove, grazie all’assenza di democrazia, la mano d’opera può essere sottoposta ad un elevato grado di controllo e coercizione – le dittature repressive dell’America del sud e di quella centrale, ad esempio, le quali godono del sostegno degli Stati Uniti, e naturalmente l’archetipo dell’oligarchia nel XX secolo, l’Africa del sud, che gioca un ruolo non da poco nello spirito di molte persone influenti del nostro paese in quanto bastione di quello che si compiacciono di definire «mondo libero». Come sapiamo tutti, il fine di questo movimento globale e di produrre il massimo profitto possibile per gli investitori, membri delle classi possidenti, con i salari più bassi possibile per i lavoratori – lo sfruttamento nel suo senso più completo. Nel quadro di quella che ho definito nel mio libro «lotta di classe sul piano ideologico» (18), tutto questo processo si vede attribuire un’aria di rispettabilità poiché lo si designa come azione benefica «dell’impresa» tramite «il libero mercato», sul quale si può contare, com’è abbastanza evidente, in conseguenza della sua stessa natura, per distribuire i benefici, sotto forma di profitti, innanzitutto a coloro che producono al prezzo più basso possibile e che non si fanno scrupoli quanto ai salari dei loro operai.
Attività politica e coscienza
Il punto di vista teorico che ho descritto ha il grande vantaggio di consentirci di impiegare il concetto di classe in maniera coerente, con lo stesso senso, su tutto lo spettro delle società di classe, dall’epoca preistorica sino ai nostri giorni. Mi auguro di aver sottolineato a sufficienza quanto l’esser divenuto uno storico dell’antichità mi abbia permesso di risolvere i problemi che mi avevano a lungo lasciato perplesso. È in particolare lo studio dello schiavismo greco e romano ad avermi consentito di comprendere la natura del concetto di classe nel pensiero di Marx. Come ho già detto, egli ha sempre concepito gli schiavi come una classe. Ma ecco il caso più estremo: se gli schiavi antichi devono essere considerati come una classe, allora né la coscienza di classe né l’attività politica comune (entrambe ben oltre le capacità degli schiavi dell’antichità) non possono pretendere di essere considerati quali elementi necessari del concetto di classe nella logica di Marx! Il che fornisce anche la soluzione delle difficoltà relative alle classi nella società moderna, delle quali mi preoccupavo sin dagli anni Trenta.
Mi sia concesso di deviare rispetto al soggetto del mio intervento per dire che diversi concetti di classe sono stati sviluppati, e ovviamente ciascuno è libero, se ritiene ciò porti a risultati più fruttuosi, di adottare una concezione del tutto differente da quella di Marx. (La sola restrizione, per così dire, che pongo, è che non si tenti di far passare le proprie idee particolari per quelle di Marx, o di far credere che la propria concezione rappresenti quella di quest’ultimo). La maniera più familiare ai sociologi di trattare tale soggetto è probabilmente quella di Max Weber (19), la cui definizione di classe è assai lontana da tutto ciò che è possibile attribuire a Marx. Per esempio, Weber non riteneva in alcun modo che gli schiavi potessero costituire una classe «nel senso tecnico del termine» (vale a dire, secondo la definizione della classe propria di Weber) poiché, come egli sosteneva (e io lo cito), «il destino degli schiavi non è determinato dalla possibilità di utilizzare dei beni o dei servizi per se stessi sul mercato» (20). A detta di Weber, «in fin dei conti la “situazione di classe” è la “situazione sul mercato”»; ovviamente gli schiavi non agiscono sul mercato: essi dunque non rientrano, per Weber, nel concetto di classe bensì in quello di Stand, uno status group. Ci tengo a ribadire oggi, come ne mio libro sulla lotta di classe (21), il mio stupore nel non trovare nell’opera di Weber – e penso di aver esaminato tutte i passi pertinenti – il minimo tentativo serio di prendere in considerazione un concetto di classe radicalmente diverso qual era quello di Marx. (Se dovessi aver tralasciato qualcosa, spero che qualcuno mi illumini). Tuttavia, suggerisco che vi possa essere un motivo semplice: Weber, come molti altri, non è forse mai ben riuscito a farsi un’idea circa l’esatto concetto di Marx.
È necessario aggiungere qualcosa, mi pare, a proposito del concetto di classe in Marx. Una delle differenze principali tra la mia posizione e quella di molti altri che hanno scritto riguardo a tale soggetto, come ho già avuto modo di indicare, risiede nel fatto che io non ho mai accordato un egual peso a tutti i differenti passi (e ve ne sono a centinaia) nei quali Marx dice qualcosa che può essere presa come un’indicazione relativa alla sua concezione della classe. Ciò che molti non comprendono e che questi enunciati di Marx non possono essere tutti conciliati. Invece di cercare a tutti i costi di assimilarli e selezionare ad ogni occasione un enunciato in particolare attagliantesi ad un argomento specifico, ho scelto di distinguere un senso principale del termine «classe» che si adatta a tutte le occorrenze presenti in Marx, salvo rare eccezioni, e insisto sul fatto che i passi in contraddizione con tale senso fondamentale vanno trattati come aberrazioni, esaminati con attenzione al fine di scoprire come il loro contesto – il quale si rivela sempre essere la causa dell’aberrazione – ha dato al passo un senso particolare. In rapporto al mondo antico in particolare, queste aberrazioni possono essere comprese in molti casi laddove ci si renda conto che quando Marx fa riferimento alla «classe» o al «conflitto di classe», egli pensa in primo luogo, se non esclusivamente, a delle lotte di natura politica.
Un esempio tratto dal XIX secolo che nessuno può contraddire si trova in Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, nel quale si legge in relazione alla fine dl 1850 che «la borghesia, abolendo il suffragio universale, aveva messo fine alla lotta di classe» (22). (Circa sette mesi prima era stata votata una legge che restringeva il diritto di voto). Preso così, questo enunciato è semplicemente ridicolo, ma acquista senso se vi leggiamo, come vorrebbe il contesto, che l’abolizione del suffragio universale aveva per il momento bandito il conflitto di classe dal parlamento francese. In alcuni altri passi, Marx, in contrasto radicale con la posizione adottata altrove, si spinge a parlare come se i lavoratori in una società capitalistica non potessero essere considerati come una classe, fintantoché non hanno «preso forma politica» o «non sono organizzati come classe» (23). In un passo spesso citato del 18 brumaio, Marx dice dei piccoli contadini francesi che da un certo punto di vista costituiscono una classe, ma da un’altra prospettiva invece non è così (24). Si da il caso che il contesto esiga che il secondo enunciato riceva tutta l’attenzione, e l’ho già visto citato da solo mentre il primo viene ignorato (25), nonostante sia perfettamente chiaro, sulla base di numerosi altri passi del 18 brumaio e di altre opere di Marx, come egli considerasse di fatto i piccoli contadini come una classe (26).
Coloro che negano che gli schiavi dell’antichità potessero costituire una classe citano generalmente due passi di Marx riferiti esplicitamente alla Klassenkampf: uno afferma (in maniera poco esatta, quale che sia l’interpretazione datane) che «la lotta delle classi nel mondo antico , per es., si muove principalmente nella forma di una lotta fra creditore e debitore» (27), e l’altro, che «nell’antica Roma, la lotta di classe si svolgeva soltanto all’interno di una minoranza privilegiata, tra i ricchi e i poveri che erano liberi cittadini, mentre la grande massa produttiva della popolazione, gli schiavi, costituiva soltanto il piedistallo passivo dei combattenti» (28). La soluzione è che Marx pensa unicamente, in entrambi i casi, a delle lotte politiche, e che la semplice inserzione del termine «politica» per caratterizzar la «lotta di classe» ponga i due enunciati in accordo col fondamento del suo pensiero, consentendoci di accettare i suoi altri enunciati ne loro senso naturale. Non ci rimane allora più alcuna ragione per rifiutare di riconoscere gli schiavi romani come una classe coinvolta in un’incessante lotta di classe sul piano economico.
Sarebbe ingiusto, suppongo, non fare alcun riferimento agli storici – marxisti e non – che cercano di dimostrare o, più sovente, ammettono che gli schiavi non dovrebbero essere considerati una classe. Mi limiterò ai al ristretto gruppo dei più noti fra di essi. (I riferimenti sono disponibili nel III capitolo, sottosezione ii dl mio libro sulla lotta di classe, con una breve ma sufficiente confutazione (29); la questione vien approfondita nel mio testo per il «Colloque Marx» di Parigi). Vi un articolo di uno stimato storico dell’antichità francese, il professor Pierre Vidal-Naquet, spesso citato e che ha ricevuto l’approvazione entusiastica di Sir Moses Finley (30), e anche una raccolta di testi, in francese ed inglese, dello stesso Vidal-Naquet e del dottor Michel Austin (dell’Università di St Andrews), con una lunga introduzione di quest’ultimo. Mi è stato detto che è molto letta fra gli studenti britannici del primo ciclo nella versione migliorata del libro in inglese, intitolata Economic and Social History of Ancient Greece (31). Benché nessuno dei tre studiosi in questione sia in alcun modo marxista, né si consideri tale, essi pretendono di caratterizzare la posizione di Marx. I loro argomenti, se posso così definirli, mi sembrano del tutto privi di consistenza a fronte di quelli da me abbozzati, ma se la cosa vi interessa li potete leggere e farvi la vostra opinione.
Gli italiani non fanno di meglio. Il tempo mi impone di limitarmi a segnalare il professor Andrea Carandini, uno dei migliori archeologi italiani, una marxista che da prova di una conoscenza dell’opera di Marx ben superiore di coloro che menzionato poc’anzi, anche se devo dire che stranamente sembra ignorare il gran numero di testimonianze che vanno contro di lui (32). Il suo libro, incentrato principalmente sulle formazioni economiche precapitalistiche, non mi era accessibile quando ero intento a scriver il mio volume sulle lotte di classe, e devo dunque richiamare il suo enigmatico titolo, il cui senso rischia di essere compreso agevolmente solo da coloro che hanno familiarità coi Grundrisse (33): si tratta di L’anatomia della scimmia. Alcuni anni fa, ad Oxford, avevo uno studente in lettere classiche che cercava in una libreria (non ricordo più quale) l’opera di Rice Holmes sull’Imperatore Augusto, The Architect of the Roman Empire: mi raccontò di averlo trovato nella sezione «architettura». Mi domando dove si sarebbe potuta trovare, in una libreria simile, l’opera di Carandini – il suo «libro sulle scimmie», come lo chiamo talvolta – e mi affretto a precisare che non voglio in alcun modo mancare di rispetto ad uno studioso così competente. Suppongo che la presenza del termine «anatomia» lo relegherebbe probabilmente alla sezione «medicina», sotto la rubrica «anatomia». Ma può darsi che se il libraio conoscesse il significato di «scimmia», tenderebbe a collocarlo in «zoologia».
Contadini e sfruttamento
Voglio ora rivolgere l’attenzione ad un problema della teoria di classe marxista che a suo tempo mi ha dato parecchio filo da torcere, e la cui soluzione mi è forse costata più tempo di tutto il resto. Si tratta di coloro che, di fatto, costituivano la maggioranza della popolazione del mondo greco e romano per diversi secoli, a proposito dei quali sappiamo tutto sommato infinitamente meno che riguardo alle classi superiori (e ciò a causa della natura delle nostre fonti): sto parlando dei produttori liberi indipendenti, i quali certamente erano in larga parte contadini. Il che conferisce maggior interesse a ciò che sto per affermare rispetto all’eventualità che mi limitassi a parlare dell’antichità greco-romana, poiché, come ha detto Teodor Shanin, «vale la pena tenere a mente che nel passato come nel presente, i contadini rappresentano la maggioranza dell’umanità» (34). In questi ultimi decenni sono stati scritti innumerevoli studi sui contadini, il più delle volte da sociologi e antropologi forse maggiormente attrezzati ad occuparsi del mondo contemporaneo, me completamente inadeguati di fronte all’antichità, salvo quelli in grado di sbrogliare quella materia prima, spesso assai complicata, rappresentata dalle testimonianze antiche – i quali, per altro, si contano sulle dita di una mano (35).
La mia problematica specifica, in quanto storico dell’antichità, cominciò ad apparirmi quando ero studente del primo ciclo, alla fine degli anni Quaranta, ma non sono pervenuto ad una soluzione soddisfacente sino agli anni Settanta. In breve, la questione può essere formulata come segue. Nell’antichità, gli schiavi, i servi e le persone ridotte in stato di servitù per debiti subivano lo sfruttamento secondo modalità perfettamente chiare, così come un certo numero di contadini compresi degli agricoltori che pagavano affitti esorbitanti, e avevano dei pagamenti arretrati a causa di ciò, e dei proprietari che, in caso di cattivo raccolto, dovevano indebitarsi a tassi usurai: in entrambi i casi, si poteva essere espulsi o ridotti in schiavitù per debiti. Ma qual era la situazione della stragrande maggioranza dei piccoli contadini proprietari, i quali arrivavano a malapena a sbarcare il lunario grazie alle loro fattorie trasmesse di generazione in generazione? Come venivano sfruttati?
Ho risposto a tale interrogativo nel mio libro, distinguendo tra due differenti specie di sfruttamento: uno che definisco «diretto e individuale», e l’altro «indiretto e collettivo» (36). Il primo («diretto e individuale») viene esercitato su lavoratori salariati, su schiavi, su servi e persone ridotte in servitù per debiti, così come su contadini, mezzadri e debitori ordinari, da parte di datori di lavoro particolari, padroni, proprietari terrieri e creditori; questa forma non presenta alcuna difficoltà. Lo sfruttamento può definirsi «indiretto e collettivo» quando uno Stato (compresi, per esempio, il governo imperiale di Roma o quello di una città greca o romana), rappresentante degli interessi di una o più classi superiori, impone degli oneri sproporzionati a una o più classi dipendenti. Questi oneri possono essere ripartiti agevolmente in tre categorie: la tassazione, la coscrizione militare ed il lavoro forzato o il servizio personale effettuati sotto costrizione. Mi soffermerò brevemente su ognuna delle tre. La tassazione, spesso incredibilmente leggera nelle città stato della Grecia classica e nella Roma repubblicana, aumenterà enormemente sotto l’Impero romano, sino ad assorbire una parte consistente del prodotto totale del contadinato nel tardo impero: si veda in particolare l’ultimo capitolo del mio libro sulla lotta di classe e ovviamente l’opera fondamentale di A. H. M. Jones su tardo Impero romano (37). Gli effetti della coscrizione militare furono assai vari nell’antichità: talvolta le classi più povere se la cavavano senza troppi problemi, ma nel terzo e nel secondo secolo a.C., come sanno tutti gli storici della Roma repubblicana, la coscrizione rappresentava un enorme fardello per i contadini dell’Italia romana e numerosi agricoltori poveri perdevano la terra in sua conseguenza. L’ultima delle tre categorie, i servizi obbligatori, ha ricevuto molta meno attenzione delle altre due, e dunque ne fornirò uno o due esempi che tutti conosceranno, tratti dal Nuovo testamento. Abbiamo tutti sentito parlare di Simone di Cirene, che i Romani obbligarono a portare la croce di Gesù sino al luogo dell’esecuzione, ma persino i filologi classici ignorano sovente che riguardo a tale episodio tanto Marco, quanto Matteo, impiegano il termine tecnico greco appropriato a simili compiti: una forma del verbo angareuein (38). Angareia in greco e angaria in latino derivano da una parola a lungo adoperata nell’Impero persiano per i servizi di trasporto, ripresa dai regni ellenistici, finì per applicarsi, in epoca romana, a oneri simili e relativi a beneficio dello Stato e delle municipalità (39). È necessario conoscere il sistema dell’angareia per comprendere queste parole di Gesù contenute nel cosiddetto «discorso della montagna»: «Se uno ti costringe ad accompagnarlo per un chilometro, tu va’ con lui per due chilometri» – ancora una volta il termine greco è una forma del verbo angareuein (40). (Vorrei suggerire che questo passo meriterebbe maggiore attenzione di quanta ne abbia effettivamente ricevuta, nei dibattiti circa l’attitudine di Gesù in rapporto alle autorità politiche del suo tempo. Penso si possa considerare uno dei testi che hanno contribuito alla formazione dell’atteggiamento politico passivo di San Paolo, così come è espresso in un insieme di testi catastrofici conosciuti come Lettera ai romani: «perché non c’è autorità che non venga da Dio, e quelle che esistono sono stabilite da Dio» (41). Forse vale la pena far notare come il filosofo Epitteto (un ex schiavo, peraltro) fosse decisamente meno entusiasta di Gesù a proposito della collaborazione con i funzionari che esigevano l’angareia: infatti affermava pragmaticamente che obbedire di fronte alla requisizione del proprio asino da parte di un soldato deriva dal buon senso. Se si fa obbiezione, la conseguenza probabile sarà di essere picchiati, e l’animale verrà comunque requisito (42).
Vorrei aggiungere, che dopo aver elaborato la teoria delle forme di sfruttamento descritta, mi è stato di incoraggiamento l’aver constatato come Marx stesso l’avesse già in parte formulata, in una serie di articoli per la Neue Rheinische Zeitung nel 1850, i quali sono noti sotto il titolo Le lotte di classe in Francia. Marx vi scrive a proposito della condizione dei contadini francesi della sua epoca: «il loro sfruttamento differisce dallo sfruttamento del proletariato industriale ormai soltanto per la forma. Lo sfruttatore è il medesimo: il capitale. I singoli capitalisti sfruttano i contadini singoli con l’ipoteca e con l’usura, la classe capitalista sfrutta la classe dei contadini con l’imposta di Stato» (43).
Società schiavistiche?
Vi è ancora un aspetto della teoria di classe marxista che vorrei affrontare, poiché potrebbe dare adito a perplessità senza il dovuto chiarimento. Si tratta di un problema che può presentarsi in rapporto a qualsiasi società di classe, ma particolarmente acuto nel caso dello schiavismo antico. Al fine di risolverlo bisogna semplicemente riconoscere quanto Marx stesso ha detto in una serie di passi sparsi nei tre volumi del Capitale, da me discussi nel II capitolo, sottosezione ii del mio libro (44). (Può darsi qualcuno abbia già affrontato recentemente il soggetto, a fondo ed in termini generali, ma non sono a conoscenza di un trattazione soddisfacente). In epoca moderna, certi marxisti, coscienti che Marx ed Engels hanno costantemente considerato il mondo greco e romano come una «società schiavistica», hanno ritenuto necessario affermare che in quel contesto la maggior parte della produzione effettiva era compiuta da schiavi. Tuttavia, è possibile dimostrare come tale opinione sia falsa: la gran parte della produzione, in particolare nell’agricoltura (di gran lunga il settore più importante dell’economia antica), era opera di contadini liberi, quantomeno in teoria – anche se a partire dall’inizio del quarto secolo dell’era cristiana, una parte sempre maggiore di essi venne ridotta in servitù sotto diverse forme (45) – e che molto del lavoro di fabbricazione era anch’esso compiuto da lavoratori liberi. Il punto di vista a cui faccio riferimento ha suscitato numerose critiche, a giusto titolo, ma sfortunatamente, in tanti hanno anche supposto che questa opinione sia una conseguenza inevitabile se si accetta un’analisi marxista della società antica, il che non è affatto vero. Non ho intenzione di negare che Marx stesso ha forse creduto che in buona parte dell’Italia e della Sicilia, sul finire della Roma repubblicana (pressapoco l’ultimo secolo e mezzo a.C.), gli schiavi effettuavano la maggior parte del lavoro. (Una posizione che, quantunque falsa, è lungi dall’essere assurda). Ma secondo i principi stabiliti dallo stesso Marx nei passi del Capitale a cui ho alluso, la natura di un dato modo di produzione non si decide sulla base di chi effettua la maggior parte del lavoro di produzione, bensì in funzione del metodo di appropriazione del surplus, ovvero la maniera attraverso la quale le classi dominanti estraggono il surplus dai produttori primari. Perlomeno nelle parti più sviluppate del mondo greco e romano, ammettendo (come ho già detto) che fossero i contadini e gli artigiani liberi ad essere responsabili del grosso della produzione, è a partire dal lavoro non libero che le classi possidenti ottenevano gran parte del loro surplus regolare (46). (Le classi possidenti, nella mia terminologia, sono quelle che possono, se lo desiderano, vivere senza lavorare per il loro sostentamento: che lavorino o meno, non sono obbligate a farlo. Esse rappresentavano può darsi tra il due e tre, o tra il dieci ed il quindici, percento della popolazione libera dell’antichità greca e romana, a seconda del luogo e periodo. La stima più bassa, sono convinto, dovrebbe essere più prossima alla realtà in generale, ed in particolare durante il periodo romano).
Il lavoro non libero non si limitava esclusivamente agli schiavi: innanzitutto, nel mondo greco, delle forme di servaggio (gli Iloti a Sparta, per esempio) esistevano a titolo eccezionale (47); secondariamente, la servitù per debiti esisteva nella maggior parte del mondo greco e romano (l’Atene democratica è la grande eccezione), su scala ben superiore a quanto non abbiano riconosciuto la maggioranza degli storici dell’antichità. (L’ho dimostrato sulla base di numerose testimonianze nel III capitolo, sottosezione iv, del mio libro sulle lotte di classe) (48). Infine, almeno dopo il 300 d.C., mi sembra probabile che le classi possidenti abbiano ottenuto il loro surplus (che aveva ancora un carattere principalmente agricolo) più da contadini-servi che da schiavi veri e propri, benché lo schiavismo abbia conservato una certa importanza. Tuttavia, è una questione atrocemente complicata, che ho cercato di discutere in dettaglio nel IV capitolo, sottosezione iii, del mio libro (49), ed è inutile che mi ci soffermi ulteriormente ora. Desidero soltanto aggiungere che a mio avviso, l’enunciato di Marx maggiormente utile a tal proposito si trova nei Grundrisse, laddove si afferma che il mondo antico è caratterizzato dalla «direkte Zwangsarbeit», il lavoro obbligatorio diretto (50). Il mondo greco e romano – in ogni caso almeno sino al settimo secolo dell’era cristiana, vale a dire tanto lontano quanto mi consente la mia conoscenza delle fonti – era effettivamente una società dipendente dal lavoro non libero, nel senso che le sue classi possidenti hanno sempre estratto dal lavoro non libero la maggior parte del loro surplus regolare.
La versatilità del concetto di Marx
I tempi del mio intervento sono agli sgoccioli, dunque immagino vi aspettiate che spenda qualche parola, prima di concludere, sulle teorie concorrenti dell’interpretazione storica, così da confrontarle col materialismo storico di Marx. Ne evocherò brevemente soltanto due: lo strutturalismo, ed il genere di approccio essenzialmente weberiano associato a Sir Moses Finley e ai suoi discepoli.
Sono in tanti a pensare che lo strutturalismo, rappresentato innanzitutto da Claude Lévi-Strauss e dalla sua scuola, abbia apportato un contributo di grande rilevanza all’antropologia, tuttavia mi pare che la sua applicazione alla storia più che fare luce abbia portato confusione, anche se alcuni suoi adepti, in particolare la bizantinista francese Evelyne Patlagean, godono di grande ammirazione in certi ambienti. Mi accontenterò di raccomandare quella che mi pare un’ottima analisi marxista dello strutturalismo quale metodo storico, compiuta da John Haldon, del Centre for Byzantine Sudies dell’Università di Birmingham, pubblicata in inglese dal periodico Byzantinoslavistica, nel numero del 1981 (51). Pur rendendo omaggio al lavoro della Patlagean, il dottor Haldon mette in risalto la debolezza dello strutturalismo come metodo storico, dovuta alla sua incapacità nel trattare i fenomeni diacronici (ciò che lo storico dovrebbe fare incessantemente) quanto alla sua caratteristica impotenza a superare la semplice descrizione fornendo delle spiegazioni.
Un ben noto storico della società e dell’economia antiche, il quale lavora da una trentina d’anni nel nostro paese e che ha fornito eminenti contributi al suo campo, Sir Moses Finley, ha scavato una voragine tra sé e Marx nel suo volume più conosciuto, L’economia degli antichi e dei moderni (1973), rigettando al contempo i concetti di classe e sfruttamento quali strumenti di analisi storica. In questo libro, Sir Moses, liquida in particolare il concetto di classe i Marx in poche righe, nella maniera più disinvolta, senza dimostrare di averci capito qualcosa. Al fine di rimpiazzarlo egli ricorre ad una categoria altamente soggettiva, quella di status – in senso weberiano, sebbene non lo dica esplicitamente, mi pare (52). (Affermo che lo status è una «categoria soggettiva» poiché essa dipende principalmente dal giudizio accordato da altri – di fatto, quella che Aristotele definiva la timé: un termine che, peraltro, egli bandiva pressoché completamente dalla sua grande opera sulla Politica, riservandola soprattutto per i suoi scritti sull’etica) (53). Sir Moses, nel già citato volume, è inoltre poco incline ad usare il concetto di sfruttamento, apparentemente perché, come quello di imperialismo, sarebbe una categoria di anali si troppo vasta (54). In due opere posteriori, pubblicate nel 1981 e 1982, Sir Moses fa ricorso ad un elemento particolare della terminologia dello status, ovvero le «élite», allo scopo di cercare di definire ciò che intende quando descrive le società greca e romana come «economie schiavistiche» (tentativo mancante nel libro precedente): qui afferma che gli schiavi «fornivano la gran parte del reddito immediato… delle élite economiche, sociali e politiche» (55). Il concetto di “élite” è una delle scappatoie sociologiche più imprecise, talvolta utile ma che dovrebbe assolutamente essere evitato in una definizione. Oltre alla scarsa precisione frutto del termine “élite” (aggravata dal parlare di élite «economiche, sociali e politiche»), esso rappresenta una cattiva scelta terminologica, poiché il possesso di schiavi si estendeva certamente ben al di là del livello più basso oltre il quale si potrebbe applicare adeguatamente. Non pochi contadini agiati, che sarebbe assurdo definire come “élite”, possedevano schiavi per effettuare il lavoro agricolo, così come certi individui di condizione modesta attivi nell’artigianato e nel commercio. La mia formulazione, come ricorderete, è che le classi possidenti (le persone in grado di vivere senza dover lavorare per il proprio sostentamento) traevano la maggior parte del loro surplus regolare dal lavoro servile e da altre forme di lavoro non libero (56).
Non ho alcuna difficoltà a capire perché in tanti si sentono a disaggio quando posti a confronto con Marx. Mi piace credere di aver dimostrato nel mio libro sulla lotta di classe che l’analisi della società di Marx, sebbene concepita nel quadro di un tentativo di comprendere il mondo capitalista alla metà del XIX secolo, ha prodotto l’elaborazione di un insieme di concetti estremamente funzionali anche laddove li si applichi al mondo greco e romano, e che possono essere utilizzati al fine di spiegarne molte caratteristiche e sviluppi – il totale annientamento della democrazia greca nello spazio di cinque o si secoli (57), per esempio, o ancora, il secolare problema della «decadenza e caduta dell’Impero romano», o meglio, ciò che si dovrebbe definire «la disintegrazione di una parte assai estesa dell’Impero romano tra il quarto e l’ottavo secolo» (58). Sono precisamente tale versatilità e applicabilità generali del metodo e dei concetti storici marxisti, a mio modo di vedere, a far sì che tanti membri della società capitalistica della fine del XX secolo siano così poco inclini ad avere il minimo rapporto col marxismo. Ho provato grande soddisfazione, d’altra parte, quando un eminente storico, non marxista, ha chiuso il suo resoconto del mio libro, in una rivista accademica (59), domandandosi se fosse possibile ritenere le mie «categorie analitiche convincenti senza trarne conclusioni inquietanti per la società contemporanea», come ho invece fatto io.
Per concludere. Nel 1845, nell’undicesima tesi su Feuerbach, Marx scriveva: «I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo» (60). Ovviamente, prima che il mondo possa essere trasformato, va compreso a fondo, e noi dobbiamo esordire in tale processo dotandoci di una serie di concetti che ci consentano di comprenderlo e spiegarlo – e così partecipare al lavoro cui Marx ha consacrato l’intera sua esistenza: cambiare effettivamente il mondo ponendo fine alla società di classe, concludendo in tal modo (come affermava Marx stesso con un espressione magnificamente ottimista nella prefazione del 1859) «la preistoria della società umana» (61).
Note
- Isaac Deutscher Memorial Lecture, 28 novembre 1983. Su richiesta dell’editore, questa conferenza è stata stampata senza modifiche rispetto a quando si è tenuta, a parte l’aggiunta di alcun note con i riferimenti bibliografici. Nelle note la sigla CSAGW rinvia al mio libro The Class Struggle in the Ancient Greek World (Dukworth, 1981; ristampato e corretto in edizione economica, 1983). I riferimenti alle opere di Marx corrispondono a MEW, MEGA1 e MEGA2 [idem, seconda edizione]. [n.d.t.: Marx-Engels. Werke; Marx-Engels Gesamtausgabe, prima e seconda edizione. Nella traduzione italiana, per i rinvii al Capitale e a Per la critica dell’economia politica,si è fatto riferimento a Karl Marx, Il capitale, Torino, Einaudi, 1975; per quanto riguarda i Grundrisse, il riferimento è Karl Marx, Grundrisse, Torino, Einaudi, 1977. Per le altre opere di Marx citate si è fatto ricorso a Archivio internet Marx-Engels].
- «Greek and Roman Accounting», in A.C. Littleton e B.S. Yamey, Studies in the History of Accounting, Londra, 1956, p. 14-74. [n.d.t. : cfr. anche R. Macve, «Notes on De Ste. Croix’s “Greek and Roman Accounting”», in P.A. Cartledge e D. Harvey, Crux. Essays in Greek History Presented to David Harvey on his 75th Birthday, Londra, 1985, pp. 233-264.].
- Su questa importante invenzione, la quale ripartiva i rischi del commercio tra le classi non mercantili, ben più ricche, si veda il mio «Ancient Greek and Roman Maritime Loans», in H. Edey e B.S. Yamey, Debits, Credits, Finance and Profits. Essays in Honour of W.T. Baxter, Londra, 1974, pp. 41-59.
- Per il mio «libro sulla lotta di classe», cfr. n.* sopra. [n.d.t.: per il contributo dell’autore agli atti del «Colloque Marx», si veda Geoffrey de Sainte Croix, «Karl Marx and the Interpretation of Ancient and Modern History» in Bernard Chavance (a cura di), Marx en perspectives. Actes du colloque organisé par l’École des Hautes études en sciences sociales, Paris, décembre, 1993, Parigi, Éditions de l’EHESS, 1985, pp. 159-187.
- Si veda il mio contributo agli atti del «Colloque Marx», n. 4 sopra.
- Mi rendo conto, ovviamente, che il mio ricorso a questa celebre citazione non esprime il senso voluto da Wittgenstein, e che una traduzione più realistica della celebre osservazione del Tractatus sarebbe grossomodo «Dobbiamo tacere riguardo a ciò che non possiamo formulare attraverso il linguaggio».
- Mi occupo di tale questione nel mio contributo al «Colloque Marx», n. 4 sopra.
- CSAGW, p. 146, cfr. pp. 65-66.
- Si veda CSAGW, p. 146, con la n. 15, p. 564.
- Si veda il mio contributo al «Colloque Marx», n. 4 sopra.
- Marx, Il capitale (libro III), p. 1187.
- Si veda CSAGW, II, ii-iii, in particolare le definizioni alle pp. 43-44.
- CSAGW, p. 43.
- Marx, Il capitale (libro III), p. 1095; Il capitale (libro I), p. 941; Grundrisse, nell’edizione di riferimento, MEGA2 II, i, 1 (1976), pp. 228-229 = Marx, Grundrisse, p. 497. Ovviamente, il capitale per Marx era anche un processo e non solo «un rapporto semplice»: MEGA2 II, i, 1, p. 180 = Marx, Grundrisse, p. 204).
- Si veda CSAGW, p. 60, con rinvio a Miseria della filosofia, II, 5 = MEGA1, VI, p. 226.
- Le citazioni si trovano nel mio contributo al «Colloque Marx», n. 4 sopra.
- Si veda CSAGW, p. 66.
- Si veda CSAGW, pp. 409-452 (capitolo VII).
- Si veda CSAGW, pp. 80-91, con i riferimenti bibliografici pp. 696-697.
- CSAGW, p. 89.
- CSAGW, p. 90.
- Karl Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte.
- Per esempio MECW [n.d.t.: Marx and Engels. Collected Works].
- Si veda CSAGW, pp. 60-61.
- Così Pierre Vidal-Naquett, «Les esclaves grecs étaient-ils une classe ?», in Raison présente 6, 1968, pp. 103-112, qui: p. 103 ; stampato due volte, la seconda con la prima metà dell’enunciato di Marx, quello che demolisce l’argomentazione fondata sulla sua omissione. Si veda il mio contributo al «Colloque Marx», n. 4 sopra.
- Un’ottima analisi dei contadini si trova in un articolo di Engels, «La questione contadina in Francia e Germania», segnalato in CSAGW, p. 211. Per un’eccellente trattazione dei contadini medioevali si vedano le opere di Rodney Hilton citate in CSAGW, p. 680.
- Marx, Il capitale (libro I), p. 164.
- Marx, prefazione alla seconda edizione (1869) di Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte.
- CSAGW, pp. 63-66.
- Si veda n. 24 sopra, insieme a Moses Finley, Economia e società nel mondo antico, Milano, Mondadori, 1995; id., Schiavitù antica e ideologie moderne, Bari, laterza, 1981.
- Si veda CSAGW, pp. 64-65.
- Ne parlo nel mio contributo agli atti del «Colloque Marx», n.4 sopra.
- Si vedano i passi pertinenti in MEGA2 II, I, 1, p. 40 = Marx, Grundrisse, p. 30.
- Teodor Shanin (a cura di), Peasants and Peasant Societies, Harmondsworth, 1971, p. 17.
- Si veda CSAGW, pp. 208-228 (= IV, ii) sui contadini nell’antichità.
- CSAGW, pp. 205-208 (IV, i).
- CSAGW VIII, ii-iii, in particolare pp. 473-503 ; e A.H.M. Jones, The Later Roman Empire 284-602, Oxford, 1964, in particolare II., pp. 767-823 (capitolo XX).
- Si veda CSAGW, p. 15, su Marco 15.21 et Matteo 27.32.
- Si veda CSAGW, pp. 14-16.
- Si veda CSAGW, p. 15, su Matteo 5.41.
- Si ved CSAGW, p. 398, con la citazione della lettera ai Romani 13.1-7 e altri passi.
- Si veda CSAGW, p. 15, avec la citation di Epitteto.
- Si veda CSAGW, p. 206.
- CSAGW, pp. 50-52.
- Si veda CSAGW IV, iii, in particolare pp. 249-259.
- Si veda CSAGW, pp. 52-54, pp. 133-134 et p. 140 sq. ; cfr. III, vi, in particolare pp. 179-82, ecc.
- Si veda CSAGW, pp. 135-136 e pp. 147-158.
- CSAGW, pp. 136-137 et pp. 162-170 ; cfr. p. 282.
- CSAGW IV, iii, in particolare pp. 255-259.
- Si veda CSAGW, p. 54 ; cfr. p. 52 e p. 133.
- John F. Haldon, “On the structuralist approach to the social history of Byzantium”, in Byzantinoslavica 42, 1981, pp. 203-211: resoconto dei due volumi di Evelyne Patlagean, Pauvreté économique et pauvreté sociale à Byzance. 4e – 7e siècles, Parigi, 1977, e Structure sociale, famille, chrétienté à Byzance. IVe – XIe siècle, Londra, 1981. Forse dovrei aggiungere che lo strutturalismo, perlomeno nel senso ristretto di Lévi-Strauss, sembra essere oggi in ritirata, e secondo un resoconto di Rodney Needham, sul Times Literary Supplement 4228, 13 aprile 1984, p. 393, Lévi-Strauss stesso scrive nel suo libro Lo sguardo da lontano, che lo strutturalismo è «passato di moda». Per quanto concerne la sua influenza su Louis Althusser e i suoi discepoli, lo strutturalismo mi pare abbia fatto enormi danni allo studio del marxismo in Francia. Non conosco i lavori che vengono talvolta descritti come «post-strutturalisti», riguardo ai quali si veda Perry Anderson, In the Tracks of Historical Materialism (Wellek Library Lectures, tenuta all’Università della California a Irvine), Londra, 1983, pp. 39-57.
- Si veda CSAGW, pp. 58-59 e pp. 91-94.
- Si veda CSAGW, p. 80 avec p. 551, n. 30. Tenuto conto dell’osservazione di Moses Finley, in La politica nel mondo antico, Bari, Laterza, 1993, con la quale si afferma che con il mio libro sulla lotta di classe avrei fatto di Aristotele un marxista, dovrei forse sottolineare che mi sono accontentato di mostrare in dettaglio gli importanti punti in comune tra il metodo usato da Aristotele per analizzare la politica greca e l’approccio di Marx: si veda CSAGW, pp. 69-80 (= II, iv).
- Si veda CSAGW, p. 91. Nel libro precedente di Finley, Schiavitù antica e ideologie moderne, credo che il termine «sfruttamento» figuri a malapena.
- Schiavitù antica e ideologie moderne, ripreso da Moses Finley, « Problems of Slave Society : Some Reflections on the Debate», nel primo fascicolo del nuovo periodico italiano Opus 1, 1982, pp. 201-210. Non posso accettare l’affermazione di Finley, in quest’ultimo testo, secondo la quale «tale definizione può agevolmente essere tradotta in termini marxisti»: una simile «traduzione» implicherebbe estese modifiche del quadro concettuale.
- Nel suo libro La politica nel mondo antico, che ho avuto sottomano solo dopo aver tenuto la presente conferenza, Finley sembrerebbe aver rinunciato al concetto di status (ma senza ammetterlo, mi pare) per iniziare a pensare in termini di classe, Sfortunatamente, egli si rifiuta di precisare cosa intenda per “classe”, limitandosi ad affermare che ricorre al termine in maniera imprecisa, come si fa di solito nel linguaggio ordinario. Il che ricorda una giustificazione da lui fornita, nel 1973, alla sua scelta dello status invece della classe quale principale strumento d’analisi, basata appunto sulla vaghezza del concetto. (cfr. il mio commento in CSAGW, p. 92). C’è da augurarsi che, rendendosi conto della limitata utilità di un nuovo concetto impreciso, riterrà necessario definirlo in modo conveniente.
- non sono mai riuscito a trovare una spiegazione moderna accettabile di questo processo, per cui mi sono sentito in dovere di descriverlo in dettaglio in CSAGW, pp. 295-326 e pp. 518-537.
- Si veda CSAGW VIII, in particolare pp. 474-503.
- T.D. Barnes, in Phoenix 36, 1982, pp. 363-366, qui : p. 366.
- Karl Marx, Tesi su Feuerbach.
- L’edizione tedesca di riferimento della prefazione del 1859 a Per la critica dell’economia politica è ormai MEGA2 II, ii (1980), pp. 99-103. Si veda Marx, Per la critica del’economia politica, p. 958.
L’articolo è apparso inizialmente sotto il titolo «Class in Marx’s conception of history, ancient and modern» in New Left Review I/146, luglio-agosto 1984. La traduzione francese, sulla base della quale è stata effettuata quella italiana, si trova in Période.
Un breve ritratto biografico di de Ste. Croix, insieme ad un riassunto delle tesi sostenute nella sua opera principale, The Class Struggle in the Ancient Greek World (purtroppo mai tradotta in italiano), sono reperibili in questo stesso blog, Traduzioni marxiste.