Costanzo Preve, Gianfranco La Grassa | Premessa a Oltre la gabbia d’acciaio (commentato)
Premessa commentata da Antiper di Costanzo Preve, Gianfranco La Grassa, Oltre la gabbia d’acciaio. Saggio su capitalismo e filosofia, Edizioni Vangelista, 1994.
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{Questa che segue è la Premessa ad un testo – Oltre la gabbia d’acciaio. Saggio su capitalismo e filosofia – che Costanzo Preve e Gianfranco La Grassa scrivono nel 1994, in un quadro d’epoca dominato dal crollo dell’URSS e dei sistemi del socialismo reale europeo. In questo testo i due autori sviluppano una critica ad alcuni assunti che ritengono possano essere rilevati nel pensiero di Marx e soprattutto nel discorso del marxismo politico dopo Marx: il primo assunto è costituito dall’idea che il proletariato possegga “capacità inter-modale” ovvero la capacità di prefigurare un nuovo modo di produzione socialista a partire dalla critica del modo di produzione capitalista; il secondo assunto è quello che la progressiva socializzazione della produzione che il capitale è portato a sviluppare costantemente per incrementare il plusvalore relativo costituirebbe la premessa oggettiva della possibilità storica del socialismo. Aldilà del giudizio che si può dare sui contributi dei due autori si può dire che già nella Premessa sono contenuti elementi di riflessione che la rendono interessante di per sé stessa e sui quali ci soffermeremo strada facendo, durante la lettura.}
A suo tempo Bertolt Brecht scrisse che avrebbe voluto essere ricordato come qualcuno che aveva fatto delle proposte. Noi abbiamo scritto questo breve libro con la piena consapevolezza di non essere in grado di offrire al lettore un insieme organico, armonico e coerente di tesi, e di poter al massimo avanzare delle proposte teoriche su due temi essenziali, la struttura economico-sociale del capitalismo contemporaneo, in primo luogo, e i tratti generali di una possibile filosofia «marxista» dopo la cesura epocale del crollo del comunismo storico novecentesco, in secondo luogo.
Si tratta di due temi diversi sia per l’oggetto che per il metodo. Consapevoli di questa diversità, abbiamo deciso di non scrivere un libro «a quattro mani», con tutti i problemi di omogeneizzazione dello stile espressivo e dei punti di vista che questo comporta, ma di scrivere un libro agilmente composto di due saggi distinti, in modo che sia il lettore stesso a prendere atto del fatto che nessun artificio retorico, nessun compromesso linguistico, nessun discorso avvocatesco, eccetera, può nascondere un fatto grande come il monte Bianco: il fatto, cioè, che non esiste, allo stato attuale delle cose, una rassicurante deducibilità, diretta o indiretta, della società comunista a partire dalle contraddizioni sociali immanenti al modo di produzione capitalistico.
Quanto diciamo non è affatto ovvio come sembra. Nella storia del marxismo, infatti, sia in quella del marxismo detto «ortodosso» sia di quella del marxismo «revisionistico», ha sempre dominato una posizione comune, che cercheremo qui di riassumere sommariamente. In breve, si pensava che la socializzazione capitalistica della produzione, sia pure compiuta con lo scopo di immettere sul mercato dei valori di scambio, costituiva pur sempre l’anticamera della riappropriazione comunista dei valori d’uso. Questo era, per così dire, il «lato oggettivo» della questione. Il «lato soggettivo», che era però complementare al precedente, consisteva nella convinzione che la classe operaia moderna, o proletariato moderno, sia pure non da sola, ma alleata con altri gruppi sociali e sotto la direzione di un partito politico, non era soltanto un soggetto collettivo capace di una sporadica lotta di classe, ma era un soggetto storico capace di guidare il trascendimento storico globale del modo di produzione capitalistico nel suo complesso. Noi riteniamo invece che occorra abbandonare entrambi questi due presupposti, che non sono soltanto «marxisti», ma sono anche classicamente «marxiani». E infatti filologicamente innegabile che Marx, pur se talvolta in forma cauta e dubitativa, condivideva questi due presupposti, al punto di poter dire che egli era già integralmente «marxista», al di là di certe sue esplicite (e ben comprensibili) prese di distanza dalle prime schematiche volgarizzazioni della sua teoria.
{Molti marxologi ripetono spesso la frase (riportata da Engels) secondo cui Marx avrebbe a suo tempo dichiarato di “non essere marxista”. Si tratta di una frase che viene ripetuta ossessivamente con l’obbiettivo di realizzare una sorta di separazione tra Marx – che si ritiene ancora parzialmente “usabile” – e il marxismo politico – che si ritiene invece da buttare in blocco, senza capire peraltro che Marx, privato dell’esperienza politica e dello sviluppo teorico del marxismo – finisce per diventare solo uno dei tanti autori da studiare nei manuali e non invece ispirazione per l’azione –. Si tenta di preservare Marx dal declino dei movimenti politici di ispirazione marxista e di separarlo da elaborazioni teoriche troppo influenzate dal grande entusiasmo che avevano saputo suscitare le rivoluzioni del ‘900 e che oggi è stato rimpiazzato dalla completa rassegnazione verso il mondo esistente. Spesso il “non marxismo di Marx” viene usato anche per separare Marx da Engels (che avrebbe fondato il “marxismo” proprio manipolando il suo pensiero) e addirittura viene usato per separare Marx da sé stesso (gli scritti pubblicati contro quelli inediti, gli scritti giovanili contro quelli maturi, gli scritti filosofici contro quelli economici… e così via separando, fino a distillare omeopaticamente solo quanto l’intellettuale di turno ritiene utile al proprio discorso politico o alla propria carriera accademica. Come ricordano gli autori, la sorte di Gramsci, da questo punto di vista, è emblematica.
Al contrario, Preve e La Grassa ribadiscono che Marx è pienamente “marxista”; è chiaro tuttavia che lo fanno per coinvolgerlo nella sconfitta storica del marxismo politico, per quanto dal punto di vista teorico. Insomma, il marxismo politico è stato sconfitto perché nutriva idee sbagliate sulle potenzialità del soggetto storico – il proletariato – che considerava portatore di una capacità di emancipazione universale del tutto analoga a quella del “servo” di cui parla Hegel nella Fenomenologia dello spirito. E le idee del marxismo politico erano sbagliate perché erano sbagliate le idee di Marx. Si tratterà dunque di correggere le idee sbagliate di Marx per riavviare la storia dopo la sua tanto strombazzata Fine. L’idealistico programma di Preve e La Grassa non poteva funzionare e infatti non ha funzionato.}
Siamo consapevoli che queste due affermazioni, per un marxista, corrispondono al trauma della morte di Dio di cui parla Nietzsche nella Gaia Scienza. Tuttavia, così come è pur sempre possibile continuare a filosofare dopo la morte di Dio, e anzi in un certo senso si entra in un periodo di «convalescenza» dopo la malattia (è questo il significato dell’espressione nicciana di «gaia scienza»), riteniamo che sia ancora possibile essere «marxisti» e «comunisti» anche dopo la scoperta della morte di Dio, pardon, del fatto che la classe operaia può non essere un soggetto sociale collettivo capace di trascendere rivoluzionariamente il capitalismo (e non solo essa, ma qualunque soggetto dato a priori), e ancor più del fatto che la socializzazione capitalistica delle forze produttive non funziona come «anticamera» della riappropriazione comunista dei valori d’uso. In proposito, non ci facciamo assolutamente nessuna illusione. Il modo normale di reagire alla «morte di Dio» dà luogo a due varianti che a suo tempo lo stesso Nietzsche descrisse in modo molto acuto e spiritoso: da un lato, l’Eremita, colui che vive in un suo mondo appartato e non è ancora venuto a conoscenza che Dio è morto; dall’altro, l’Ultimo Uomo, che è invece venuto a conoscenza del fatto che Dio è morto, ma tira da questa consapevolezza la conclusione nichilistica che ormai tutto è possibile.
In quella che un tempo era definibile come la (troppo) numerosa comunità degli «intellettuali di sinistra», gli Eremiti sono oggi il 5%, mentre gli Ultimi Uomini superano il 95%. Gli Eremiti ritengono di poter continuare ad ignorare la morte di Dio, e di continuare a «praticare» il vecchio marxismo come se il triennio 1989-1991 non fosse mai esistito. Essi parlano talvolta di «marxismo oggi», ma continuano a praticare il «marxismo di ieri». Impermeabili ad ogni sollecitazione, continuano a citare la lettera della Legge, come se non fosse successo niente. Dal canto loro, gli Ultimi Uomini, che sono molto più numerosi dei primi, e costituiscono anzi l’ossatura intellettuale di ciò che viene chiamato «sinistra», hanno semplicemente sostituito il vecchio dogmatismo storicistico e progressistico con una sorta di relativismo nichilistico a rapidissima obsolescenza. E per l’appunto questa la «colorazione» generale del clima culturale che ci circonda.
Qui finisce per noi l’analogia fra la morte del vecchio marxismo e la morte di Dio. Per Nietzsche, infatti, soltanto un Übermensch (non importa se Superuomo o Oltreuomo) poteva sostituirsi al mondo degli Eremiti e degli Ulúni Uomini. Noi proviamo invece irritazione e fastidio per ogni soluzione «aristocratica» di un problema molto pratico, che tocca in questo momento milioni di persone e che nessuno ha pertanto il diritto di riservare in modo snobistico a pochi sofisticati eletti. In breve, formuliamolo così: è possibile rimanere marxisti e comunisti se quelle che sembravano essere le colonne massime e principalissime del marxismo e del comunismo, la primogenitura sociale rivoluzionaria della classe operaia-proletaria e la sua missione storica, da un lato, e il presupposto della socializzazione progressiva delle forze produttive capitalistiche come anticamera «tecnologica» del comunismo, dall’altro, vengono a cadere?
Sì, è possibile. È possibile soltanto, però, se ci si decide a prendere finalmente sul serio la centralità della nozione di modo di produzione, e se lo si fa sapendo anche che non ci si può illudere di farlo «aggiungendo» in modo kantiano lo sdegno morale contro l’ingiustizia ed una serie di «valori» umanistici e solidaristici all’esame epistemologicamente asettico delle caratteristiche differenziali fra il modo di produzione capitalistico e i modi di produzione precapitalistici.
{Siamo nel 1994 e Preve e La Grassa sono ancora convinti di poter rifondare teoricamente il marxismo e politicamente il comunismo. Significativamente affiancano ancora i due termini “marxismo” e “comunismo” mentre nel seguito si guarderanno bene dal farlo. E lo stesso programma di “rifondazione” teorico-politica cadrà, spingendo i due autori nell’auto-isolamento e nella “depressione politica”.
L’obbiettivo di Oltre la gabbia sta qui: facendo cadere il pre-supposto dell’inter-modalità del proletariato e quello della socializzazione delle forze produttive come base oggettiva del socialismo resta ancora la possibilità di dirsi “marxisti” e “comunisti”? Gli autori rispondono di sì, ma specificano che questo può avvenire solo a condizione di non rimpiazzare la scienza di Marx con riflessioni umanistiche e moralistiche da “anime belle” sul funzionamento del modo di produzione capitalistico. Si tratta di un’osservazione necessaria dal momento che le considerazioni morali e politiche sul capitalismo hanno in effetti ben poca efficacia rispetto al suo superamento e comunque possono essere svolte anche da sinceri democratici (se ancora ne esistono), sinceri cattolici, sinceri pacifisti, sinceri amanti della natura…
Marx aveva ipotizzato che la contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e forma capitalistica dei rapporti di produzione avrebbe condotto ad una situazione di blocco dal quale si sarebbe potuti uscire solo attraverso una fase di rivoluzione sociale. Per un po’ le cose sono andate effettivamente in quel modo e di crisi e di rivoluzioni ve ne sono state eccome; d’altra parte, se c’è una cosa non possiamo affermare del ‘900 è che il capitalismo non sia stato in grado di sviluppare in modo poderoso le forze produttive (e del resto questo spiega perché la tensione rivoluzionaria verso il superamento del modo di produzione capitalistico, specialmente in “Occidente” [1], ad un certo punto ha perso forza. Il conflitto, avrebbe detto Bauman, è stato economicizzato e le “aristocrazie operaie” hanno avuto buon gioco sulle tendenze rivoluzionarie). Ma non possiamo neppure dire che il proletariato non si sia posto in modo rivoluzionario lungo tutto il ‘900; lo ha fatto sporadicamente e contraddittoriamente, certo, e spesso influenzato più da temi di tipo economico che non dalla visione di prospettiva dell’umanità, come del resto proprio lo stesso Marx, materialisticamente, avrebbe considerato normalissimo.
Il punto è che le riflessioni di Preve e La Grassa sono segnate dal marchio della sconfitta storica di quello che Preve chiama “comunismo storico novecentesco”. E il marchio della sconfitta sta anche nell’aver introiettato il discorso del vincitore assumendo che in fondo si è stati sconfitti perché si aveva torto.}
A suo tempo il solito Nietzsche scrisse spiritosamente (Frammenti Postumi, 1881, II, 120): «Ho bisogno di tutta la mia bile per la scienza». Non ci può dunque essere scienza del capitalismo, uno degli oggetti esteticamente più disgustosi e moralmente più repellenti che esistano, senza una certa dose salutare di bile. Nello stesso tempo, però, non si può pensare di sostituire la scienza con la bile, cioè con la produzione profetica di anatemi e di grida di sdegno contro il nuovo ordine mondiale capitalistico, che recentemente Jacques Derrida (per citare un nome insospettabile di fronte a cui i media si prosternano come i musulmani di fronte alla Mecca) ha definito «la società in cui, nella storia umana, mai così tanti uomini e donne sono stati asserviti, affamati o sterminati sulla terra». La scienza del modo di produzione capitalistico presuppone infatti, insieme ad una fisiologica produzione di bile, l’osservazione di un principio metodologico essenziale, che nel 1985 Louis Althusser ha così definito: ne pas (se) raconter des histoires. In buona lingua italiana: non raccontar(si) delle storie.
{Questo è uno dei punti salienti della Premessa. Ma prima di commentare le conseguenze che Preve e La Grassa ritengono di tirare dalla giusta raccomandazione di Althusser può essere interessante ricordare cosa intendeva Althusser con la sua massima, anche per mostrare come sia davvero facile raccomandare qualcosa in una pagina e fare tutt’altro mezza pagina più avanti.
Nella sua autobiografia [2] Althusser scrive
“Mi rendo conto che ero mosso in quell’impresa da una doppia ambizione irresistibile: prima e prima di tutto di non raccontarmi storie né sulla realtà né sulla realtà del pensiero di Marx”
“«Non raccontarsi storie», questa formula resta per me la sola definizione del materialismo”
Poi però, siccome il pensiero di Marx non si confà adeguatamente alle sue aspettative, Althusser non esita a mutilarlo
“[si era indotta] in numerosi specialisti e militanti, la sensazione che io avessi fabbricato un Marx a mia misura, assolutamente estraneo al Marx reale, un marxismo immaginario (Raymond Aron). Lo riconosco volentieri, perché in effetti soppressi da Marx tutto ciò che mi sembrava incompatibile non soltanto con i suoi principi materialisti, ma anche con quanto sussisteva in lui di ideologia, in primo luogo le categorie apologetiche della «dialettica», perfino la dialettica stessa”
Althusser rimuove dunque chirurgicamente tutto quanto in Marx puzza anche solo lontanamente di Hegel (che del resto Althusser non esita a definire solo un “punto d’appoggio” e un “ingombro” per Marx). Insomma, non raccontiamo(ci) delle storie, ma forse qualcuna sì.
Ora, se è deprecabile la mutilazione anti-hegeliana di Marx operata da Althusser, per la medesima ragione è altrettanto deprecabile la mutilazione ultra-hegeliana di Marx operata da quasi tutti i marxologi accademici, i quali hanno bisogno di hegelianizzare Marx per renderlo accettabile al mondo universitario; innocuo, magari, ma accettabile.}
Questo principio, che gli scriventi ritengono altrettanto importante delle quattro regole del Discorso sul Metodo di Descartes, è in realtà un doppio imperativo, di cui bisogna esaminare accuratamente entrambi gli aspetti. In primo luogo, un marxista non deve raccontare delle storie agli altri, per non trasformarli in fideistici creduloni, e non deve farlo neppure quando gli altri glielo chiedono, mossi non dalla ricerca della verità, per dura che possa essere, ma dalla semplice ricerca della comunità, una comunità militante di identità e di appartenenza in grado di sostituire la perdita delle precedenti comunità precapitalistiche. In secondo luogo, e di conseguenza, un marxista non deve raccontarsi delle storie, raccontarle cioè a se stesso, per illudersi di essere «coerente» e sincero con le illusioni che ha seminato a piene mani all’esterno.
{Il “doppio imperativo” del non raccontare storie – potremmo dire anche favole – né a sé stessi né agli altri è assolutamente condivisibile; forse non esattamente per le ragioni addotte dagli autori, ma più semplicemente perché le “storie” sono versioni consolatorie – e perciò stesso non veritiere – della realtà che conducono a riflessioni e azioni del tutto sbagliate. Certo, possiamo sempre adottare una strategia sbagliata pur basandoci su un’analisi realistica, ma non potremo mai, se non per puro caso, imbroccare una strategia giusta basandoci su un’analisi irrealistica.
E sebbene affidarsi al caso potrebbe persino essere, nell’attuale fase storica, una miglior soluzione rispetto alle tante attualmente esistenti, forse è meglio cercare di usare le difficoltà in cui versa l’idea stessa della trasformazione rivoluzionaria per rimettere a fuoco le nostre categorie analitiche e le nostre proposte politiche}
L’effetto sinergico di questi due aspetti complementari è devastante non solo per il singolo studioso, ma per un’intera comunità di studiosi, nazionale o internazionale. A lungo i «marxisti» si sono raccontati delle storie, e hanno raccontato delle storie. Vi sono ovviamente ben precise ragioni storiche per tutto questo, al punto che sarebbe metodologicamente possibile (e anzi relativamente facile) scrivere una Ideologia marxista (sulla falsariga della marxiana Ideologia tedesca), dedicata alla tragicomica vicenda secolare della produzione di illusioni (seguite necessariamente e fatalmente da delusioni), create sulla base di deformazioni, a volte caricaturali, della nozione marxiana di modo di produzione. In questa breve premessa, che ha il compito di segnalare i comuni denominatori teorici e metodologici che hanno presieduto ai nostri due distinti contributi, ricorderemo soltanto un aspetto che può illuminare la modalità costitutiva di questo interminabile raccontar(si) delle storie: la volontà del teorico marxista e comunista di essere a ogni costo «di sinistra», cioè militante, costruttivo, «al servizio», diretto o indiretto, di un ceto politico.
{Da qui in poi Preve e La Grassa rivendicano in sostanza la propria disorganicità di intellettuali; disorganicità di classe rispetto al proletariato (che a loro avviso è ormai una classe come un’altra) e disorganicità politica rispetto ad ogni organizzazione, nascosta dietro una lunga “tirata” contro la sinistra (una tirata che avrebbe anche un suo senso e che anzi, oggi, ha molto più senso di quanto non ne avesse 30 anni fa, ma che c’entra poco o nulla con il ruolo dell’intellettuale. Il punto non è infatti quello di sganciarsi dal rapporto politico tout court, ma piuttosto quello di sganciarsi dal rapporto politico con organizzazioni nocive al processo della trasformazione rivoluzionaria).
Le cose andavano forse poste in modo diverso. È vero che nessuna classe è rivoluzionaria per natura? Sì, è vero e lo spiegano indirettamente proprio Marx ed Engels quando, nel Manifesto del partito comunista, mostrano come la borghesia sia passata dallo svolgere un ruolo rivoluzionario quando si trattava di rovesciare l’ancient regime ad un ruolo reazionario quando si è trattato di impedire l’ascesa politica del proletariato. D’altra parte, che sia sempre quello del servo il “lato cattivo” che fa la storia ribellandosi alla propria condizione di schiavitù, avrebbe dovuto saperlo bene proprio Costanzo Preve che nella sua ultima fase di vita intellettuale si era messo a professare un vero e proprio ultra-hegelismo che peraltro cozzava un po’ con il suo giovanile althusserismo.
Questo significa che il proletariato, pur non essendo “per natura” rivoluzionario, può essere – e in effetti è stato – capace di svolgere un ruolo rivoluzionario in determinati contesti storici; per farlo ha però bisogno di sviluppare una propria visione politica autonoma grazie (anche) al lavoro degli intellettuali rivoluzionari. Intellettuali come Marx e Engels, come Lenin, come l’intellettuale collettivo di Gramsci… Gli intellettuali disorganici, invece, disorganici non sono mai.}
La volontà di «essere di sinistra» ci è invece estranea. Ovviamente, questa non è ancora (ci mancherebbe!) una garanzia sufficiente per la correttezza e la pertinenza delle nostre proposte. Esse potrebbero essere tutte sbagliate, in tutto o in parte (anche se ovviamente non lo crediamo), ma ciò non cambierebbe nulla al problema di principio che stiamo ponendo. E questo problema sta in ciò, che riteniamo che oggi non abbia più senso parlare di «vera» e di «falsa» sinistra, o di «popolo di sinistra», buono, contrapposto ai «rappresentanti politici» della sinistra, cattivi, e via interminabilmente distinguendo, ma sia necessario rompere radicalmente con un insieme di comportamenti, snobismi, presunzioni, luoghi comuni, manie, ideologismi, eccetera, considerati di «sinistra». Gli autori di questi saggi si ritengono marxisti e comunisti, ma non più di sinistra. Essi non sono la «parte marxista» della sinistra, oppure l’estrema sinistra della sinistra. Consapevoli che gran parte dei loro lettori, se non tutti, si situano all’interno di una (piccola) fascia di persone che si considerano probabilmente tuttora di «sinistra», e non volendo certamente ferire questi lettori (il nostro masochismo non giunge a questo punto!), riteniamo importante spiegarci bene, in modo che quanto andiamo dicendo non sembri inutilmente e stupidamente provocatorio, ma si intenda correttamente lo spirito e la lettera di quanto vogliamo significare. In proposito, faremo un esempio: quando negli anni Sessanta Malcolm X si rivolse ai neri americani per far loro comprendere che era necessario lottare contro l’establishment bianco americano, rilevò che era assolutamente impossibile lottare contro qualcuno, quando si parla la sua lingua, si prega il suo Dio, si condividono i suoi giudizi sul mondo, e addirittura vediamo noi stessi con i suoi occhi.
Ebbene, questa è esattamente la situazione in cui si trova la «sinistra» oggi: essa parla oggi la lingua del cosmopolitismo del grande capitale finanziario multinazionale, ne condivide l’estetica e la filosofia, e soprattutto si definisce proprio nei termini con i quali il grande capitale finanziario la vede e la definisce (in breve: la sinistra è chi accetta il quadro capitalistico come un dato da cui realisticamente partire, ma è moralmente insoddisfatto di esso, e vuole perciò più solidarietà interclassistica al suo interno). Chi ritiene che il marxismo e il comunismo possano svilupparsi in questo momento storico all’interno di questo quadro, come ala «estrema» tollerata, racconta agli altri e si racconta delle storie. E necessaria perciò, ed è preliminare a qualunque altro dibattito teorico, una «scissione» radicale nei confronti di questo mondo.
Il termine di «scissione» potrà sembrare ad alcuni eccessivo, estremistico, settario, inopportuno. Non è così. In primo luogo, se vogliamo proprio cercare una auctoritas universalmente riconosciuta che lo legittima integralmente, questo termine, «spirito di scissione», è di Antonio Gramsci, ed è stato da lui usato nei confronti del mondo teorico e spirituale del vecchio socialismo. In Italia, paese delle sacralizzazioni religiose e delle beatificazioni controriformistiche, Gramsci è stato santificato e trasformato in un innocuo santino nazionalpopolare. Ebbene, le cose non stanno in questo modo. Così come chi si richiama a Gesù di Nazareth non può limitarsi a generiche espressioni pecoresche sul «sentirsi buoni», ma deve anche capire perché a suo tempo egli si era messo a frustare i mercanti nel tempio, analogamente chi ritiene che Gramsci sia stato un nume tutelare della «sinistra» deve svegliarsi, sia pure bruscamente, e prendere atto del fatto che egli propugnava invece un vero e proprio spirito di scissione nei confronti delle ammucchiate del suo tempo.
Vi è però una seconda ragione per cui questo libro può e deve essere letto come un documento dello «spirito di scissione» gramsciano nei confronti del nichilismo intellettuale degli Ultimi Uomini e del dogmatismo incurabile degli Eremiti. L’Italia si trova oggi in una situazione storica particolare, che cercheremo di descrivere sommariamente in questo modo: caduta la Prima Repubblica, in un clima di manipolazione in cui la fine del compromesso keynesiano fu trasfigurata in un lavacro purificatore contro la corruzione (una «commedia dell’arte» su cui i posteri non cesseranno di ridere!), la «sinistra» si è candidata al «governo» della Seconda Repubblica, in un clima di illusioni e di mistificazioni incredibili; altrove (dall’ex-URSS di Gorbaciov alla Francia di Mitterrand) vi è già una consolidata esperienza storica di massa su che cosa è oggi strutturalmente la sinistra; in Italia, paese delle illusioni e delle delusioni, questa esperienza di massa manca, e dovrà essere fatta; alla fine, il pericolo di un campo di rovine è purtroppo realistico.
Questo pericolo non può essere purtroppo evitato. Ad esso spinge il cosiddetto «spirito del tempo». Nel frattempo però si può già cominciare a fare qualcosa: opporsi radicalmente al presente, mettere le prime incerte basi per un pensiero del futuro, di un futuro che non è forse neppure molto lontano (anche se questo non è assolutamente determinabile). E stato questo lo spirito che ci ha guidati nello scrivere questi due brevi saggi.
Note
[1] E con “Occidente” possiamo considerare Stati Uniti ed Europa Occidentale, ma anche paesi come Giappone, Corea del Sud, Australia…
[2] Louis Althusser, L’avvenire dura a lungo, a cura di Olivier Corpet e Yann Moulier Boutang, Guanda.