Anwar Shaikh | Il capitalismo è capace di riprodursi automaticamente?
Tratto da Anwar Shaikh, Introduzione alla storia delle teorie sulla crisi, in U.S. Capitalism in crisis, U.R.P.E New York, 1978, Traduzione 2012 a cura di Antiper
In ciò che segue discuteremo, in sezioni separate, la tradizione del laissez faire della teoria ortodossa e quella keynesiana.
A. La tradizione del laissez-faire
Sfortunatamente siamo tutti estremamente influenzati dalla definizione di capitalismo come di un sistema capace di autoregolarsi, equilibrato, efficiente e armonioso. Dalle origini con la “mano invisibile” di Adam Smith fino all’inconsistente eleganza delle moderne analisi sull’equilibrio generale, questa concezione ha dominato la teoria borghese. Si assume che la contraddizione fondamentale dell’umanità nasca dall’insaziabilità dei bisogni umani rispetto alla limitata disponibilità di risorse fisiche [1]. L’avidità insaziabile del capitalismo viene così trasformata in un attributo della Natura Umana; la sua bramosia di depredare il pianeta è quindi solo “naturale”, il risultato inevitabile di una battaglia all’interno della Natura stessa. La Natura Umana incontra la Natura Fisica. In questo modo avidità, competizione ed egoismo sono eterni: non possiamo farci niente, non possiamo eliminarli.
Su questa base, infatti, il capitalismo viene presentato come quell’insieme sociale di norme che consente l’espressione più libera dagli “intrinseci” istinti dell’uomo. Inoltre, poiché rappresenta la soluzione istituzionale ottimale ad un conflitto “naturale” eterno, il capitalismo risulta ottimale [a sua volta] in eterno. Non ha limiti se non a causa di inimmaginabili mutazioni nella Natura Umana o inimmaginabili distruzioni nella Natura Fisica. Lasciato a sé stesso il capitalismo si rigenera in modo regolare, efficiente e probabilmente per sempre. Così va la storia.
Dal momento che il sistema viene concepito come in grado di auto-regolarsi, la questione del processo di regolazione tende ad essere ignorata. La tendenza dominante in questo contesto è quella di concentrarsi sugli equilibri di crescita, statici o bilanciati. Così, sembra trascurabile anche la questione dei processi di aggiustamento. Questa strategia [di trascurare i processi di regolazione e di aggiustamento] è necessaria poiché [il riconoscimento di] una nozione di aggiustamento prolungato mina il concetto di [auto] equilibrio e di conseguenza la tanto desiderata ottimalità del sistema.
Nonostante questo, le crisi avvengono comunque, cosa che a volte, tende ad amareggiare gli economisti e a renderli piuttosto intrattabili. Tuttavia, la loro funzione ideologica li costringe (almeno di tanto in tanto) a trattare il problema delle crisi. Gli economisti che studiano l’andamento dei fenomeni empirici sono inevitabilmente sorpresi non solo dalla frequenza delle crisi, ma anche dalla loro apparente regolarità. Negli Stati Uniti per esempio, Wesley Clair Mitchell conta 15 “crisi” nei 110 anni che vanno dal 1810 al 1920, mentre Paul Samuelson elenca sette “recessioni” nei trent’anni che vanno dal 1945 al 1975 [2]. E in mezzo c’è stata la Grande Depressione durata almeno 10 anni!
Ci sono fondamentalmente solo due modi per includere questa evidenza empirica all’interno del corpo principale della teoria senza danneggiarla in modo permanente. Anzitutto, si può sostenere che, in linea di principio, non si verifica mai la necessità delle crisi; il fatto che esse avvengano può allora essere attribuito a fattori esterni al normale funzionamento della riproduzione capitalistica.
Senza alcuna causa interna, il sistema è periodicamente interrotto dalla crisi. In questa tradizione la causa delle crisi viene attribuita alla Natura (macchie solari, raccolti perduti, ecc…) e/o alla Natura Umana (cicli psicologici di ottimismo e disperazione, guerre, rivoluzioni, bestialità politiche) [3].
Ma la regolarità delle crisi prova che è difficile addossare la colpa alle macchie solari o ai bioritmi del consumatore, così come spiegazioni improvvisate come guerre e bestialità politiche non sono per niente adeguate a chiarire fenomeni apparentemente ciclici.
Arriviamo così al concetto di ciclo economico (business cycle) che rappresenta l’altro modo fondamentale di includere i fenomeni delle crisi nelle teorie ortodosse. Secondo questo concetto, il sistema viene ancora visto come capace di auto-regolarsi; solo che adesso il processo di aggiustamento viene visto come ciclico piuttosto che lineare. Diversi fattori interni al funzionamento del sistema danno vita a dei cicli che si auto-generano, cosicché l’auto-riproduzione abbia un suo ritmo interno.
È importante notare che nella teoria ortodossa un ciclo non è una crisi. Per essere compatibile con la struttura teorica globale, i cicli devono essere pensati come “piccole fluttuazioni”, variazioni di secondo ordine che in prima approssimazione è giustificato trascurare. In questo modo, la natura ciclica del processo di aggiustamento non rappresenta un limite alla capacità del sistema di auto-riprodursi.
Il ramo dell’economia ortodossa conosciuto come teoria del ciclo economico (business cycle theory) è una combinazione di questi due approcci fondamentali. Nel sistema ci sono fluttuazioni regolari e non violente: le contrazioni e le espansioni fanno parte del normale ciclo economico. Contrazioni ed espansioni violente o prolungate nascono da fattori esterni che hanno origine dalla Natura o dalla Natura Umana […]. Le crisi perciò rimangono al di fuori del processo normale della riproduzione capitalistica.
Nonostante il servizio che intendeva rendere, la teoria del ciclo economico ha sempre occupato un ruolo minore nell’economia del laissez-faire. La sua tesi era troppo pericolosa e la sua storia troppo contaminata da sentimenti anti-capitalistici per essere integrata tranquillamente nel corpo principale della teoria. Con l’avvento dell’economia keynesiana tutto questo cambiò. A breve vedremo perché.
B. La tradizione Keynesiana (di destra)
Abbiamo fin qui parlato della tradizione del “laissez-faire” nell’ambito della teoria borghese poiché essa è stata quasi sempre quella dominante. il gigantesco crollo del capitalismo mondiale durante la Grande Depressione assestò un colpo spaventoso a tale tradizione. Il crollo stesso venne “facilmente” spiegato dai suoi fedeli in una varietà di modi simili a quelli descritti sopra: così risultava inspiegabile il fatto che il sistema non sembrava mostrare alcuna tendenza a ritornare rapidamente al “normale” equilibrio di pieno impiego. Anche le stime ufficiali (per difetto) evidenziano che la disoccupazione negli Stati Uniti si aggirava intorno alla cifra di circa 10 milioni di persone nel 1939 – ben 10 anni dopo il “Grande Crollo”.
Via via che la Grande Depressione si trascinava e il malcontento sociale cresceva, la teoria del laissez-faire si screditava e la teoria keynesiana prendeva rapidamente il suo posto.
Keynes attaccò la nozione ortodossa secondo cui “l’offerta determina la propria domanda” poiché questa nozione portava alla conclusione che il capitalismo tendeva, più o meno spontaneamente, ad utilizzare in modo integrale i mezzi di produzione e la forza-lavoro disponibili. Invece, nella sua analisi, era il livello della spesa per investimenti pianificato dai capitalisti ad essere il fattore cruciale nel determinare i livelli produttivi e occupazionali.
Ma i piani di investimento dipendono significativamente dalle previsioni sui profitti, dalle “aspettative” e dagli “animal spirits” dei capitalisti. Da questo seguono due conclusioni principali. Primo, poiché le “aspettative” sono notoriamente imprevedibili, la riproduzione capitalistica è [a sua volta] necessariamente imprevedibile. Secondo, ed anche più importante, non esiste alcun meccanismo automatico nel capitalismo che possa determinare una pianificazione da parte dei capitalisti capace di generare gli investimenti necessari ad assicurare il pieno impiego. Si noti che si presume ancora che il sistema si auto-equilibri automaticamente, solo che l’equilibrio non evita disoccupazione persistente o inflazione.
La cosiddetta Rivoluzione Keynesiana era comunque ambigua. Gran parte della struttura “profonda” dell’analisi di Keynes era la stessa di quella ortodossa che attaccava [4]: la divisione della società in produttori e consumatori (e non in classi), la stessa fondamentale visione della natura umana, l’importanza cruciale attribuita alle preferenze e alle “propensioni” psicologiche, il ruolo della domanda e dell’offerta e, soprattutto, la fiducia in una analisi basata sull’equilibrio. Non c’è da meravigliarsi dunque che una parte dell’economia ortodossa sia stata capace di assorbire Keynes all’interno di una nuova versione della teoria borghese.
Riconosciuto infatti che non esisteva alcun meccanismo automatico per rendere la riproduzione capitalistica regolare, efficiente e senza crisi, i neoclassici keynesiani (keynesiani bastardi, come li chiamava Joan Robinson) si rivolgevano allo Stato come al meccanismo che avrebbe riportato a nuova vita la società tratteggiata nelle favole del laissez-faire. Se lo Stato avesse svolto bene il proprio compito, avrebbe manipolato la domanda aggregata in modo tale da mantenere [una condizione di] quasi pieno impiego con poca o nessuna inflazione; con questa modifica, “il resto delle tesi dell'(ortodossia) poteva essere ripristinato” [5].
Dal momento che le fluttuazioni economiche sono una parte accettabile della teoria keynesiana, la teoria del ciclo economico diventa un ramo dell’economia molto meno pericoloso. Infatti, poiché lo Stato in linea di principio può eliminare le fluttuazioni, diventa imperativo studiare nel dettaglio i cicli e le crisi al fine di sapere come neutralizzarle. Di conseguenza, dalla cosiddetta Rivoluzione Keynesiana è emersa un’enorme ricchezza di informazioni sulle crisi.
Non c’è da meravigliarsi che i keynesiani tendano a considerare l’erratica e violenta storia dell’accumulazione capitalistica come una serie di errori di “politica economica” e non fanno eccezione le loro opinioni sulla crisi in corso [6].
Keynes generò anche un altro ramo di seguaci, i cosiddetti “keynesiani di sinistra”, tra i quali Joan Robinson costituisce la figura predominante. I suoi punti di vista, insieme a quelli di Michael Kalecki e Joseph Steindl, saranno discussi nella sezione successiva.
Note
[1] Cfr. A.A. Alchian e W.R. Allen, Exchange and production theory in use (Belmont, Ca.: Wadsworth Publishing Co., 1969), Cap. 1-4, per una realistica presentazione della concezioni neoclassiche.
[2] Wesley Clair Mitchell, Business Cycles in Readings in business cycle theory, American Economic Association (London: George Allen and Unwin, 1961), p. 43; Paul Samuelson, Economics (New York: McGraw-Hill Book Co., 1976), pp. 250-251.
[3] Samuelson, op. cit., p. 257.
[4] Robert Lekachman, A history of economic ideas (McGraw-Hill Book Company, 1976), p. 343.
[5] Joan Robinson, Economic heresies (New York: Basic Books, Inc., 1971).
[6] Lekachman, op. cit., p. 347-348. Questo (approccio) è stato molto vero per Keynes e continua a riflettersi nei suoi seguaci.