Marco Riformetti | Il secondo “biennio rosso”: Sessantotto e Sessantanove (“autunno caldo”)
Tratto da Marco Riformetti, Tutti dentro con il biglietto del movimento. Gli “autoriduttori” nelle controculture giovanili degli anni ‘70, Tesi di laurea magistrale in “Sociologia e ricerca sociale”, maggio 2022
All’inizio degli anni ‘60 le lotte sociali sono quasi esclusivamente lotte operaie; anche le manifestazioni di piazza sono rette in sostanza dai soli lavoratori (QUADERNI PIACENTINI [1962b]). Ben presto però anche gli studenti iniziano a partecipare ai picchetti e si guadagnano la fiducia prendendosi la loro parte di repressione
«mentre manifestano per la pace o per l’indipendenza di Cuba, manifestano soprattutto il proprio sdegno, la propria insofferenza nei confronti delle istituzioni da cui sono intrappolati e limitati: la coscienza di essere completamente esclusi dal gioco ad essere malamente e faziosamente informati dai giornali» (QUADERNI PIACENTINI [1962b])
Gli studenti cominciano a mobilitarsi ancora sotto una spinta di tipo prevalentemente esistenziale che si esprime come desiderio giovanile di essere protagonisti della propria vita e quindi anche come desiderio di sottrarsi alla tutela dei propri mondi di origine, mettendone in discussione i valori.
L’impegno politico e sociale arriva gradualmente e non mancano, soprattutto negli anni ‘50, subculture giovanili sostanzialmente apolitiche come i Teddy Boys che tuttavia richiamano l’attenzione degli intellettuali più attenti ai fenomeni giovanili come Pierpaolo Pasolini (VOLPI [2019], pag. 111 e segg., PASOLINI [1955])
«a differenza del suo simile inglese, il Ted italiano ha espresso il suo potenziale di rivolta non certo contro gli immigrati ma, nell’epica popolare, il protagonismo politico del nuovo soggetto marca “i canoni della cultura dell’antifascismo militante”, segnando sia di elementi sempre più radicali lo stile “americanizzato” e “spoliticizzato”, sia consacrando l’innesto di questa cultura giovanile nella corrente dei partiti di sinistra, segnando di elementi sempre più politici le condotte subculturali giovanili» (BENVENGA [20152])
Ma è verso la fine degli anni ‘60 che la mobilitazione dei giovani e l’unità di lotta tra studenti e lavoratori fa un salto di qualità grazie a due passaggi storici fondamentali: il Sessantotto e l’Autunno caldo.
Questi due passaggi sono talmente correlati che spesso si è parlato di “secondo biennio rosso” per indicare la continuità interna alla stagione delle grandi lotte studentesche e operaie che va dal 1967-68 al 1969-70 (FORTI [2014], AA.VV. [2007]).
Alla fine degli anni ‘60 i giovani non sono più un semplice strato generazionale, ma un vero e proprio soggetto sociale che diventa protagonista della scena, pur con tutte le contraddizioni di classe che lo attraversano (e che attraversano anche il mondo degli adulti).
I giovani delle classi popolari sono ormai protagonisti del movimento operaio e, ovviamente, del movimento studentesco. Ma stanno per diventare protagonisti anche del movimento rivoluzionario, producendo una rottura che non è più solo generazionale, ma è ormai anche politica.
Non è certamente questa la sede per analizzare fenomeni storici complessi come quello del Sessantotto, peraltro attraversati da spinte molto contraddittorie che vanno dall’emersione dei giovani come segmento sociale autonomo (o quanto meno in cerca di autonomia) fino allo svecchiamento – qualcuno dice al superamento (PREVE [2018]) – nel senso di un capitalismo assoluto senza “coscienza infelice” del precedente bigottismo borghese, passando attraverso la critica del modello scolastico e universitario, la crescente richiesta di protagonismo e di democrazia assembleare, l’influenza della Rivoluzione culturale cinese (pensata in antitesi al burocratismo sovietico) e di tanti altri elementi che si incontrano in questo crocevia della storia contemporanea dei giovani.
Se vogliamo provare a fissare un’origine all’esplosione delle mobilitazioni studentesche del Sessantotto possiamo pensare all’occupazione della prestigiosa Università della California di Berkeley nel 1964 (DRAPER [1968]) e, per quanto riguarda l’Italia, alle occupazioni universitarie del 1967 duramente fronteggiate dalla polizia
«Per la prima volta dal dopoguerra […] la polizia era intervenuta per sgomberare l’Università? occupata a Pisa nel febbraio del 1967 e a Trento nel marzo dello stesso anno» (GIACHETTI [1998])
Le occupazioni dilagano tra l’autunno del 1967 e la primavera del 1968. Rettori e professori rispondono chiamando la polizia per sgomberare gli atenei ed arrestare gli studenti (200 solo a Genova il 26 novembre 1967).
«1. Queste tesi vengono proposte alle assemblee delle facoltà dai delegati riunitisi a Pisa su mandato della base allo scopo di precisare le direttive del movimento studentesco. 2. L’elaborazione è stata compiuta nella Sapienza di Pisa occupata e, successivamente all’intervento della polizia chiamata dal rettore contro i delegati, negli istituti delle facoltà occupate» (TESI SAPIENZA [2017])
Il primo marzo 1968 c’è Valle Giulia
«studenti e forze dell’ordine danno vita a uno scontro senza precedenti. Alla fine si conteranno centinaia di feriti, 228 fermi, 10 arresti» (ZAVOLI [2014])
È un evento dal forte carattere simbolico anche se l’entità dello scontro è molto inferiore a quella che verrà scatenata di lì a poco contro i braccianti meridionali in sciopero e contro i cittadini colpiti dalle bombe fasciste. E ovviamente il livello dello scontro è molto al di sotto anche della violenza politica che dilagherà negli anni ‘70 e nei primi anni ‘80.
La rivolta studentesca muove certamente da una critica radicale dell’istituzione universitaria e dal tentativo di immaginare un’idea alternativa di formazione. Sono anni di sperimentazione: a Trento, con l’Università negativa (ROSTAGNO, CURCIO [1980]) o nella scuola dell’obbligo (BARBIANA [1976]).
Ma in realtà il Sessantotto, inteso come movimento e non come “anno domini”, è la mobilitazione di un’intera generazione contro un intero sistema: scolastico e universitario, certo, ma anche politico, culturale, sociale. Non è solo il tipo di gerarchia esistente che viene messo in discussione, bensì l’idea stessa che debba esistere una gerarchia. È la convinzione, tanto rara oggigiorno, che niente è immodificabile e che tutto può essere messo in discussione attraverso la partecipazione attiva.
Con il Sessantotto i giovani vogliono diventare protagonisti della propria vita, abbiamo detto. Ma il Sessantotto è anche qualcosa di più di “ciò che vogliono i giovani”: è un processo oggettivo di parziale superamento della vecchia società patriarcale e paternalistica, dei suoi linguaggi, dei suoi riferimenti simbolici, delle sue ideologie di riferimento; è l’apertura di un discorso del tutto nuovo che in buona misura diventerà poi dominante. In fondo, gli studenti universitari sono classe dirigente “in pectore”; a mobilitarsi, nel 1964, sono gli studenti di una delle istituzioni universitarie di élite degli Stati Uniti – l’Università della California (UCLA) – e all’interno di questa élite, gli studenti di ultra élite, quelli con i voti migliori, quelli premiati per meriti accademici e senza alcun precedente impegno politico (DRAPER [1964]).
Quando i “sessantottini” diverranno classe dirigente dirigeranno con strumenti concettuali prodotti dallo stesso movimento del Sessantotto
«le condizioni per la scalata del Sessantotto al potere sono poste. Il potere si riorganizza ed il controllo sociale viene restaurato nelle forme, con gli strumenti e con il linguaggio forniti dal movimento: nasce il consenso politico organizzato» (Guido Viale in PREVE [2010])
Il Sessantotto non è un “anno”, ma piuttosto un “passaggio” che ha dietro di sé un lungo periodo di gestazione sviluppatosi lungo l’arco degli anni ’60. E, ovviamente, il Sessantotto ha anche una serie di sviluppi successivi: uno di questi sviluppi riguarda proprio i movimenti che propongono le lotte ai concerti, i quali si dimostrano attenti verso gli studenti e anche verso le lotte dei giovani lavoratori (sebbene queste non siano il loro terreno di intervento principale). Già sul numero 0 di «Re Nudo» è presente un’intera pagina dedicata alla repressione delle lotte in fabbrica (Autunno dei padroni, Cronaca delle lotte e delle repressioni[1]). E nel primo numero, mentre spiega come deve essere interpretata la definizione “underground” del giornale, «Re Nudo» scrive
«Nostro obiettivo è anche riuscire a fornire un’informazione puntuale sulle lotte nelle fabbriche, nei quartieri e nelle scuole. Ampio spazio verrà quindi dato ai protagonisti di queste lotte che interverranno sul giornale anche in prima persona» (RE NUDO [19701])
Tracce di una certa egemonia culturale delle lotte operaie che esplodono nella seconda fase del “secondo biennio rosso” si ritrovano in diversi momenti nel discorso autoriduzionista; per esempio, quando le lotte ai concerti vengono presentate in analogia alle lotte in fabbrica (anche se, ovviamente, le rivendicazioni degli autoriduttori sono legate al reddito e non al salario)
«diffusa è la nozione che la lotta ai ladroni del pop è in realtà lotta anticapitalista e antiautoritaria sullo stesso piano delle lotte proletarie operaie e per i diritti civili» (STAMPA ALTERNATIVA [1974b], pag.44)
La stessa scelta di chiamare “padroni della musica” gli impresari che promuovono i concerti (STAMPA ALTERNATIVA [1974a]) risponde all’intenzione di sottolineare l’internità delle lotte per le autoriduzioni al più vasto movimento di lotte sociali e di cambiamento che dilaga nel paese. Il concetto è questo: così come gli operai lottano contro il padrone in fabbrica, così come gli inquilini lottano contro i padroni di casa nei quartieri, allo stesso modo i giovani lottano contro i padroni della musica ai concerti.
Come vedremo, l’interesse degli autoriduttori per le lotte sindacali è in verità abbastanza limitato, tuttavia il richiamo alle lotte in fabbrica è comunque espressivo dell’influenza che quelle lotte esercitano sui giovani in quegli anni.
Anche la storiografia sul Sessantanove – spesso chiamato “autunno caldo” – è (stata) molto ampia e non è questa la sede per approfondirla; generalmente, quando si parla di “autunno caldo” si fa riferimento ad una fase di vaste lotte sindacali che esplodono nelle grandi fabbriche del nord Italia nel 1969 e che investono i rinnovi contrattuali di milioni di lavoratori, soprattutto metalmeccanici.
Il clima politico è caratterizzato anche dalla recentissima mobilitazione degli studenti le cui rivendicazioni finiscono per sommarsi a quelle dei lavoratori; nasce così un fronte di lotta tra operai e studenti che costituisce un primo elemento interessante per la nostra ricerca. Ma l’unità d’azione non è il solo elemento che lega le lotte studentesche del Sessantotto, le lotte operaie dell’autunno caldo e i movimenti dei primi anni ’70 che sostengono le lotte ai concerti: il vero trait d’union è costituito dalla richiesta di protagonismo e dal rifiuto della gerarchia. Queste richieste, lo abbiamo visto, sono evidenti nel Sessantotto e lo sono al punto tale che esse esondano ben oltre i confini dell’istituzione scolastico-universitaria. Ma come si manifestano tra i lavoratori alla fine degli anni ’60?
Un elemento molto importante è questo: le lotte dei lavoratori mettono fine alle vecchie rappresentanze sindacali aziendali – le Commissioni Interne – e impongono la nascita di una forma di rappresentanza (non del tutto) nuova: il Consiglio dei delegati (di fabbrica)
«le commissioni interne vennero sostituite dai consigli di fabbrica, organismi costituiti da delegati (di reparto, di linea, di squadra) spontaneamente eletti dai lavoratori senza distinzione fra affiliati ai sindacati e no» (VOLPI [2019a], pag. 200).
Quello di consentire a lavoratori non iscritti al sindacato di essere candidati nelle elezioni dei Consigli e, ancor più, la possibilità di presentare liste che non hanno riferimenti sindacali di alcun tipo è un punto davvero decisivo – un punto che verrà gradualmente eroso negli anni successivi fino ad arrivare alla sua completa cancellazione con l’accordo del 23 luglio 1993 che sancisce la nascita delle Rappresentanze Sindacali Unitarie (RSU) –. Perché si tratta di un punto così importante? Perché definisce quale debba essere il criterio di autorevolezza che si richiede a chi si candida a rappresentare i lavoratori nelle trattative aziendali e cioè solo e soltanto il riconoscimento da parte dei lavoratori che dovranno essere rappresentati.
Come è naturale i Consigli di fabbrica diventano immediatamente l’espressione della radicalizzazione dei lavoratori, dell’“autonomia operaia” (QUADRELLI [2020]). Espressione, abbiamo detto, perché la radicalizzazione non è determinata dai consigli, ma sono piuttosto i consigli che vengono imposti alle imprese ed alle stesse organizzazioni sindacali dalla crescita della coscienza e della partecipazione.
Sono presenti voci minoritarie che si oppongono ai delegati
«La figura del delegato è esattamente la risposta sindacale – e padronale – a questa pericolosa crescita delle lotte “spontanee”, alla negazione della legalità produttiva e contrattuale che essa esprimeva» (LOTTA CONTINUA [19704])
Lotta Continua rifiuta l’idea della democrazia delegata e le contrappone un’idea di democrazia assembleare con parole d’ordine come “siamo tutti delegati” che il PCI, forse non a torto, definisce estremiste (GIANNOTTI [1970]).
Note
[1] Questa rubrica tornerà anche in numeri successivi.