Antiper | Il ciclo sgonfiato. Premessa storica e politica
Tratto da Antiper, Il ciclo sgonfiato. Riflessione aperta sulla situazione politica italiana, dopo le elezioni del 13-14 aprile 2008, Prima edizione: agosto 2008, Riformattato nel luglio 2014 per la raccolta Quattordici anni.
I partiti parlamentari che, negli ultimi 15 anni, si sono definiti “comunisti” – PRC e PdCI – hanno rappresentato, all’apice del proprio consenso, una quota elettorale inferiore al 10%. Questo significa che gli italiani non comunisti o addirittura ostili al comunismo sono più del 90%.
Che l’Italia non fosse mai stata particolarmente incline verso i “comunisti” e la “sinistra” lo si sapeva da tempo, aldilà della fanfara sul “più grande partito comunista dell’Occidente” che era grande numericamente appunto perché non era comunista politicamente.
Già fin dalle elezioni del 18 aprile 1948, a soli 3 anni dalla caduta di Mussolini, le forze clerical-fasciste (come le avrebbe definite Pierpaolo Pasolini), nuova espressione del vecchio blocco sociale che aveva sostenuto il fascismo, erano tornate saldamente al comando con in tasca il jolly del denaro proveniente dal Piano Marshall [1]. Due anni prima, alle elezioni per la formazione dell’Assemblea Costituente (2 giugno 1946) la DC aveva raccolto il 35.2% mentre i partiti antifascisti avevano ottenuto circa il 40% [2]. E, sempre il 2 giugno 1946, il referendum su repubblica o monarchia era finito con la vittoria risicatissima della prima (54,3% contro 45.7%).
Il PCI, nel 1946, ottiene circa il 19% dei voti.
Questo è il patrimonio elettorale conquistato con la Resistenza. Non è poco, ma non è neppure molto e dimostra che l’Italia del secondo dopoguerra è un paese spaccato a metà in cui l’anti-comunismo è forte tanto quanto l’anti-fascismo.
Il tentativo di comunisti e socialisti di vincere le elezioni del 1948 attraverso un blocco elettorale antifascista fallisce. Di fronte alla minaccia di una vittoria dei partiti antifascisti, le forze anticomuniste italiane si mobilitano, consegnando alla DC una vittoria pesantissima (48%) e relegando il “fronte popolare” (che non a caso aveva usato il richiamo a Garibaldi per ricordare agli elettori di essere stato il nerbo della Resistenza [3]) ad un misero 30%, con un arretramento di 10 punti rispetto al risultato ottenuto appena 2 anni prima.
Evidentemente, l’emozione della Resistenza comincia a scemare, il Piano Marshall comincia a fare il suo effetto, il giudizio sull’azione dei partiti antifascisti nei due anni di governo di “unità nazionale” è negativo (disarmo dei partigiani, liberazione dei fascisti, compromesso con la DC, ovvero con il partito che raccoglie i consensi dei monarchici, dei fascisti, dei clericali, dei padroni…).
È naturalmente pericoloso azzardare paragoni tra la situazione antecedente e quella successiva al fascismo, ma almeno un dato lo si può evidenziare: nelle elezioni politiche del 15 maggio 1921 [4] socialisti e comunisti raccolgono insieme il 29,3% (con il PCdI che, appena nato, ottiene il 4,6%). Il 18 aprile del 1948, dopo vent’anni di fascismo, 5 anni di guerra, 2 anni di Resistenza armata, PCI e PSI-UP (il Fronte Democratico Popolare) raccolgono il 30,98%. Il rapporto interno tra PCI e PSI si sta modificando [5], ma si tratta, appunto solo di un riequilibrio interno.
Con la linea della “democrazia progressiva” [6], avanzata sin dalla “svolta di Salerno” del 1944 e perfezionata all’VIII Congresso, il PCI punta all’ampliamento dei diritti democratici e al miglioramento delle condizioni sociali ed economiche. Si tratta, secondo il PCI, di “dare completa attuazione alla Costituzione” e di inserire “elementi di socialismo” all’interno della società capitalistica, come si ritiene di essere riusciti a fare, appunto, con la Costituzione la quale, però, è un compromesso istituzionale (relativamente avanzato per un paese capitalista) che deriva da ben precisi rapporti di forza; con la smobilitazione dei partigiani, la liberazione dei fascisti, la vittoria elettorale della DC, l’inizio della repressione scelbiana delle lotte operaie, la scelta della “via parlamentare” al socialismo del PCI… questi rapporti di forza si stanno già squilibrando a favore dei partiti anti-comunisti. Invece di estendere ulteriormente gli “elementi di socialismo” esistenti il PCI, nonostante la sua crescita di consenso e di capacità di lotta, non riuscirà neppure a praticare quelli esistenti, se così si può dire. Si apre così una divaricazione tra la “lettera” della Costituzione e quella che verrà poi chiamata Costituzione “materiale”.
Il PCI sa che la credibilità della sua linea e il suo consenso elettorale sono strettamente legati al raggiungimento di risultati riformisti “concreti”. Solo ottenendo questi risultati si può dimostrare che la “via italiana” al socialismo è possibile.
Il vero “punto di tenuta” della strategia riformista del PCI è, infatti, la credibile illusione che la crescita del partito e del sindacato apriranno la strada al socialismo. Si tratta di una concezione tutt’altro che nuova che riesce ad affermarsi perché supportata da alcune conquiste reali, o che appaiono tali. In certe fasi sembra persino che l’azione del PCI “sposti a sinistra” la linea politica della DC
“…l’iniziativa politica e sociale del Pci nel meridione condizionò notevolmente l’azione della Dc e l’evoluzione più complessiva della politica italiana. Le lotte agrarie dell’autunno del 1949 contribuirono infatti in misura rilevante a determinare la svolta che nel gennaio del 1950 portò alla costituzione del VI governo De Gasperi con un programma riformista incentrato sull’uso produttivistico degli aiuti del Piano Marshall e sul varo della riforma agraria e della Cassa del Mezzogiorno” [7].
Per tutta una fase la credibilità della strategia riformista cresce e, grazie ad essa, il PCI riesce a contenere e a depotenziare le spinte radicali o addirittura rivoluzionarie emergenti dalla società italiana; sia quelle dell’immediato dopoguerra, influenzate dall’idea che la Resistenza sia stata interrotta e debba proseguire fino alla conquista del potere, sia successivamente.
La linea del PCI, ovviamente, non ha nulla a che vedere con un’effettiva strategia di trasformazione in senso socialista dell’esistente. Per il PCI il socialismo coincide, più o meno, con l’arrivo al governo. Ma un conto è la conquista rivoluzionaria del potere da parte di una classe (conquista che certo, come suggerisce Gramsci, deve essere materiale e culturale – forza ed egemonia -, ma che in nessun caso può realizzarsi per via elettorale e stabilizzarsi senza la distruzione e sostituzione dell’apparato statale borghese); ben altro conto è la conquista per via elettorale del governo di un paese capitalistico da parte di una rappresentanza politica che pretende di far funzionare a favore dei lavoratori uno Stato che si è costituito e consolidato storicamente per difendere gli interessi dei capitalisti contro quelli dei lavoratori.
D’altra parte, per le stesse masse popolari l’“essere comunisti” si risolve essenzialmente nell’aspirazione alla conquista di diritti e consumi negati. Ovviamente, non è deprecabile che i lavoratori tendano spontaneamente solo verso la contrattazione di condizioni economicamente migliori nello sfruttamento della propria forza-lavoro piuttosto che verso il rovesciamento rivoluzionario di questo sfruttamento. Non è da disprezzare che i lavoratori pensino a “stare meglio” piuttosto che a “fare la rivoluzione” perché proprio la frustrazione dell’aspirazione a “stare meglio” e la constatazione del progressivo “stare peggio” è uno degli elementi che apre la strada ad una riflessione sulla necessità di “fare la rivoluzione”.
Via via che le condizioni di vita dei lavoratori migliorano (grazie alle lotte sociali, allo spauracchio dell’URSS ed anche alla modernizzazione capitalistica di un paese che da principalmente contadino diventa principalmente industriale) il partito cresce lentamente nei suoi consensi elettorali [8] e nella sua “egemonia” nella società: intellettuali, artisti, case del popolo, sindacato, circoli Arci, associazioni sportive…, una specie di “contropotere riformista” – il “popolo della sinistra” – che si prepara a sostituire la Democrazia Cristiana alla guida del paese.
Ma così come il PCI rafforza la sua “presa” sui lavoratori dimostrando che anche con le semplici lotte economiche e sindacali, civili, “democratiche”… si possono ottenere importanti conquiste (la riforma agraria, la “scala mobile”, lo statuto dei lavoratori, la riforma sanitaria, la riforma pensionistica, l’equo canone, i diritti civili e democratici come il divorzio, l’aborto, la riforma psichiatrica…) così, allo stesso modo, la Democrazia Cristiana conserva la sua “presa” sulla maggioranza degli italiani cercando di dimostrare che il capitalismo è un sistema sociale progressivo in cui anche la condizione degli operai può migliorare costantemente (e comunque è molto migliore che in Russia o in Cina dove la gente fa la fila davanti ai negozi).
La credibilità dell’ipotesi riformista si risolve quindi nella credibilità del capitalismo e il quesito rimane: il miglioramento sociale ed economico dei lavoratori è dato dal capitalismo o dalle lotte economiche contro i capitalisti? DC o PCI?
Tra la fine degli anni ’60 e la metà degli anni ’70 il PCI riuscirà a dispiegare la sua massima “capacità riformista”. Non a caso, con le Amministrative del 1975 e le Politiche del 1976, il PCI realizzerà, sull’“onda lunga” dei risultati conseguiti nella fase di lotte immediatamente precedente, una poderosa avanzata elettorale.
Mentre il PCI avanza, si consuma alla sua “sinistra” una rottura politica che vorrebbe essere rivoluzionaria, ma che in pratica resta ancora chiusa all’interno di una visione politica influenzata dal riformismo e dall’economicismo.
Questo vale in modo più chiaro per aree come quella del Manifesto [9], ma vale anche per chi pensa il passaggio dalle lotte del biennio ’68-’69 alla lotta armata come inevitabile sbocco della contraddizione tra la pressione delle lotte studentesche e operaie e i limiti che queste lotte incontrerebbero a causa della linea riformista del PCI (Potere Operaio). Il presupposto che sostiene questo ragionamento è semplice: il limite alle capacità riformiste della classe è il riformismo. Superando il riformismo, le sue forme di lotta, i suoi compromessi, la sua moderazione…, si può superare ogni limite rivendicativo fino ad arrivare, nientemeno, che a forme di vero e proprio “contropotere” sociale e politico.
Certamente, senza la conquista del potere politico, ogni miglioramento sociale, per quanto avanzato, è destinato inevitabilmente ad essere perso. E mai come negli ultimi 30 anni, contrassegnati da un gigantesco processo di ristrutturazione capitalistica, questo appare chiaro. Ma la tensione verso la conquista del potere politico da parte delle classi sfruttate non può essere concepita solo come il “fissante” delle conquiste riformiste, una sorta di garanzia della loro inespugnabilità, perché in questo modo essa torna ad essere nuovamente lo sbocco necessario di un processo riformista.
Chi pensa che dopo quello del “vogliamo di più” è ormai giunta l’ora del “vogliamo tutto” esprime, seppure in buona fede, la variante di “estrema sinistra” dell’adagio riformista secondo cui la conquista del “potere” non è che l’esito di un processo di conquiste economiche e sociali realizzate attraverso la progressione elettorale sostenuta dalle lotte sindacali laddove, al contrario, la prospettiva rivoluzionaria diventa credibile solo quando (condizione necessaria, ma non sufficiente) l’ipotesi riformista rivela la sua mancanza di credibilità. La conquista del potere politico deriva così proprio dall’impossibilità di realizzare le conquiste fondamentali attraverso processi graduali di riforma, è il tappo che salta e permette l’avvio della transizione rivoluzionaria, è la soluzione della contraddizione [10] tra rapporti sociali (capitalistici) e capacità di sviluppo [11] delle forze produttive, è il dispiegarsi di un epoca nuova dove libertà, solidarietà, giustizia sociale… prendono il posto di sopruso, violenza, umiliazione.
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Gli anni ’70 sono anni in cui “la lotta paga” ancora (sebbene più per poco perché la “marcia dei 40.000” [12] e la sconfitta degli operai FIAT – permessa dal PCI per determinare l’auto-distruzione del più importante avamposto di lotta della classe operaia italiana – sanciranno simbolicamente e materialmente l’inversione di tendenza).
La relativa facilità con cui operai, studenti, donne…, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, sembrano strappare importanti conquiste sociali, civili ed economiche fa supporre di essere alla vigilia di un imminente “crollo del sistema” [13] e che, di conseguenza, compito delle avanguardie rivoluzionarie sia quello di aiutare la “spallata” al “regime imperialista marcio e putrescente”. Invece, anche se può apparire paradossale, il regime capitalistico non era mai stato (e non sarebbe più stato) così forte perché la sua capacità di gestione delle contraddizioni interne ed internazionali era garantita da spazi economici ampi (ciò che rendeva più credibile il riformismo e, di conseguenza, il capitalismo) e da uno scontro inter-imperialistico tra le potenze “occidentali” più “blando” perché soffocato dalla contraddizione principale con il blocco sovietico.
L’economia dei paesi imperialisti viene da un trentennio di crescita ed esistono spazi per la re-distribuzione di qualche briciola (che viene effettivamente re-distribuita anche per incanalare la spinta dei lavoratori nella direzione del riformismo ed impedire la crescita di tendenze anti-capitaliste).
Ma con la prima metà degli anni ’70 ha inizio una crisi capitalistica mondiale [14] (che si rivelerà poi generale, nel senso di non puramente congiunturale e non puramente economica), costellata da cicli interni e crisi specifiche (petrolio, finanza…) e attenuata da tutta una serie di fattori tra i quali citiamo, a titolo di esempio, la crisi definitiva e (poi) l’implosione del blocco sovietico, il ritorno della Cina all’economia di mercato, l’accelerazione del processo di globalizzazione del modo di produzione capitalistico sostenuta negli ultimi decenni dallo sviluppo della logistica, dell’informatica, dell’elettronica…; questi sono solo alcuni degli elementi economici che hanno permesso l’attenuazione degli effetti della crisi che però è tornata a riproporsi costantemente come nodo irrisolto.
Con la fine dell’URSS e lo sviluppo a basso regime dell’economia dei principali paesi capitalistici si determina un’impennata della competizione inter-imperialistica e l’erosione progressiva degli spazi economici per politiche di mantenimento del reddito delle fasce popolari. Anzi, si realizza un gigantesco processo di polarizzazione sociale del quale oggi tutti si accorgono (come se fosse una gran scoperta quella di verificare che il capitalismo funziona capitalisticamente).
Del povero Marx, che parlava del modo di produzione capitalistico come di un rapporto sociale che riproduce innanzitutto sé stesso come rapporto sociale (il “doppio mulinello”) [15], nessuno si ricorda. Non se ne ricordavano quelli che volevano cambiare il capitalismo dall’interno e condurlo verso il “socialismo” attraverso le lotte sindacali (i Kaustky negli anni ‘10 e ’20 o i Togliatti negli anni ‘40 e ’50); e tanto meno se ne ricordano quei “no global” [16] che volevano avviarsi verso un nuovo mondo possibile (che nessuno è mai riuscito a capire che cosa fosse) o certi micro-gruppi operaio-sindacal-consiliaristi.
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Se un forza politica dichiara di essere “costretta” a fare compromessi e concessioni, ma è capace di ottenere risultati “concreti” avrà di fronte a sé 2 tendenze: una contraria (quelli che considerano più importanti principi e strategia che piccoli risultati immediati) e una favorevole (quelli che preferiscono subito qualcosina di concreto piuttosto che “pensare alla rivoluzione”). Il PCI, grazie alla sua capacità di concretizzazione di obbiettivi riformisti (che a dire il vero erano spesso molto più realistici di quanto non fossero reali) sviluppava le due tendenze in questo modo: un dissenso numericamente limitato anche se politicamente agguerrito; un consenso, politicamente arretrato, ma elettoralmente immenso e, decisamente, operaio e popolare. Ecco come mai, più il PCI si allontanava da una qualsiasi via – italiana o non – al socialismo, più cresceva il suo consenso popolare e tra i lavoratori.
Ed ecco come mai il richiamo ossessivo al concreto è sempre una strada verso il riformismo e, in un’epoca come questa, verso un duplice nichilismo: l’annullamento di ogni pensiero del non ancora esistente (con il bel risultato di finire nella ben nota legittimazione hegeliana del solo reale – esistente – come razionale) e il nulla dei risultati “concreti”. Così, a forza di “stare con i piedi ben piantati in terra” poi non si riesce più a muoversi, laddove invece nessuna dinamica storica è possibile senza cogliere la dialettica tra ciò che esiste e ciò che non esiste, tra ciò che esiste e ciò che potrebbe esistere [17].
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Il PCI sa guardare oltre l’immediato e comincia ad aver chiaro che gli spazi per una politica economica anche solo parzialmente re-distributiva tenderanno nella prossima fase a chiudersi; con essi tenderanno a diminuire anche i consensi elettorali [18] e così la prospettiva del governo si farà praticamente impossibile da realizzare. Decide allora di puntare su un’alleanza di carattere neo-corporativo con le imprese e di “alzare il livello di incontro” con lo Stato e con il padronato.
Rispetto allo Stato il PCI si propone come pilastro di una nuova versione dell’“unità nazionale” [19] per superare, oltre che la crisi economica, anche la conventio ad excludendum che Vaticano, Washington e borghesia italiana (con il decisivo appoggio del PSI) avevano costruito attorno ai “comunisti”. In cambio cosa darà? Ovvio, la pace sociale sulle misure che il governo “sarà costretto” a prendere.
La proposta solletica alcuni settori della DC, tanto che nel 1978 l’operazione sembra andare in porto grazie all’appoggio di Aldo Moro, presidente della DC, che invece il 16 marzo viene arrestato dalle Brigate Rosse, tenuto prigioniero e poi giustiziato dopo 55 giorni durante i quali, probabilmente, gli unici a voler Moro vivo erano i brigatisti.
Rispetto al padronato il PCI decide di investire su quel “patto dei produttori” – operai e padroni insieme a “fare squadra” per l’“azienda Italia” – che in fondo, seppure in forme diverse, rappresenterà il vero “leit motiv” della strategia centro “sinistra” degli ultimi 30 anni (e, seppure in forma molto più attenuata e sporadica, anche di anni precedenti [20]). La “svolta” si basa, come detto, su una previsione: quando il PCI non riuscirà più a portare a casa risultati concreti, comincerà anche a perdere il proprio consenso elettorale di massa. In questo modo verrà vanificata la ricorsa verso il governo e con essa le aspirazioni di potere di una classe dirigente che da tempo è diventata puro ceto nichilistico il cui unico fine è riprodurre sé stesso.
Il dialogo con i settori di piccola e media borghesia “produttiva” è già in atto fin dal lancio del “partito nuovo”, ma ciò che poteva produrre elettoralmente lo ha già prodotto. E in fondo il problema non è elettorale, è politico. Per rimuovere il diktat che vuole il PCI sempre e comunque all’opposizione bisogna cercare l’accordo con i settori più “illuminati” (ovvero disponibili) della grande borghesia italiana, dimostrando la propria completa affidabilità. Si accelera così quella transizione infinita che porterà il gruppo dirigente ex-PCI al PD.
Nei primi mesi del 1978 CGIL-CISL-UIL avevano adottato alla Conferenza dell’EUR [21] una linea basata sulla collaborazione organica del sindacato al piano di ristrutturazione capitalistica fatto passare agli italiani come “sacrifici necessari per superare la crisi economica”. L’adesione della CGIL è l’atto formale con cui il PCI sigilla la chiusura definitiva di un’epoca e l’apertura di una nuova epoca: niente più sogni di impossibili “democrazie progressive” (i riformisti diventano realisti comprendendo l’illusorietà dell’ipotesi riformista), ma piena integrazione dentro il funzionamento del modo di produzione capitalistico e, conseguentemente, disponibilità ad assumersi gli oneri della ristrutturazione. Spetterà a Luciano Lama (non a caso esponente di spicco della componente di destra del PCI – i cosiddetti “miglioristi” [22]) legare il proprio nome alla nuova stagione neo-corporativa che permetterà a padroni, Stato, sindacati e partiti della sinistra di condurre i lavoratori dall’essere i meglio pagati d’Europa nella metà degli anni ’70 ad essere, oggi, i peggio pagati. Un’operazione la cui portata sarebbe stata impensabile senza il coinvolgimento attivo del gruppo dirigente del PCI.
A differenza del PD che chiamerà “patto dei produttori” un programma politico integralmente subalterno alla logica del mercato e agli interessi del grande capitale italiano, senza più alcuna forma di mediazione con gli interessi dei ceti popolari, considerati solo come massa elettorale da ammaliare con operazioni di marketing, il “patto” del PCI doveva essere un “vero” patto tra produttori. Non si tratta, è chiaro, dei produttori di cui parla Gramsci [23] (anche su questo strumentalizzato come su molte altre cose), ma dei soggetti che “agiscono” nella produzione: lavoratori e padroni. Come voleva Amedola, che auspicava un patto tra lavoratori e imprenditori illuminati in chiave anti-monopolistica.
Ma come si possono conciliare gli interessi di due classi antagoniste? Evidentemente non si può. Ecco perché il risultato della strategia del PCI non sarà l’impossibile alleanza tra capitale e lavoro, ma l’ulteriore sottomissione del lavoro al capitale. Il primo passaggio necessario è quello di creare “interessi generali” da collocare al di sopra degli specifici interessi di classe e verso i quali chiamare alla “responsabilità” tutto il paese; il compromesso storico è l’espressione politica di questo passaggio. Di fronte ad un “interesse generale” che impone a tutti “senso di responsabilità” diventa legittimo ipotizzare che le grandi forze politiche del paese possano e debbano unirsi, pur nella loro diversità, per far fronte all’emergenza.
Il farsi carico da parte del PCI della crisi economica e politica del capitalismo italiano (“solidarietà nazionale”), del controllo delle contraddizioni sociali e politiche (lotta contro il “terrorismo”), del rilancio del profitto (“svolta dell’EUR”)… è l’atteggiamento di chi si sente già al timone dell’economia nazionale di un paese capitalistico: con una formula efficace qualcuno ha scritto di questo passaggio, avviato peraltro da tempo, che il PCI era passato da “partito della classe operaia dentro lo Stato” a “partito dello Stato dentro la classe operaia”.
Cosa intendeva Berlinguer quando, riflettendo sull’esito dell’esperimento riformista in Cile di Salvador Allende, deposto ed assassinato nel 1973 dal colpo di stato di Pinochet appoggiato dagli USA, affermava che in Italia il PCI non avrebbe potuto governare neppure con il 51%? Non certo, ovviamente, che avrebbe dovuto conquistare il 60 o il 70%, ma che il grande capitale italiano e internazionale non avrebbero mai permesso un governo di “comunisti” o con i “comunisti” senza un accordo strategico che garantisse in modo inequivocabile il suo profitto e potere reali. Ecco come il colpo di stato militare in Cile (assieme anche alla “strategia della tensione”) ha messo fine anche alle illusioni democratico-riformiste del PCI.
Di fronte all’evidenza che è solo con la forza di un processo rivoluzionario che un popolo si conquista il diritto e l’opportunità di decidere il proprio futuro il PCI ha scelto l’unica via che, ormai, poteva scegliere: ha scelto sé stesso, abbandonando il proprio popolo. I successori di Berlinguer non hanno fatto che perfezionare questa linea [24] fino ad arrivare a Veltroni e Bertinotti.
Note
[1] Il Piano Marshall fu un piano di aiuti economici degli USA all’Europa che in 5 anni (1948-1952) permise ad alcuni paesi alleati di riconvertirsi rapidamente dall’industria bellica a quella civile. Alla fine del piano, per il quale gli USA erogarono circa 13,2 miliardi di dollari, la produzione dell’Europa occidentale aveva recuperato e addirittura superato del 30% la produzione del periodo pre-bellico. Il Piano Marshall fu un modo per vincolare la sorte economica dei paesi europei alla supremazia nord-americana “coerentemente” con l’assetto geo-politico emerso dagli accordi di Yalta.
[2] PSI-UP 20,7%, PCI 18,9%
[3] Infatti le brigate partigiane di gran lunga più numerose si chiamavano Brigate d’assalto Garibaldi secondo la scelta di caratterizzare in senso marcatamente neo-risorgimentale la Resistenza (definita spesso, non a caso, “secondo risorgimento”).
[4] Nelle elezioni del 15 maggio 1921 il Partito Nazionale Fascista aveva raccolto lo 0,5% e 2 seggi, ma altri fascisti erano stati eletti nelle liste dei Blocchi Nazionali anti-socialisti. I fascisti in Parlamento sono comunque, dopo le elezioni del 1921, solo 35 (di cui ben 10 provenienti dall’Istria). Da osservare che alle elezioni del 1921 presero parte 6.701.496 elettori corrispondenti al 58.4% degli aventi diritto.
[5] Infatti nelle successive elezioni del 1953 il PCI avrà il 22.6% e il PSI il 12.7%.
[6] Biografia di Togliatti in una pagina, “Fedele all’Italia e all’Urss, nel 1956 (VIII congresso) fu vivace fautore della “destalinizzazione” e lanciò la linea della “via italiana al socialismo”: “un regime di democrazia progressiva che attuasse un complesso di riforme della struttura economica e sociale, facendo accedere alla direzione del paese tutte le forze delle masse lavoratrici”” [www.palmirotogliatti.it].
[7] R. Gualtieri, La politica economica del centrismo, cit., p. 102. in Roberto Gualtieri, Giorgio Amendola dirigente del Pci.
[8] 18,9% (1948), 22,6% (1953), 22,7% (1958), 25,3% (1963), 26,9% (1968), 27,1% (1972), 34,4% (1976) [elezioni politiche].
[9] Componente del PCI (animata da Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Lucio Magri) espulsa dal partito nel 1969.
[10] Cfr. Karl Marx, Prefazione del ’59 a Per la critica dell’economia politica.
[11] Un inciso sul tema dello “sviluppo delle forze produttive”. Quando parliamo di “forze produttive che non riescono a svilupparsi” non ci si deve riferire solo allo sviluppo della produzione o della tecnologia (in parte anche a questo), secondo una lettura di stampo economicistico. Pensiamo alla scienza e in particolare alla medicina. Lo sviluppo della medicina è favorito dalla natura capitalistica dei rapporti sociali? In certa misura sì, evidentemente; ma questo sviluppo è completo, arriva fin dove potrebbe arrivare? Evidentemente no, perché l’investimento che i paesi capitalistici fanno nella ricerca scientifica e medica è limitato dalla necessità di destinare risorse ad altri settori capitalistici (come quello militare) che non avrebbero ragione di esistere in una società comunista. Non è forse ipotizzabile che l’aumento delle spese in armamenti a discapito di quelle sociali generi una contraddizione derivante dalla natura del modo di produzione capitalistico? E non è lecito pensare – diciamo pure anche verificare storicamente – che ad un certo livello di sviluppo questa contraddizione esplode in forma di rivoluzione sociale? La rivoluzione russa non è le perfetta esemplificazione tanto della contraddizione di cui sopra (i Soviet che sostengono i bolscevichi e abbandonano i partiti social-democratici perché questi proseguono la guerra imperialista, non distribuiscono la terra ai contadini, affamano il popolo), quanto del fatto che la rivoluzione diventa credibile a livello di massa quando la prospettiva indicata dalle forze riformiste si rivela fallimentare?
[12] Il 9 maggio 1980 la FIAT annuncia la cassa integrazione per 78.000 operai e successivamente la richiesta di licenziamento per 24.000. Inizia una lotta sindacale che durerà per 5 mesi e culminerà con 35 giorni di occupazione. Alla fine i “colletti bianchi” della Fiat, organizzati dall’allora Responsabile del personale Callieri, si mobilitano contro i lavoratori in lotta convocando un’assemblea pubblica, il 14 ottobre 1980, al teatro Nuovo di Torino e un corteo successivo che passerà alla storia come la “marcia dei 40.000”. Si disse che quel corteo fosse il segnale che la città di Torino aveva abbandonato gli operai, ma il PCI poteva rispondere facendo sfilare nella città centinaia di migliaia di lavoratori a sostengo dell’occupazione alla FIAT.
[13] «Compagni, anni di lotte quotidiane su tutti i problemi della nostra vita produttiva e sociale, danno finalmente un primo e rilevante risultato: lo stato dell’ordine e della strage è sconvolto da contraddizioni non risolvibili e la crisi di regime è ormai prossima al punto di tracollo. Ministri, Generali, Ricchi industriali, Parassiti e Benpensanti sentono con angoscia che il tempo sta cambiando, che si avvicina la primavera di una forte resistenza; di una profonda rivoluzione sociale» (Nuova resistenza, aprile 1971, cit. in Soccorso Rosso, Brigate rosse. Che cosa hanno fatto, che cosa hanno detto, che cosa se ne è detto, pag. 90). Da osservare che questa impostazione fu successivamente rettificata, ma le prime azioni delle BR furono simili ad una sorta di “sindacalismo armato” (si pensi al sequestro di Amerio e alla richiesta – accolta – di ritiro delle CIG all’Alfa). Diciamo che, in generale, tutta la fase della “propaganda armata” così come l’esperienza della Colonna “Walter Alasia” è caratterizzata di un’impostazione di carattere rivendicativo da realizzarsi attraverso la LA.
[14] cfr Antiper, Schede per la critica dell’economia politica. 1. PIL mondiale 1950-2001, www.antiper.org e Angus Maddison, The World Economy. Historical statistics, Development Centre Studies, OECD, 2003. Cfr. anche, ad esempio, Paolo Giussani, Il Prodotto Mondiale Lordo (PML) nel Dopoguerra [http://www.countdownnet.info]: “Quali che siano le fonti dei dati e il metodo usato per convertire le divise nazionali in una divisa unica, il PML mostra una tendenza declinante a partire dagli anni ’70”. Quella del PML è solo una delle tante analisi che si potrebbero e dovrebbero considerare, ma ha il pregio della semplicità e di prendere a riferimento un indice globale (la somma dei PIL nazionali).
[15] Qui è impossibile (e andrà fatto in altra occasione), ma sarebbe importante approfondire il tema dell’incapacità del modo di produzione dell’epoca di transizione in URSS (oggetto per molto tempo di analisi e scontro teorico – socialismo, stato operaio degenerato, capitalismo di stato, capitalismo “tout court”…) di riprodurre sé stesso in quanto modo di produzione.
[16] Il movimento no global: nessun movimento nella storia dell’umanità ha prodotto così tante parole e così nessun risultato pratico. La vescica più gonfia che si sia mai vista
[17] Bello e possibile. Riflessioni su comunismo e utopia. www.antiper.org.
[18] Ed infatti dal massimo storico del 1976 (34,4%) il PCI passerà successivamente ai risultati: 30,4% (1979), 29,9% (1983), 26,6% (1987) con, tra l’altro, un effetto freno dovuto alla morte di Berlinguer nel 1984 (che infatti aveva riportato il PCI al 34% nelle Europee di quell’anno).
[19] Già sperimentata con risultati elettorali non brillanti all’indomani della Liberazione.
[20] Qualcuno potrebbe dire che già l’alleanza interclassista nei CLN della Resistenza può essere considerata il prodromo di future alleanze: questa sarebbe la ragione per cui gli operai difendevano le fabbriche durante la ritirata dei tedeschi. Al contrario, la difesa delle fabbriche è l’espressione della convinzione che domani, dopo la vittoria, saranno i comunisti alla guida del paese e quindi avranno bisogno delle fabbriche per dirigerle e per distribuirne i frutti al popolo.
[21] Al Palazzo dei Congressi dell’EUR a Roma, il 13 febbraio 1978, si apre la Conferenza Nazionale dei consigli generali e dei quadri della federazione unitaria di CGIL, CISL e UIL in cui viene assunta una linea sindacale alla cui base c’è la disponibilità a contenere le richieste salariali “per superare la crisi economica”. E’ l’avvio della “politica dei sacrifici” nel quadro della “solidarietà nazionale” che avrebbe dovuto condurre i comunisti al governo.
[22] Che non a caso si rifacevano alla tradizione amendoliana del PCI, quella che al “patto dei produttori” aveva già guardato in anni precedenti.
[23] “La dittatura proletaria può incarnarsi in un tipo di organizzazione che sia specifico dell’attività propria dei produttori e non dei salariati, schiavi del capitale. Il Consiglio di fabbrica è la cellula prima di questa organizzazione”, Antonio Gramsci, Sindacati e Consigli in L’Ordine Nuovo, 11 ottobre 1919.
[24] Un salto di qualità del “patto dei produttori” sarebbe stato successivamente quello di ampliare l’alleanza dagli industriali alla finanza; con la privatizzazioni negli anni ’90 delle banche che erano ancora sotto il controllo dello Stato il centro-sinistra ha cercato di costruire un proprio potere finanziario indiretto (riuscendoci benissimo, come dimostra il fatto che Passera e Profumo si sono persino messi in coda ai gazebo nelle primarie dell’Unione) e diretto (riuscendoci meno bene, come dimostra la vicenda Unipol-BNL-Fazio). Vale la pena sottolineare l’enorme gravità dal punto di vista culturale della scelta di chiamare operai, precari, studenti, proletari a mettersi in fila assieme a Bazoli, Profumo, Moratti… operata dal PRC e dai disobbedienti-“senza volto” che presentavano propri candidati alla leadership dell’Unione, la “grande famiglia”, appunto unita.