Antiper | Il ciclo sgonfiato. Introduzione
Antiper, Il ciclo sgonfiato. Riflessione aperta sulla situazione politica italiana, dopo le elezioni del 13-14 aprile 2008, Prima edizione: agosto 2008, Riformattato nel luglio 2014 per la raccolta Quattordici anni.
Come recita il sottotitolo, questo contributo intende essere una riflessione aperta sul risultato elettorale e sulla situazione politica italiana; non c’è alcuna velleità di esaurire le questioni o di offrirne un’interpretazione dogmatica. Al contrario, l’ambizione è piuttosto quella di proporre un’ipotesi di lavoro da verificare, approfondire, confrontare e mettere in relazione con altre riflessioni (e con altri testi [1] elaborati nell’ambito di un percorso di analisi e di iniziativa politica avviato ormai da alcuni anni).
La frana del 13-14 aprile scorso ha messo a nudo la crisi della sinistra sedicente radicale o arcobaleno. Questa crisi non è un “incidente di percorso” perché le sue ragioni, come cercheremo di evidenziare nel seguito, non sono puramente congiunturali, ma vengono da lontano. In estrema sintesi, possiamo dire che la crisi della sinistra arcobaleno è un episodio della più generale crisi di credibilità del riformismo che a sua volta è determinata dalla più generale crisi politica ed economica del capitalismo [2].
Quando nel seguito useremo il termine riformismo ci riferiremo sempre all’idea di una trasformazione in senso progressivo della società, da realizzarsi attraverso lo sviluppo di riforme (politiche, sociali, culturali…) sempre più avanzate. Oggi, purtroppo, la neolingua imperante vorrebbe imporci di considerare “riformiste” anche proposte che hanno prodotto e producono l’arretramento delle condizioni materiali e il restringimento dei diritti sociali di settori sempre più ampi della classe lavoratrice. Noi, queste “riforme all’indietro”, le chiamiamo contro-riforme.
Tutta la storia del movimento operaio è caratterizzata dallo scontro tra “riformisti” e “rivoluzionari”; gli uni, convinti di poter accedere al socialismo attraverso il miglioramento delle condizioni materiali e l’allargamento dei diritti civili e “democratici”; gli altri, consapevoli che ogni grande riforma si realizza solo quando le classi dominanti si trovano di fronte alla scelta tra il dover perdere qualcosa e il rischiare di dover perdere tutto. I primi, fiduciosi che le lotte sindacali e le vittorie elettorali avrebbero condotto la “sinistra” al governo; gli altri, persuasi che l’eventuale conquista del governo di un paese capitalista è cosa ben diversa dalla conquista rivoluzionaria del potere politico da parte delle masse popolari e che questa conquista è il passaggio necessario per consentire l’avvio della transizione dal capitalismo al socialismo – l’unica vera “riforma di struttura” [3] -.
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Massimo Bontempelli e Marino Badiale scrivono che la “sinistra” è divenuta incapace di lottare per l’emancipazione dei “ceti subalterni” perché con la globalizzazione sviluppo ed emancipazione si sono separate
“La fase storica che, utilizzando termini imprecisi ma ormai di uso comune, viene chiamata “globalizzazione” o “neoliberismo” rappresenta, fra le altre cose, il momento in cui sviluppo ed emancipazione si separano e si contrappongono” [4].
Dalla convinzione errata che, prima di questa fase storica, l’emancipazione degli oppressi fosse il prodotto necessario dello sviluppo capitalistico, Badiale e Bontempelli traggono la conclusione ancora più errata che il compito di chi si colloca contro il sistema sociale esistente non sia, né quello di ipotizzare i tratti fondamentali una società dialetticamente alternativa al capitalismo né, tanto meno, quello di costruire un partito comunista che possa essere strumento intellettuale ed organizzativo della lotta per la realizzazione di tale prospettiva; i “nostri compiti” dovrebbero essere quelli di esprimere il nostro dissenso rispetto alle devastazioni territoriali prodotte dallo sviluppo (TAV, Mose, ponte sullo stretto, rigassificatori, ecc…) indicando come alternativa la cosiddetta decrescita.
Per capire la confusione globale di Bontempelli e Badiale basti citare il passo seguente:
“L’opposizione da parte degli abitanti del territorio attaccato è dunque naturale e istintiva, non necessariamente derivante da opzioni politiche e ideologiche generali, ma, questo è il punto cruciale, essa va nella direzione della critica dello sviluppo, anche se i suoi attori possono non averne coscienza. Con questo intendiamo dire che la prospettiva della critica dello sviluppo è l’unica che renda coerenti queste lotte, dando ad esse un valore e una prospettiva generali. Al di fuori di tale prospettiva, queste lotte possono essere facilmente criticate e isolate indicandole come espressione di egoismi locali che devono cedere il passo all’interesse generale. La risposta a questa critica sta appunto nell’indicare il rifiuto dello sviluppo, cioè la decrescita, come interesse generale del paese”.
Prima si dice che le lotte contro la TAV o contro il Mose sono oggettivamente “critiche dello sviluppo”, indipendentemente dalla coscienza che ne hanno “gli attori” che le conducono [5]; poi, però, si aggiunge che se le lotte non sono coscientemente critiche allora possono essere criticabili. Lasciamo perdere in nome di cosa si cerca la difesa dall’ipotetica critica – l’“interesse generale del paese” – perché sembra di sentir parlare Veltroni…
A differenza di Badiale e Bontempelli riteniamo invece che al capitalismo e al suo “modello di sviluppo” debba essere contrapposta anzitutto un’alternativa di società; non un generico “altro mondo possibile”, ma una società comunista pensata dialetticamente come negazione e al tempo stesso sviluppo della società esistente [6] perché solo in un modo di produzione in cui non sia il profitto la “pietra angolare” delle relazioni sociali è possibile pensare uno sviluppo compatibile con gli interessi delle masse popolari; nel modo di produzione capitalistico, lo sviluppo può essere compatibile solo con il profitto.
Non è nostra intenzione analizzare le proposte sulla decrescita che pure vanno tanto di moda tra alcuni intellettuali pentiti “di sinistra” (e di destra, come Alain De Benoist): ci basti solo dire che proporsi di invertire il funzionamento del modo di produzione capitalistico o anche solo di limitarne gli effetti rallentandone lo “sviluppo” equivale – aldilà della coscienza che possono averne gli attori – ad oscillare tra i due estremi culturali su cui si è intrattenuto il no-globalismo: proposte riformiste ultra-moderate o semplici chiacchiere.
Quanto poi all’ipotesi di un piano di riduzione concordata e generalizzata dello sviluppo capitalistico mondiale è chiaro che qui nessuno ha mai sentito parlare di anarchia della produzione capitalistica o di riproduzione del modo di produzione. Il modo di produzione capitalistico non può essere regolato in modo armonico per evitare le proprie crisi (industriali, finanziarie, ambientali, alimentari…) e tanto meno può essere costretto o indotto, per ridurre le ingiustizie sociali e tutelare la vita sul pianeta, a funzionare inversamente a come funziona. Ed è proprio questo che testimonia a favore della necessità storica del superamento del capitalismo, indipendentemente dal fatto che tale superamento sia pensabile come all’ordine del giorno o meno.
Considerare prioritaria, per evidenziare la “negatività” dell’attuale modo di produzione, la costruzione di un tunnel tra Torino e Lione, piuttosto che il fatto che tale sistema condanna a morire per fame, guerre e malattie centinaia di milioni di persone ogni anno, costringe miliardi di esseri umani a vivere in società militarizzate, prive di libertà, di uguaglianza, di diritti sociali, di garanzie per la salute e la vita dei lavoratori (110 milioni di morti sul lavoro ogni anno nel mondo), sottomette “manu militari” popoli interi agli interessi geo-politici dei gruppi imperialisti, produce una devastazione ambientale di ben altre proporzioni che non in Val di Susa, distrugge interi eco-sistemi e minaccia persino il futuro del pianeta… ci sembra ben più che discutibile. E ci sembra, di conseguenza, ben più che discutibile impegnarsi solo o principalmente contro TAV, Mose e altre installazioni inutili o nocive (di cui, ovviamente, bisogna occuparsi) senza impegnarsi anche contro tutto il resto e, di conseguenza, contro la natura stessa del modo di produzione capitalistico e per una società comunista ad esso alternativa: anti e per.
Ma anche ammesso per assurdo che il problema principale nelle moderne società capitalistiche fosse quello della realizzazione di grandi opere neo-keynesiane come la TAV o il Mose non si capisce una cosa: o queste opere sono sostanzialmente inutili e lo sviluppo può anche farne a meno (e allora è illusorio pensare di colpire strategicamente lo sviluppo solo attraverso la lotta contro tali opere) oppure sono indispensabili e allora non si capisce come si possa realizzare l’obbiettivo di impedire la loro costruzione (a Bontempelli e Badiale non sarà sfuggito il fatto, fra l’altro, che TAV e Mose sono già in costruzione) senza mettere strutturalmente in discussione l’ordinamento sociale, economico, politico e militare esistente: se qualcuno pensa di fare questo con le bandiere della pace, con i comitati ecologisti, con le passeggiate o le mailing list “no global”…, faccia pure, sognare ad occhi aperti non costa nulla.
E soprattutto. Si può mettere davvero in discussione un modo di produzione senza pensarne uno ad esso realmente alternativo che non sia la semplice critica degli effetti più devastanti di quello esistente? Non è stata per qualche anno, questa, l’illusione post-riformista dei “no global”, criticare verbalmente gli effetti del cosiddetto neo-liberismo senza combattere concretamente il funzionamento del capitalismo della fase imperialista (di cui “neo-liberismo” e globalizzazione – ammesso e non concesso che i termini siano opportuni – non sono che forme storiche)?
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Siamo partiti da questo piccolo esempio per evidenziare come anche sotto le bandiere del movimentismo post-moderno neo-ecologista – che ci viene propinato oggi come la nuova frontiera della critica al capitalismo – si nasconda una concezione economica neo-romantica [7] ed una concezione politica neo-riformista.
Lo vedremo anche più avanti. Malgrado la crisi di credibilità che il riformismo attraversa nel rapporto con le masse, esso possiede ancora una indubbia egemonia culturale su la larga parte di quel movimento che, pur ri-combinandosi nelle più svariate forme, continua a definirsi “di sinistra” o addirittura “anti-capitalista”.
La critica riformista all’ipotesi rivoluzionaria, in fondo, è sempre stata molto semplice: meglio un (concreto) uovo oggi che una (ipotetica) gallina domani. Meglio un piccolo, ma tangibile, miglioramento sociale o salariale che cento discorsi sulla rivoluzione… Bene. Ma cosa succede quando i “concreti” non portano a casa nessun risultato concreto? Succede che cento discorsi sulla rivoluzione valgono quanto un milione di discorsi sui risultati concreti. Si presenta così la singolare situazione per cui quanto maggiore è il richiamo al concreto, tanto minore è il “concreto concretizzato”.
Naturalmente, la sempre minore credibilità delle proposte riformiste non rende automaticamente più credibili le proposte rivoluzionarie. Diciamo che crea le condizioni affinché ciò possa avvenire, ma che non c’è nessun automatismo; ed infatti ci troviamo in una situazione caratterizzata da una diffusa perdita di credibilità tanto della proposta riformista, quanto di quella rivoluzionaria.
Il peggioramento delle condizioni sociali ed economiche fa aumentare il disagio, il malcontento, l’insicurezza sociale… in settori popolari sempre più vasti, ma che questo disagio debba prendere necessariamente la strada di una critica anti-capitalista – o, più ancora, comunista – è solo il frutto di una supposizione economicistica in cui la coscienza oscilla inversamente con il livello della busta paga o del conto corrente.
Per capire che le cose non stanno così basta analizzare la situazione che abbiamo di fronte in cui si profila sempre più chiaramente la minaccia di una deriva culturale di massa che al momento tende ad essere, più che altro, qualunquista [8], ma potrebbe anche essere diretta in senso reazionario (e quello che sta accadendo negli ultimi mesi con i pogrom anti-rom e l’ossessione degli immigrati e della sicurezza ci suonano un chiaro campanello d’allarme).
Chi rifiuta questa evidenza (l’egemonia culturale del capitalismo sulle masse popolari) cullandosi in analisi auto-consolatorie sui risultati elettorali del 13 e 14 aprile farebbe meglio a ricordare Gramsci e la sua analisi delle “rivoluzioni passive”. Se aspettiamo il fez o l’olio di ricino per riconoscere il pericolo di una deriva reazionaria delle masse popolari probabilmente non abbiamo capito davvero nulla della lezione della storia.
Può apparire paradossale, ma una lucida diagnosi del problema che stiamo analizzando l’ha fatta di recente Fausto Bertinotti
“Perché il malcontento ha un esito di destra? Secondo me è sbagliato dire che è colpa della forza della destra [o che] è colpa delle nostre insufficienze. Bisogna indagare a fondo questo passaggio storico. Quando un operaio di Brescia prende la tessera della FIOM e vota Lega non è uno sciocco, non è uno stupido, non è un traviato, è uno che ragiona secondo una convenienza attesa e noi siamo in grado di disgregare questa attesa e costruirne una nuova oppure quello continuerà a votare Lega” [9]
Appunto. L’operaio FIOM di Brescia vuole salario, diritti, servizi sociali… Siccome la “sinistra” – parlamentare e sindacale – non offre che sacrifici “per il bene del paese” (o, per meglio dire, delle imprese) [10], laddove invece la Lega offre almeno l’illusione credibile che attraverso il federalismo fiscale “i soldi del nord restano al nord” e attraverso il giro di vite sull’immigrazione si può abbassare la concorrenza tra poveri (“il lavoro, le case, le scuole, gli asili, gli ospedali… prima agli italiani”), l’operaio del nord vota Lega (e in massa, perché la Lega è da anni il partito più operaio d’Italia, ovvero è il partito che ha la più alta percentuale di operai nel suo elettorato [11]).
Manca, nella riflessione di Bertinotti, l’esplicitazione della conseguenza politica del proprio ragionamento: se voglio essere credibile come forza riformista devo dimostrare che sono capace di strappare risultati concreti a favore delle masse; ma siccome non ho, né la forza politica, né la forza sociale, di realizzarli devo a tutti i costi cercare di ottenerli attraverso l’alleanza con i partiti confindustriali.
Ecco com’è che partiti che si dichiarano verbalmente dalla parte dei lavoratori finiscono per diventare gli zerbini di partiti che stanno concretamente dalla parte dei padroni. L’alleanza con il PD non è un optional, ma un’esigenza ineludibile per i partiti della SA. Un “partito riformista di opposizione” ha senso solo se ha una forza politico-sociale enorme e in un contesto economico di crescita; piccoli partiti riformisti di opposizione non sono che partiti di testimonianza: e il richiamo ossessivo alla “concretezza” non si può “testimoniare” altrimenti che concreto è?
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In una bellissima frase del Manifesto del partito comunista Marx riassume indirettamente la differenza tra una concezione riformista ed una concezione rivoluzionaria
“Di quando in quando gli operai vincono, ma solo in modo effimero. Il vero risultato delle loro lotte non è il successo immediato, ma l’unione sempre più estesa degli operai” [12].
Dunque, quando si dice “la lotta paga”, si dovrebbe dire meglio: “di quando in quando la lotta paga…” e avere ben chiare due cose:
1) che l’obbiettivo delle lotte non può essere – né solo, né tanto – il raggiungimento di risultati “concreti”, specialmente quando i risultati “concreti” sono quasi impossibili, ma la trasformazione delle singole lotte parziali in lotta di classe generale (dunque in coscienza anticapitalista [13]) senza la quale i singoli risultati parziali, ove anche realizzati, sono destinati inevitabilmente ad essere persi successivamente [14] (sono effimeri);
2) che la necessità storica di una strategia rivoluzionaria deriva proprio dalla impossibilità strutturale di una progressione indefinita di conquiste riformiste (in questa fase, si dovrebbe dire, la difficoltà anche solo a frenare l’offensiva contro-riformatrice).
Naturalmente, dobbiamo rifuggire dalla tentazione di affidarci a certe semplificazioni fuorvianti che il risultato del voto di aprile potrebbe suggerire. La “crisi del riformismo” in Italia (e, in genere, in “Occidente”) è una crisi reale in atto da molti anni e su cui si è molto parlato, talvolta a proposito, altre volte meno. Questa crisi segna, con la scomparsa della “sinistra” dal Parlamento, un passaggio manifesto; ma questo non significa che i partiti della SA non esistano più e che non possano continuare a svolgere ancora per un certo tempo, in cambio di qualche briciola di potere, magari locale, il loro ruolo di “pompieri” [15] del capitalismo italiano.
Non significa neppure che sia immediatamente e definitivamente scomparso uno spazio elettorale. Le politiche anti-popolari di Berlusconi e la finta opposizione di Veltroni produrranno malcontento in alcuni settori elettorali e questo, combinato con la recita di qualche finta autocritica [16], potrebbe far riguadagnare qualche effimero consenso ai partiti della SA, almeno nel breve termine.
Ma ormai siamo, comunque, ai titoli di coda.
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Spesso, in una situazione di crisi, si è indotti a ripensare le proprie scelte e a rimettere in discussione le proprie certezze; qualche simpatizzante della Sinistra Arcobaleno si domanderà quanto fosse davvero giusta la strada seguita in omaggio ad alcuni pilastri del luogo–comunismo (se non si vota si avvantaggia la destra; le battaglie si fanno dentro il partito; bisogna essere uniti altrimenti siamo deboli; chi comanda veramente non è Berlusconi, ma il fascista Fini; dobbiamo contare e non solo protestare; Berlusconi fa solo i suoi interessi, è amico di Bush e di mafiosi, ha le televisioni; quelli della Lega sono razzisti; gli italiani pensano solo al telefonino, a Sky e al calcio e così via…). Il dubbio è certamente il primo indispensabile passo di ogni processo di sviluppo della coscienza. Ma il dubbio, di per sé stesso, non produce alcuna trasformazione progressiva; più spesso, produce fenomeni come l’abbandono dell’attivismo, ma anche, all’opposto, lo “scatto di orgoglio” nell’ora della sconfitta, ma anche la blindatura prima e dopo l’ennesimo congresso “di svolta”, ma anche l’indisponibilità a riconoscere l’errore, ma anche la crescita di un sentimento ostile verso gli elettori “che non capiscono”, ma anche il rancore contro gli italiani che “hanno dimenticato il fascismo”, ma anche la disillusione verso gli operai che si sono imborghesiti, ma anche la convinzione che tutto è cambiato e il ‘900 deve essere superato, ma anche la necessità di nuovi linguaggi, ecc… “Ma anche”.
Probabilmente, se esistesse un’autorevole proposta politica alternativa, questa potrebbe rivelarsi una situazione non sfavorevole per i comunisti perché, come cercheremo di dimostrare, l’opzione rivoluzionaria non cresce come “di più” dell’opzione riformista, ma come alternativa al fallimento di quest’ultima. E noi siamo proprio nel pieno del fallimento dell’ipotesi riformista.
Purtroppo, una proposta politica alternativa sufficientemente autorevole attualmente non esiste e probabilmente, ancora per un certo tempo, non esisterà; farsi soverchie illusioni sull’esito dell’attuale “dibattito” sull’unità dei comunisti significa essere destinati a cocenti disillusioni.
Ciò non significa, ovviamente, che non si debba lavorare nella direzione dell’unità dei comunisti, al contrario; l’unità dei comunisti – ovvero la ricostruzione del partito comunista – è il nostro primo e fondamentale compito di fase. Ma per costruire un’unità vera, solida, capace di reggere le tante temperie a cui un movimento autenticamente rivoluzionario è destinato, non basta dire cento volte “unità”: bisogna scegliere la giusta strada e, ovviamente, i giusti compagni di strada.
Note
[1] Seminare per raccogliere. Contributo al dibattito per la ricostruzione del partito comunista, agosto 2000; I nostri compiti nell’immediato… ma non troppo, 2004-2005. La pace nell’urna in Controvento n.8-9, 2004-2005; Riflessioni sul movimento altermondialista in Controvento n.10, maggio 2005; ANSWER is not the answer. Riflessioni su pacifismo, antimperialismo e guerra alla vigilia dell’attacco all’Iraq, gennaio 2003; Introduzione a La volante rossa, 2002; Bello e possibile. Riflessioni su comunismo e utopia, 2006. Tutti i testi sono scaricabili da www.antiper.org.
[2] Per approfondimenti sulle crisi cfr. Seminare per raccogliere, II. L’analisi della fase, Autoproduzioni, 2000.
[3] Riforme di struttura erano chiamate le riforme che, secondo il PCI, avrebbero permesso di inserire “elementi di socialismo” all’interno del capitalismo italiano, tanto da prefigurare il suo superamento in una forma di stato socialista. “A dicembre [1956] si tiene l’VIII Congresso del PCI, che indica la via italiana al socialismo con l’obiettivo della trasformazione socialista del Paese, alla quale è possibile pervenire attraverso obiettivi transitori, riforme di struttura e riforme politiche, in nome delle quali è necessario costituire un vasto e differenziato blocco di forze sociali e politiche, secondo la tematica gramsciana delle alleanze”, in Il Partito Comunista Italiano. Cronologia: dal PCI ai DS, www.storiaXXIsecolo.it.
[4] Massimo Bontempelli – Marino Badiale, Prima che sia troppo tardi, Pisa-Genova, maggio 2008.
[5] Come i sindaci pd-ini e leghisti della Val di Susa? O come i cittadini che non vogliono gli inceneritori sotto casa propria (perché temono la riduzione del suo valore commerciale), ma accettano di buon grado l’inceneritore sotto la casa di qualcun altro?
[6] Perché riteniamo (diversamente da quanto fanno ad esempio gli estremisti anarco-primitivisti della decrescita) che anche con il capitalismo gli uomini abbiano costruito, oltre alle miriadi di opere inutili e dannose, anche cose utili da preservare.
[7] Nel senso indicato da Lenin nel suo Sul romanticismo economico.
[8] Il qualunquismo fu un movimento politico sorto attorno alla rivista L’uomo qualunque fondata nel 1944 da Guglielmo Giannini che si caratterizzò per posizioni come “la lotta al comunismo, la lotta al capitalismo della grande industria, la propugnazione del liberismo economico individuale, la limitazione del prelievo fiscale, la negazione della presenza dello Stato nella vita sociale del paese” (cit. da Wikipedia) e che successivamente confluì in buona parte nel nascente MSI.
[9] Intervento di Fausto Bertinotti al VII Congresso del PRC, Chianciano, 27 luglio 2008.
[10] Basti solo ricordare un esempio tra tutti, la tassa per Maastricht. Di certo non la più onerosa, ma di sicuro la più paradigmatica della natura euro-tecnocratica del governo Prodi che mentre massacrava i lavoratori italiani con il Pacchetto Treu, li tassava per costringerli ad aderire alla costruzione di un polo imperialista europeo anti-popolare a anti-operaio.
[11] Cfr Paolo Feltrin, Le elezioni politiche 2008. Le basi sociali del voto. 17 giugno 2008, IRES. Tavola 26: voto per professione (composizione)
[12] Karl Marx, Manifesto del partito comunista, I. Borghesi e proletari.
[13] Il passaggio dalla lotta del singolo gruppo di operai contro il singolo padrone alla lotta di tutti gli operai contro tutti i padroni.
[14] In questo senso appare evidente come l’attuale proposta di riforma del modello della contrattazione, accelerata dall’approvazione da parte delle segreterie di CGIL-CISL-UIL, il 7 maggio 2008, di un documento che prevede lo spostamento di baricentro dal primo livello (contrattazione nazionale) al secondo (contrattazione decentrata) sia, tra le tante altre pessime cose, anche un modo ulteriore per parcellizzare le lotte sindacali e quindi per ridurre il riconoscimento reciproco dei lavoratori in classe.
[15] In politichese, i pompieri sono quelli che vengono inviati a spegnere gli incendi sociali e politici affinché non si espandano.
[16] Peraltro già in atto, tanto che i recenti congressi di PdCI e PRC sono finiti con la sconfitta delle frazioni più apertamente governiste (Belillo e Vendola).