Marco Riformetti | Da Genova 1960 a Torino 1962
Tratto da Marco Riformetti, Tutti dentro con il biglietto del movimento. Gli “autoriduttori” nelle controculture giovanili degli anni ‘70, Tesi di laurea magistrale in “Sociologia e ricerca sociale”, maggio 2022
Il decennio che precede la nascita del movimento per le autoriduzioni – ovvero gli anni ‘60 – è importante da molti punti di vista e si presenta sin dall’esordio con grande radicalità, segnato com’è da due eventi di piazza che assumeranno un significato simbolico molto rilevante nella storia dell’Italia contemporanea: il primo evento è quello che riguarda gli scontri del luglio 1960 a Genova e nel resto d’Italia (con le tragiche conseguenze che ne seguiranno), mentre il secondo riguarda gli scontri del 1962 in Piazza Statuto a Torino dove migliaia di giovani, principalmente operai FIAT, danno vita a duri scontri con la polizia.
È proprio nel corso degli anni ‘60 che si consolida – peraltro in modo molto contraddittorio – la risalita del movimento operaio italiano, reduce da anni molto difficili durante i quali i lavoratori hanno subito molte prepotenze. Si pensi a casi come quello della FIAT dove nel 1952 vengono istituiti veri e propri reparti confino per i lavoratori più combattivi in modo da tenerli separati dalla massa dei lavoratori e sterilizzare la loro influenza (ACCORNERO, REISER [1981]).
La risalita della classe operaia nella prima metà degli anni ‘60 è collegata anche ad un ben preciso fattore storico – il cosiddetto “miracolo italiano” – grazie al quale si determina un significativo incremento della forza strutturale dei lavoratori che a sua volta spinge la crescita della loro forza associativa [1]; la situazione tornerà complessa alla metà degli anni ‘60 quando si presenta un’inaspettata crisi economica che indebolisce il movimento sindacale in quanto lo costringe a posizionare le rivendicazioni sul piano occupazionale piuttosto che su quello salariale e dei diritti.
Sarebbe tuttavia un grave errore ritenere che la forza dei lavoratori dipenda deterministicamente solo dalla congiuntura economica. La verità è che nonostante alcuni passaggi importanti il movimento sindacale italiano resta per lungo tempo troppo debole e si dovrà aspettare l’“autunno caldo” (ovvero la tornata di rinnovi contrattuali della fine degli anni ‘60) per assistere ad un radicale cambiamento della situazione.
Nel 1960 lo schema politico che ha governato l’Italia fino a quel momento è entrato in crisi. La DC non riesce a formare una maggioranza parlamentare e decide di varare un governo monocolore, affidato a Fernando Tambroni, che nasce con l’ostilità dei precedenti alleati (PSDI, PLI) e delle precedenti opposizioni (PCI, PSI), ma con il sostegno esterno del Movimento Sociale Italiano (MSI) [2], il partito che si propone come erede del fascismo. C’è sicuramente l’impellenza di dar vita ad un Governo che possa gestire le imminenti olimpiadi romane; ma si tratta anche, evidentemente, di un esperimento [3] per capire se esiste la possibilità di praticare un’alternativa allo schema politico precedente.
Il MSI, in cambio dell’appoggio al Governo, ottiene la garanzia di poter tenere il proprio congresso nazionale a Genova provocando la reazione della città (Medaglia d’oro della Resistenza) e dell’intero movimento antifascista. Tambroni allerta polizia ed esercito per difendere i fascisti, ma la reazione popolare è talmente poderosa da assumere caratteri quasi insurrezionali. Del resto sono passati appena 15 anni dalla Liberazione e il sentimento antifascista è ancora vivissimo; alla fine della guerra i partigiani genovesi non hanno consegnato tutte le armi e quelle che erano state nascoste vengono “dissotterrate” in vista dello scontro.
La reazione popolare spacca il Governo che cade il 26 luglio, ma durante le proteste che dilagano in tutta Italia e alle quali partecipano decine e decine di migliaia di persone la polizia picchia selvaggiamente e spara ad altezza uomo uccidendo 13 manifestanti. Più di cento i feriti. L’eccidio più clamoroso è quello di Reggio Emilia in cui le forze dell’ordine assassinano cinque comunisti e antifascisti. 4 i morti in Sicilia.
Qualcuno ha detto che se il luglio 1960 costituisce una forma di lotta ancora di tipo classico, inscritta in uno schema di tipo popolare-resistenziale contro il neofascismo (e contro la DC che lo protegge), lo scontro che ha luogo due anni dopo in Piazza Statuto a Torino è invece una forma di lotta di tipo nuovo della quale sono protagonisti operai giovani, molti dei quali di provenienza meridionale e non specializzati, che entrano in conflitto con le proprie stesse organizzazioni (DEL CARRIA [2020]).
Il 1962 è un anno di rinnovi contrattuali per le fabbriche di Torino. La situazione sindacale non è semplice e i lavoratori vengono da “dieci anni di strapotere padronale” (QUADERNI ROSSI [1962b]). Anche alla FIAT i lavoratori sono in difficoltà tanto è vero che nelle precedenti elezioni delle Commissioni Interne i sindacati più allineati (SIDA e UIL) hanno raccolto oltre il 62% dei consensi. La crisi attraversata dai lavoratori della maggiore impresa industriale italiana si fa sentire ancora nella prima fase della vertenza durante la quale a muoversi sono quasi esclusivamente i lavoratori delle altre fabbriche di Torino; questi lavoratori sono tuttavia consapevoli che senza la mobilitazione degli operai FIAT la partita è compromessa; per questa ragione si danno appuntamento davanti ai cancelli di Mirafiori per formare picchetti molto combattivi
«“La prima giornata di lotta nazionale dei metalmeccanici è fatta, alla Fiat, dai 100.000 operai delle altre fabbriche che scioperano. Gli operai della Fiat attraversano Torino in sciopero sui tram deserti, gli altri operai li insultano, lanciano contro di loro pezzi di pane e monetine. […] Sin dal mattino questi operai sono davanti ai cancelli per insultarli, senza mezzi termini e senza falsi richiami di solidarietà per questa ‘massa di molluschi’”» (LANZARDO [1979])
In questo momento la lotta non è solo contro la FIAT, ma anche contro i lavoratori della FIAT
«Dal primo giorno si verifica quel che è la costante più importante dell’azione operaia alla Fiat, il picchettaggio, che in questa prima giornata di sciopero va visto come picchettaggio generale, diretto e indiretto, degli altri operai di Torino verso la Fiat, di tutta la massa operaia della città sugli operai Fiat che entrano in massa a lavorare» (Ibidem)
Alla fine anche la FIAT scende in lotta. Si comincia il 19 giugno con lo “sciopero dei 7.000” al quale partecipano solo le avanguardie: ma è l’azione che “rompe il ghiaccio” (CANTERI [2004]) dopo anni di arretramenti. Giugno è il mese durante il quale il risveglio del movimento operaio si completa. Viene convocato lo sciopero generale per il 7 luglio, ma UIL e SIDA firmano con l’azienda un accordo separato che punta a depotenziare lo sciopero facendo qualche concessione sul piano economico; l’operazione non funziona e lo sciopero riesce. L’house organ di casa Agnelli – «la Stampa» – accusa i lavoratori di aver picchiato troppo e la polizia di aver picchiato troppo poco
«L’azione dei picchetti ha raggiunto lo scopo: pochi operai e impiegati sono riusciti a passare attraverso gli sbarramenti» [4]
Non manca l’ipotesi del complotto ovvero che sia stato proprio il PCI a fomentare i disordini per reconditi interessi di tipo politico
«La UIL: “Le manifestazioni di vero teppismo e caccia all’uomo sono state capeggiate dal pci per minare alla base la formula del centro-sinistra”» [5]
La FIAT firma l’accordo separato con i sindacati gialli nella convinzione che passerà senza problemi tra i lavoratori. Ma i lavoratori non sono d’accordo con l’intesa e in alcune migliaia vanno a protestare a Piazza Statuto, presso la sede della UIL; molti di loro sono proprio iscritti di quel sindacato che non condividono la scelta della propria organizzazione. Secondo la ricostruzione de «l’Unità» [6] le proteste all’inizio sono vivaci, ma contenute in fischi e grida. La situazione cambia con l’arrivo del Battaglione Mobile di Padova “noto per le sue prodezze del luglio 1960 a Genova” che si mette a bastonare chiunque si trovi a tiro di manganello, provocando l’inevitabile reazione dei manifestanti a cui seguono fermi e arresti. È in questo clima di violenza (ma si dovrebbe dire di resistenza) che ha buon gioco, secondo «l’Unità», l’azione di “professionisti” della provocazione. La teoria che viene suggerita dal PCI (e dunque anche dalla Camera del Lavoro di Torino e da «l’Unità») è che i padroni hanno mandato i picchiatori “istituzionali” della polizia a provocare la manifestazione pacifica e i provocatori “professionali” per indirizzare la rabbia verso la violenza. Che dopo tanti anni di sopportazione molti lavoratori fossero pronti all’esplosione sociale anche senza la manipolazione di alcun “professionista”, in quel momento, al PCI non passa neppure per l’anticamera del cervello; al massimo, qualche voce più acuta coglie il legame tra i soprusi del padrone e la rabbia dei lavoratori
«di fronte a un padrone che dopo anni di intimidazioni, di licenziamenti politici, di premi antiscioperi, fa la serrata, poi cerca e firma l’accordo separato, si poteva pensare a uno sciopero come a un fatto di normale amministrazione?» [7]
Purtroppo, lo vedremo tra poco, anche buona parte di una certa sinistra intellettuale sembra non aver colto il senso degli eventi se è vero che arrivano scomuniche persino dalla redazione dei «Quaderni Rossi» (pubblicazione che si era candidata a sviluppare un’inchiesta operaia permanente sul campo). E uno degli elementi che dà senso agli eventi è quello che i manifestanti di Piazza Statuto sono in larga misura giovani, poco o neo sindacalizzati, soprattutto di origine meridionale e di recente immigrazione nella metropoli piemontese, ancora immuni rispetto al meccanismo di “economicizzazione del conflitto di classe”
«I processi paralleli dell’«oblio delle origini» e dell’incorporazione delle organizzazioni operaie nel sistema capitalistico […] si realizzarono in primo luogo attraverso l’economicizzazione del conflitto. Intendo con ciò la sostituzione della contrattazione del salario e dell’orario di lavoro al conflitto iniziale per il controllo del processo di produzione, e del corpo e dell’anima dei produttori» (BAUMAN [1987])
Per chi arriva da realtà contadine e periferiche dove i ritmi di vita sono più lenti, da mondi in cui il silenzio è rotto solo dalle voci dagli animali o dal suono degli elementi naturali, delle campane, degli utensili… vivere in città alienanti dove si viene trattati da estranei e dove anche la lingua è quasi sconosciuta, faticare in fabbriche caotiche, rumorose, maleodoranti, malsane… è un vero e proprio shock che produce una condizione di sofferenza che può facilmente tramutarsi in accumulo ed esplosione di rabbia. In chi, con il passare delle generazioni, si è ormai integrato ed ha accettato di scambiare la sofferenza con il salario, quella rabbia spontanea svanisce e la condizione che si vive finisce per essere percepita come normale.
I rivoltosi di Piazza Statuto non sono provocatori pagati dal padrone, ma lavoratori la cui rabbia non è stata ancora “economicizzata” ed è ancora pronta ad esplodere
«Il dramma dell’attesa morale insoddisfatta, della privazione di solidarietà sociale, la fatica di un lavoro appena scoperto, la stanchezza delle notti nelle soffitte collettive, a dieci che dormono nello stesso breve spazio superaffollato, la immobilità mentale delle sere al bar, chiuse in clans paesani e interfamiliari, questa fase lunga di accostamento senza spinte o incoraggiamenti, senza dialogo, spiegano come, ad un certo momento, un bisogno fremente di esibirsi, di sfidare, di uscire dal chiuso, di battersi contro le proprie contraddizioni, faccia scoppiare tumulti e sprigioni energie caotiche come quelle di Piazza Statuto» (SEGRE [1962])
Ma la Camera del Lavoro di Torino redige un comunicato nel quale stigmatizza gli scontri e li bolla come atti di teppismo e di provocazione
«In un piccolo gruppo di manifestanti appariva allora evidente che alcune manifestazioni di violenza dimostravano la presenza di nuclei di provocatori che operavano sul piano del teppismo, del tutto estraneo ed anzi respinto dalla gran massa dei lavoratori in sciopero durante tutta la giornata» [8]
«Fatti di Torino: una provocazione preordinata. La CdL denuncia l’interesse padronale al teppismo organizzato per svalutare la portata dello sciopero» [9]
Si tratta di un cliché che la sinistra istituzionale adotterà costantemente da lì in poi: qualsiasi espressione di insubordinazione che il PCI non controlla (direttamente oppure attraverso la CGIL o qualcun’altra delle sue organizzazioni di massa) viene sistematicamente bollata con il medesimo stigma: “chi vi paga?”.
Note
[1] Per un’utile distinzione tra forza “strutturale” e forza “associativa” dei lavoratori cfr. WRIGHT [2000]: «In this article, our concern is mainly with what I will term working class “associational” power-the various forms of power that result from the formation of collective organizations of workers. This includes such things as unions and parties but may also include a variety of other forms, such as works councils or forms of institutional representation of workers on boards of directors in schemes of worker co-determination, or even, in certain circumstances, community organizations. Associational power is to be contrasted with what can be termed “structural power”-power that results simply from the location of workers within the economic system. The power of workers as individuals that results directly from tight labor markets or from the strategic location of a particular group of workers within a key industrial sector would constitute instances of structural power». (pag. 962)
[2] Che peraltro aveva sostenuto dall’esterno anche il precedente Governo Segni (II), assieme ai monarchici, per un periodo di oltre un anno.
[3] Anche perché il nuovo Governo ha una maggioranza risicatissima di 6 parlamentari alla Camera e 16 al Senato.
[4] «la Stampa», 9 luglio 1962.
[5] «la Stampa», Ibidem.
[6] «l’Unità», 9 luglio 1962, Nonostante un accordo – truffa tra Valletta e l’UIL, tutti gli operai si sono astenuti dal lavoro – La lotta a Torino – Gravi provocazioni.
[7] Paolo Spriano, La sconfitta di Valletta, in «l’Unità», 9 luglio 1962.
[8] Camera del Lavoro di Torino: «La vittoria dei lavoratori è solo nello sviluppo dello sciopero di tutti i metallurgici con unità e disciplina democratica. Ogni azione di gruppo o di individui violenta è teppistica, è sempre e soltanto un diversivo nell’interesse del padrone», volantino, 8 luglio 1962. In quel momento segretario della CdL è Sergio Garavini.
[9] «l’Unità», 9 luglio 1962.