Marco Riformetti | Per una rilettura delle riletture dei “bienni rossi”
Marco Riformetti, Per una rilettura delle riletture dei “bienni rossi”, Academia.edu, 12 pag., PDF, A4
Introduzione
Nell’ambito del corso di Storia del movimento operaio e sindacale abbiamo avuto modo di leggere il testo di Steven Forti dedicato ai bienni 1919-1920 e 1968-1969 (FORTI [2009]).
Questo nostro intervento intende essere una sintetica analisi critica di quel testo che peraltro ripropone meritevolmente alla riflessione dei lettori e degli studiosi un’epoca storica – il biennio 1919-1920, detto “rosso” – di grandissima rilevanza per la storia del movimento operaio italiano (e se diciamo epoca, al singolare, e non epoche è perché malgrado l’intenzione dichiarata nel titolo in realtà il testo di Forti si sofferma quasi esclusivamente sul primo biennio rosso e accenna solo fugacemente al secondo – quello del 1968-1969 –).
Del resto, pur essendo certamente stimolante, il parallelo tra i due “bienni rossi” deve essere accolto soprattutto come suggestione. Basta infatti confrontare le premesse storiche – per il primo biennio: la Grande guerra e soprattutto la Rivoluzione d’Ottobre, con le relative conseguenze politiche e sociali…; per il secondo biennio: la rinascita del movimento operaio seguita al cosiddetto “miracolo italiano”, il ciclo di lotte di liberazione anti-imperialiste e anti-coloniali… – con gli esiti storici – per il primo biennio: la contro-rivoluzione fascista e la repressione del movimento operaio e “democratico”…; per il secondo biennio: lo sviluppo politico negli anni ‘70, i movimenti delle donne e dei giovani, la “strategia della tensione”, la guerriglia metropolitana… – per constatare che le similitudini sono piuttosto relative e spesso incentrate solo sul comune ricorso al termine “consigli” e sul relativo accostamento tra il movimento dei Consigli di fabbrica e delle occupazioni del 1919-20 e l’azione dei Consigli di fabbrica (in special modo nel triangolo industriale del Nord-Ovest, Milano-Torino-Genova) durante il cosiddetto “autunno caldo”.
Non c’è dubbio, d’altra parte, che questi due “bienni” siano stati estremamente importanti nella storia d’Italia: il primo su un versante più squisitamente politico, il secondo su un versante prevalentemente sindacale.
Le parole dell’epoca e l’epoca
Forti muove da un presupposto che potremmo definire di carattere epistemologico: per comprendere un’epoca è necessario identificare ed analizzare le parole dell’epoca; il suo contributo ne analizza soprattutto una – “partito”– ma ne suggerisce anche altre: “guerra”, “rivoluzione”, “classe”, “soviet”… e sembra stigmatizzare quegli approcci che pretendono di “giudicare” un’epoca storica sulla base del “senno di poi” ovvero sulla base di concettualizzazioni – come quella di “democrazia” – che non sono proprie del periodo preso in esame.
Se da un certo punto di vista si può certamente concordare con questa impostazione (perché è evidente che non si può giudicare in modo troppo stringente un’epoca storica – o una civiltà, ragionando in termini antropologici – sulla base dei canoni tipici di altre epoche storiche – o altre civiltà –) d’altra parte vale anche il ragionamento inverso a quello suggerito da Forti ovvero che è possibile comprendere le parole dell’epoca solo a partire dalla comprensione dell’epoca; per fare un esempio, se la parola Rivoluzione è una parola chiave del dibattito politico del primo biennio rosso è perché c’è stata una rivoluzione, la Rivoluzione russa del 1917; analogamente, se il gruppo che si raccoglie attorno all’Ordine Nuovo di Torino propone i “consigli operai” come forma istituzionale del potere proletario è perché, soprattutto a Torino e in Piemonte, si è sviluppato il vasto movimento dei Consigli e delle occupazioni delle fabbriche; “guerra” è una parola chiave perché si è appena conclusa la Prima guerra mondiale; la parola “soviet” è al centro del dibattito perché i soviet sono stati l’epicentro della democrazia diretta nella Russia rivoluzionaria (tanto nel 1905 quanto nel 1917): e così via.
Pur senza indugiare in alcun tipo di determinismo e pur riconoscendo il carattere dialettico della relazione che sussiste tra mondo e idee sul mondo (del resto “anche la teoria diviene una forza materiale non appena si impadronisce delle masse”, MARX [1843]) è indispensabile riconoscere la grande rilevanza che deve essere attribuita alla genesi storica delle categorie.
Si potrebbe dunque dire che le parole sono importanti in quanto sono collegate al contesto storico entro cui vengono usate. Per fare un esempio ulteriore, si fa normalmente un grande uso della parola “democrazia” in riferimento al mondo greco antico, ma oggi a nessuno verrebbe in mente di definire “democratica” una società che prevede la schiavitù e nega i diritti politici alle donne. Storia delle parole dell’epoca e storia dell’epoca devono andare assieme.
Questo ci aiuta anche a “relativizzazione” la rilevanza da attribuire alle parole perché non è affatto detto che i protagonisti di un’epoca siano sempre perfettamente consapevoli dei meccanismi storici e politici entro cui operano e dunque non è affatto detto che essi sappiano parlare in modo attendibile di sé stessi e della propria epoca ovvero pensare “il presente come storia”.
In questo senso, l’odierno fare storia si discosta radicalmente da quello dell’istor antico che parla di un evento – ed è autorevole nel parlarne – perché ne è stato testimone diretto.
L’epoca
La complessità della situazione politica che caratterizza il campo socialista nel primo biennio si potrebbe ricavare anche soltanto a partire dal problema dei rapporti con l’Internazionale Comunista ovvero, in definitiva, con la Rivoluzione russa dell’ottobre 1917.
Del resto, lo riconosce anche Forti, la parola d’ordine fondamentale dell’epoca è “fare come in Russia”. Qui però Forti “traduce” “fare come in Russia” in “la rivoluzione doveva ripetersi nel medesimo modo. Un’impresa davvero impossibile, con la fine della guerra e la smobilitazione dei soldati” (FORTI [2014]). In realtà il senso di “fare come in Russia” non è quello indicato da Forti; “fare come in Russia” voleva dire “fare, come in Russia, la Rivoluzione” non “fare la Rivoluzione nel modo in cui è stata fatta in Russia”. Il primo a respingere questo tipo di approccio sarebbe stato proprio Lenin. E del resto, la dimostrazione indiretta che l’interpretazione di Forti non è ricevibile sta proprio nel dibattito su “soviet” e “consigli”; se si fosse trattato di importare acriticamente l’esperienza russa in Italia non ci sarebbe stato alcun dibattito.
A differenza dei principali partiti socialdemocratici europei – e malgrado certi tentennamenti (nonché certe posizioni espresse dagli esponenti della componente riformista, egemone in CGdL) – il Partito Socialista Italiano ha assunto, durante la Prima guerra mondiale, una posizione ambigua, ma non interventista; questo ha permesso alla richiesta dei socialisti italiani di aderire all’Internazionale Comunista di essere accolta fin dalla fondazione, nel 1919. Successivamente l’IC chiederà al PSI di espellere la componente riformista, ma la maggioranza massimalista del partito, guidata da Giacinto Menotti Serrati, opporrà il proprio rifiuto in nome di un principio di unità che finirà, in una evidente eterogenesi dei fini, per produrre la scissione di Livorno del 1921.
Qui c’è un punto che merita di essere evidenziato: Serrati è disposto a rompere con l’Internazionale e con la componente comunista del PSI (che formerà poi il PCdI anche con il contributo dei massimalisti legati a Bombacci e Gennari) pur di rimanere legato alla componente riformista che nella prima fase dell’ascesa di Mussolini arriverà persino a strizzare l’occhio al fascismo1 (VOLPI [2019]): per questa ragione, il principio di unità avanzato da Serrati non fu per nulla astratto, ma ben radicato nella contraddizione tra enunciazione rivoluzionaria e pratica rinunciataria che è il vero tratto caratteristico del massimalismo: massimalismo negletto dalla storiografia, come afferma Forti? Può darsi, ma forse anche perché vaso di coccio tra vasi di ferro (riformismo e comunismo).
Il massimalismo socialista con le sue oscillazioni e indecisioni può essere visto anche come sintomo di un’epoca di grandi contraddizioni in cui l’evoluzione delle cose diventa rapidissima. Per fare un classico esempio, da una parte c’è il massimalista Serrati che si oppone alla nascita del PCdI, ma poi vi aderisce nel 1924; dall’altra c’è il massimalista Bombacci che spinge per la fondazione del partito comunista, ma poi negli anni ‘30 diventerà fascista e finirà a Piazzale Loreto insieme a Mussolini, la Petacci, Pavolini.
Le parole dell’epoca: partito
Forti propone come chiave di lettura del primo biennio rosso l’analisi di una serie di parole chiave, sviluppandone una in particolare: partito. Il dibattito sul ruolo del partito, dunque, come luce che illumina la fase storica che chiamiamo primo biennio rosso.
Sul tema del partito Forti inizia ricordando sinteticamente le diverse impostazioni presenti nel dibattito per poi approdare al confronto con Lenin attribuendogli una concezione del partito come soggetto “organizzato in modo da farsi Stato” e tenta di corroborare questa attribuzione facendo riferimento al filosofo francese Alain Badiou, di cui forse Forti non ha ben compreso il punto di vista. Badiou infatti separa nettamente due cose che Forti invece appiattisce, ovvero colloca sullo stesso piano: Stato borghese e Stato proletario (dittatura del proletariato) per usare, appunto, le parole dell’epoca. Per Forti Stato borghese o Stato proletario sembrano essere, alla fin fine, la medesima cosa: Stato.
Ma in Lenin non solo non c’è alcuna concezione del partito come Stato bensì, tutto al contrario, c’è l’idea che il compito del partito sia quello, per quanto possibile, di dirigere il processo rivoluzionario che nel suo sviluppo ulteriore deve produrre l’estinzione dello Stato (RIFORMETTI [2017]); in Lenin, lo Stato è proletario proprio nella misura in cui avvia il processo del proprio aufhebung (idea che talvolta è costata a Stato e rivoluzione l’accusa di “utopismo”). Questa differenza che Forti non coglie (diversamente da Badiou) deriva dalla natura radicalmente diversa dello Stato in regime capitalistico (che opera per la preservazione del dominio di classe) da quella dello Stato in regime socialista (che opera per il superamento di ogni dominio di classe, verso la società senza classi).
Che poi nel ‘900 l’effettivo corso storico in URSS e in altri paesi abbia proposto una sorta di partito-Stato può sicuramente essere vero; che questo esito sia derivato dall’“insegnamento” di Lenin invece non lo è.
Le sorgenti multiple del biennio rosso
Gli affluenti di quell’epoca che chiamiamo (primo) “biennio rosso” sono molteplici e di molteplice natura: se gli ammutinamenti delle guarnigioni (come nel caso di Ancona) hanno al centro il tema del rifiuto di combattere, i moti contro il carovita hanno piuttosto una chiara matrice economica, così come le rivendicazioni salariali della classe operaia (che però pone anche questioni di ordine strettamente politico come il riconoscimento della Russia rivoluzionaria da parte del Governo italiano); se l’occupazione delle terre ha una valenza prevalentemente redistributiva e di superamento del latifondismo di stampo neo-feudale che ancora vige nelle campagne, l’occupazione delle fabbriche intende mostrare la capacità di auto-organizzazione degli operai e dunque la legittimità della loro richiesta di co-dirigere le imprese (e in prospettiva di dirigere lo Stato).
Una netta separazione tra rivendicazioni economiche e rivendicazioni politiche è molto ardua perché siamo in una fase in cui l’esempio della Russia influenza ogni cosa; c’è la sensazione concreta che un intero mondo sta cambiando e per la prima volta a favore degli sfruttati. Questa sensazione non è solo dei lavoratori, ma anche delle classi dominanti che infatti rispondono i modo durissimo alle mobilitazioni. Saranno centinaia i morti, migliaia i feriti, decine di migliaia gli arrestati nel ciclo 1917-1920.
Il dibattito su Soviet e Consigli di fabbrica
Interessante anche la riproposizione da parte di Forti del dibattito su Soviet e Consigli di fabbrica (cfr. FORTI [2008], ma anche BORDIGA, GRAMSCI [1971]) come forme istituzionali del potere operaio.
Forti mostra le due distinte posizioni che si presentano all’interno dell’area comunista: da un lato c’è la posizione della “componente napoletana” (Bordiga) particolarmente affezionata alla forma sovietica (come si evince anche dal fatto che animava una pubblicazione chiamata, appunto, Il Soviet); dall’altro lato c’è la posizione della “componente torinese” (Gramsci, Togliatti, Terracini, Noce…) raccolta attorno alla pubblicazione Ordine Nuovo che invece sostiene la tesi che per immaginare quale struttura può assumere il potere operaio in un paese come l’Italia si deve partire da ciò che in Italia il movimento operaio ha già effettivamente espresso ovvero, appunto, i Consigli di Fabbrica, a partire dalle esperienze del 1919-20.
La cosa interessante – e apparentemente paradossale – che emerge dalla ricostruzione del dibattito operata da Forti è questa: mentre sulla carta gli “ordinovisti” si presentano più eterodossi dei “soviettisti” nei confronti della Rivoluzione d’Ottobre, lo sviluppo politico successivo rimescolerà le carte e collocherà il gruppo di Bordiga tra le posizione considerate “estremiste” (nel senso che Lenin dava a questo concetto in LENIN [1967.2]), mentre il gruppo ordinovista diventerà gradualmente il punto di riferimento unico della Russia sovietica in Italia.
In ogni caso, pensare creativamente – dunque anche a partire da specificità locali – le possibilità di sviluppo di un processo rivoluzionario globale (le cui tappe vengono tuttavia scandite localmente) è pienamente in sintonia con l’approccio leninista che ha appunto saputo sfruttare le specificità della situazione russa per realizzare l’Ottobre.
La longue durée del dibattito sul rapporto tra partito e sindacato
Secondo l’interpretazione di Forti uno degli elementi che legano il biennio 1968-1969 con quello 1919-1920 sarebbe costituito dal tema del rapporto tra partito e sindacato, espressione particolare del più generale tema del rapporto tra organizzazione politica e organizzazioni di massa. È così, ma solo perché questo tema è in realtà un “evergreen”. Poiché sempre è stato posto il problema del rapporto tra ruolo del partito e ruolo del sindacato (qualunque sia stata la soluzione prospettata) ne deriva che esso è stato posto anche nelle epoche in esame.
E il tema del primato della politica o dell’economia a cui Forti accenna en passant sembra proprio una di quelle querelle che, sorte in epoca recente, vengono usate per analizzare epoche antiche; sembra qui che Forti incappi nello stesso vizio che egli stesso critica in chi ha accusato il movimento operaio e contadino di inizio secolo di carenza di “spirito democratico” (evidentemente perché, si vuol intendere, troppo influenzato da idee sovversive).
In verità, quello del “primato della politica scalzato dal primato dell’economia” è, sì, un tema “moderno”, ma da un certo punto di vista è anche un tema “antico”: moderno perché la progressiva riduzione dello Stato ad ancella del mercato che si è realizzata negli ultimi decenni ha messo a nudo la sostanziale irrilevanza delle decisioni politiche (e la totale irrealizzabilità in ambito istituzionale di decisioni politiche anche solo “controcorrente”); antico se ci si riferisce, ad esempio, alla Prefazione del 1859 a Per la critica dell’economia politica in cui Marx delinea il rapporto tra “struttura economica della società” e “sovrastruttura giuridica e politica” con la seconda che si erige sulla prima che ne viene dunque a costituire il fondamento.
Anche su questo terreno “ordinovisti” e “soviettisti” mostrano le proprie accentuate differenze, con un approccio più “operaista” dei torinesi ed un approccio più “partitista” dei napoletani. Da registrare, tuttavia, che le tematiche “operaiste” dell’Ordine Nuovo sono sempre molto politiche (si pensi all’appoggio alla richiesta di “controllo operaio” avanzata dal Movimento dei consigli e delle occupazioni delle fabbriche) e che è sempre molto dura la critica alla condotta della CGdL e delle sue direzioni politiche (la componente riformista del PSI).
Il biennio rosso come guerra civile
In esordio del proprio contributo Forti si sofferma su un tema molto interessante che ha suscitato acceso dibattito tra gli storici: del primo biennio rosso si può parlare in termini di “guerra civile”?
Come è noto, il termine “guerra civile” è stato usato anche in relazione alla Resistenza 1943-45, inizialmente da versanti ostili al movimento resistenziale che, essendo stati alleati dei tedeschi, non potevano certo usare la locuzione “guerra di Liberazione”; il termine venne poi sdoganato anche da storici di tutt’altra cultura politica (Cfr. PAVONE [1991]).
Nell’uso della parola “guerra” c’è anche l’influenza di un’epoca fortemente segnata dalla Prima guerra mondiale e dai suoi postumi? Forse sì, almeno in parte; ma se analizziamo gli scontri del 1920 che sono stati interpretati come “la conclusione di un ciclo di rivolte e proteste che era iniziato nel 1917” (cfr. VENTURA [2021]) o se addirittura allarghiamo lo sguardo oltre il biennio 1919-1920 e includiamo un altro biennio cruciale – il 1921-1922 – allora emerge con chiarezza che la definizione “guerra civile” non costituisce affatto una forzatura, specialmente pensando allo scontro tra lo squadrismo fascista e le esperienze di resistenza antifascista armata, a cominciare da quella degli “Arditi del popolo” (cfr. FRANCESCANGELI [2000]), animate dalla componente anti-fascista e legalitaria dell’associazione combattentistica Arditi d’Italia (nella sua maggioranza simpatizzante per il nascente fascismo).
Forti indica come ulteriore similitudine tra i due bienni rossi quella dell’essere stati entrambi sconfitti. A questo proposito di potrebbe dire che un po’ tutta la storia del ‘900 è la storia di obbiettivi non realizzati o realizzati solo in parte. Indiscutibilmente, la parola d’ordine fondamentale del primo biennio – “fare come in Russia” – non si è concretizzata. Non solo gli importanti movimenti dell’epoca hanno realizzato i propri obbiettivi solo molto parzialmente – o, come nel caso del “controllo operaio”, in modo esclusivamente formale –, ma la “grande paura” ha spinto le classi dirigenti italiane a promuovere e sostenere l’impresa fascista mostrando quel “sovversivismo reazionario” di Gramsci ebbe a parlare già nel 1921.
Il secondo biennio nutriva ambizioni molto meno grandi del primo. Di certo “fare la Rivoluzione” costituiva il programma politico di una componente agguerrita, ma minoritaria del movimento operaio che peraltro stava realizzando (ed avrebbe continuato a realizzare, almeno fino alla metà degli anni ‘70) importanti conquiste salariali e sociali (la riforma del sistema previdenziale, il “punto unico” di contingenza, lo Statuto dei lavoratori, l’equo canone, l’introduzione del Sistema Sanitario Nazionale…). Insomma, la belle epoque del riformismo italiano (il cui successo elettorale spiega anche perché la spinta rivoluzionaria che animava moltissimi giovani non riuscì a diventare egemone).
Con una certa forzatura interpretativa potremmo dire che in nome di “riforme” non ottenute i riformisti nel primo biennio lasciarono cadere l’Italia nelle mani del fascismo mentre nel secondo biennio riuscirono quanto meno ad ottenere alcuni risultati immediati che ne consolidarono il consenso (sia pure dentro il quadro della “conventio ad excludendum” ispirata dal Dipartimento di Stato USA) e che permise loro di sbarrare la strada ad un nuovo tentativo di “assalto al cielo”.
Note
[1] Addirittura alcuni dirigenti, come D’Aragona, passeranno di fatto con il fascismo dopo aver smobilitato la CGdL,
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