Marco Riformetti | Democrazia borghese e democrazia socialista. Sulla dittatura del proletariato
Da Marco Riformetti, Lenin e la filosofia politica di Stato e rivoluzione, Tesi di laurea in filosofia, Pisa, 2017
Jacques Textier scrive
“Io non ho ancora steso la lista dei testi ove si tratta del famoso concetto della dittatura del proletariato, ma è probabile che non siano più numerosi di quelli in cui si tratta della possibilità di un passaggio pacifico in un certo numero di paesi” [47]
Questo, secondo Textier, permetterebbe di affermare che, sulla base della quantità di riferimenti presenti nelle opere di Marx ed Engels, si sarebbe potuta sostenere sia la tesi della dittatura del proletariato, sia quella del passaggio pacifico al socialismo; Textier oppone esplicitamente l’idea della “dittatura” a quella del “pacifico” e parla addirittura di “faccia nascosta” del pensiero politico marx-engelsiano. Ma Textier non ha colto il punto: ove pure la transizione al socialismo potesse avvenire per via pacifica e se anche le decisioni fossero prese attraverso il principio della maggioranza il socialismo resterebbe comunque una dittatura perché esprimerebbe comunque il kratos di una classe (sia pure maggioritaria) rispetto a quello di altre classi (minoritarie). In un certo senso è ciò che afferma Trasimaco nella Repubblica: “il giusto è l’utile del più forte” sia esso un tiranno o la maggioranza in un regime democratico.
Nessun potere dominante ricorre mai inutilmente all’uso della violenza. Sebbene la violenza sia sempre la risorsa di “ultima istanza”, ricorrervi frequentemente è una testimonianza di debolezza. Lo Stato cerca sempre di ricorrere piuttosto ad altre forme di potere, più intangibili, ma sempre comunque molto efficaci; si pensi al concetto di “violenza simbolica” in Bourdieu o a quello di “ideologia” in Althusser. E si pensi soprattutto al concetto gramsciano di “egemonia” per il quale il dominio non è mai pura forza, ma insieme di forza ed egemonia politica e culturale; in un passaggio importante dei Quaderni Gramsci definisce Lenin “il più grande teorico moderno della filosofia della praxis” e gli riconosce il merito fondamentale di aver riscoperto l’importanza della battaglia culturale, della “battaglia delle idee”, come antidoto all’economicismo
«Il pensiero del Croce deve dunque, per lo meno, essere apprezzato come valore strumentale, e così si può dire che esso ha energicamente attirato l’attenzione sull’importanza dei fatti di cultura e di pensiero nello sviluppo della storia, sulla funzione dei grandi intellettuali nella vita organica della società civile e dello Stato, sul momento dell’egemonia e del consenso come forma necessaria del blocco storico concreto. Che ciò non sia “futile” è dimostrato dal fatto che contemporaneamente al Croce, il più grande teorico moderno della filosofia della praxis, nel terreno della lotta e dell’organizzazione politica, con terminologia politica, ha in opposizione alla diverse tendenze “economicistiche” rivalutato il fronte della lotta culturale e costruito la dottrina dell’egemonia come complemento della teoria dello Stato-forza e come forma attuale della dottrina quarantottesca della “rivoluzione permanente”» [48]
Gramsci fa riferimento al famoso passo del Che fare?
“Senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario. Non si insisterà mai troppo su questo concetto in un periodo in cui la predicazione opportunistica venuta di moda è accompagnata dall’esaltazione delle forme più anguste di azione pratica” [49]
Luciano Gruppi addirittura scrive
«… il punto di contatto più costante, più profondo, di Gramsci con Lenin, credo che sia il concetto di egemonia. L’egemonia è il punto di approssimazione di Gramsci a Lenin» [50].
Gruppi fa riferimento al brano Rapporti tra strutture e superstrutture [51]
«Questo concetto, data l’affermazione fatta più sopra, che l’affermazione di Marx che gli uomini prendono coscienza dei conflitti economici nel terreno delle ideologie ha un valore gnoseologico e non psicologico o morale, avrebbe pertanto anch’esso un valore gnoseologico e sarebbe da ritenere perciò l’apporto massimo di Ilic alla filosofia marxista, al materialismo storico, apporto originale e creatore. Da questo punto di vista Ilic avrebbe fatto progredire il marxismo non solo nella teoria politica e nella economia, ma anche nella filosofia (cioè avendo fatto progredire la dottrina politica avrebbe fatto progredire anche la filosofia)»” [52]
L’osservazione di Textier richiama alla memoria l’accusa rivolta da Kautsky a Lenin a proposito dell’enfasi attribuita alle parole di Marx – anzi, ad una singola parola (“dittatura del proletariato”) che, secondo Kautsky, Marx avrebbe usato una sola volta in una lettera del 1875 senza spiegarla (ma perché, a suo avviso, essa era già stata spiegata nell’analisi della Comune di Parigi del 1871).
Lenin mostra che l’affermazione di Kautsky non è corretta perché già negli articoli in cui analizza il biennio rivoluzionario 1848-50 Marx scrive
«…era passato il tempo in cui la repubblica considerava opportuno rendere gli onori alle sue illusioni [del proletariato]; e solo la sua sconfitta lo convinse della verità che il più insignificante miglioramento della sua situazione è un’utopia dentro la repubblica borghese, un’utopia che diventa delitto non appena vuole attuarsi. Al posto delle sue rivendicazioni, esagerate nella forma, nel contenuto meschine e persino ancora borghesi, e che esso voleva strappare come concessioni alla repubblica di febbraio, subentrò l’ardita parola di lotta rivoluzionaria: Abbattimento della borghesia! Dittatura della classe operaia! Mentre il proletariato faceva della sua bara la culla della repubblica borghese, costringeva questa a presentarsi nella sua forma genuina, come lo Stato il cui scopo riconosciuto è di perpetuare il dominio del capitale, la schiavitù del lavoro» [53]
e visto che
«Riferimenti alla “dittatura del proletariato” si trovano in un totale di 12 pubblicazioni o lettere di Marx ed Engels tra il 1850 e il 1891» [54]
Qual è la parola di cui parla Kautsky?
«Ecco questa “parolina” di Marx:
“Tra la società capitalista e la società comunista vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell’una e dell’altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico di transizione, in cui lo Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato” [55]» [56]
La lettera in questione non è una lettera qualsiasi: è la lettera con cui Marx si dissocia di fatto – sia pure non pubblicamente [57] – dal programma di unificazione del partito socialdemocratico tedesco – la cosiddetta Critica del programma di Gotha [58] – ovvero uno dei “testi brevi” più importanti di Marx.
Secondo Kautsky
«“Il contrasto tra le due tendenze socialiste” (cioè tra i bolscevichi e i non bolscevichi) è “il contrasto fra due metodi radicalmente diversi: il metodo democratico e il metodo dittatoriale” (p. 3)» [59]
Tutti i critici del marxismo si sono appigliati alla formula di Marx (dittatura del proletariato) senza capirne – o facendo finta di non capirne – il senso. Ora, è probabilmente vero che mai scelta fu più infelice di quella di adottare la formula “dittatura del proletariato” perché la dittatura, nel senso comune, rappresenta qualcosa che equivale grosso modo alla privazione dei diritti politici (come afferma lo stesso Kautsky). E chi può dunque volere una dittatura, sia pure “proletaria”? Probabilmente, neppure i proletari. E chi sceglierebbe una dittatura potendo avere una democrazia? Se dittatura e democrazia sono poste in antitesi [60] non c’è partita: la dittatura perde, la democrazia vince.
Eppure, una scelta tanto infelice dal punto di vista lessicale nasconde una grande onestà dal punto di vista intellettuale e questa onestà merita di essere svelata. Per farlo, può essere utile tenere conto di ciò che il discorso culturale dominante definisce “democrazia”: essenzialmente, una procedura decisionale basata – direttamente o indirettamente – sulla “regola della maggioranza”, in cui tutti hanno la possibilità di esporre le proprie opinioni sulle decisioni da prendere e di sottoporle al vaglio della comunità, in modo tale che le opinioni che ricevono un consenso maggioritario diventino decisioni vincolanti per l’intera comunità [61]. Si tratta di un criterio formalistico che non tiene in alcun conto della sostanza delle decisioni che vengono assunte con “metodo democratico” (come ad esempio quella di abolire democraticamente la democrazia stessa o quella di sganciare bombe atomiche su città nemiche incenerendo istantaneamente molte decine di migliaia di persone).
Con un criterio di questo tipo neppure Atene antica si sarebbe potuta definire democratica dal momento che innestava la regola della maggioranza assembleare su una platea composta da un’esigua minoranza sociale che escludeva dai diritti politici le donne (un po’ meno la metà della popolazione), gli schiavi (più o meno 3/4 della popolazione) e gli immigrati di prima generazione. Senza contare che tra coloro che possedevano i diritti politici esisteva una maggioranza di analfabeti e una minoranza di persone che potevano pagarsi un filosofo-ghostwriter a cui affidare il compito di scrivere bei discorsi da usare in assemblea, per conquistare egemonia e potere.
Ma il punto ancora più importante è che attraverso una procedura formalmente democratica si possono prendere decisioni che nessuno oserebbe definire democratiche come quella assunta dall’assemblea di Atene – raccontata da Erodoto – di mettere a morte gran parte degli abitanti della città ribelle di Mitilene
“Gli Ateniesi […] nel caldo dell’ira risolvettero di uccidere non solo quei che erano presenti, ma tutti quanti i Mitilenei giunti alla pubertà; e di fare schiavi i fanciulli e le donne, incaricandoli di tutte le altre circostanze della ribellione, benché non fossero, come gli altri alleati, gravati di servitù: né moveva poco lo sdegno degli Ateniesi il riflettere che le navi peloponnesie per sostenerli avevano osato di tentare arditamente l’impresa della Ionia. Insomma essi non credevano in veruno modo tal ribellione fatta con leggero consiglio. Laddove spediscono una trireme a Pachete significandogli le prese risoluzioni, e gli ordinò tosto di trucidare i Mitilenei. Ma il giorno appresso tosto se ne pentirono non poco, e mutato consiglio discorrevano che non era senza nota di crudeltà e mostruosità quel decreto, per cui si dannava allo sterminio un’intera nazione più presto che i soli colpevoli. Di che fatti accorti i legati dei Mitilenei che erano presenti, e quegli Ateniesi che si adoperavano per loro, procurarono di indurre i magistrati a riproporre il partito” [62]
Alla fine la decisione di condannare allo sterminio un’intera nazione fu rivista e “solo” alcune centinaia di Mitilenei furono effettivamente uccisi. Ma il punto è chiaro: l’agorà di Atene poté deliberare “a maggioranza” l’eliminazione degli abitanti di un’intera città.
Sembra illogico celebrare la “grande democrazia greca” e al tempo stesso inorridire per le sue scelte; ma se questo avviene è a causa del fatto che la forma di governo “democrazia” è sempre – implicitamente o esplicitamente – riempita di significati morali “democratici” e dunque tendiamo a pensare la “democrazia” tanto come metodo, tanto come contenuto, senza renderci minimamente conto del carattere ideologico [63] del discorso che su di esso viene costruito.
«È naturale che un liberale parli di “democrazia” in generale. Ma un marxista non deve mai dimenticare di porre la domanda: “per quale classe?”. Tutti sanno, per esempio – e lo sa anche lo “storico” Kautsky – che le rivolte e anche il forte fermento tra gli schiavi nell’antichità rivelarono il fatto che in sostanza lo Stato antico era la dittatura dei proprietari di schiavi. Forse che la dittatura distruggeva la democrazia tra i proprietari di schiavi, per i proprietari di schiavi? Tutti sanno che non era così» [64]
In una società classista, così come la dittatura è sempre “dittatura su”, la democrazia è sempre “democrazia per”. La democrazia per i proprietari di schiavi è la dittatura dei proprietari sugli schiavi. Questa è la concezione della democrazia di Lenin. Si tratta di capire se si vuole essere dalla parte della dittatura degli schiavi oppure dalla parte di quella degli schiavisti.
***
Kautsky si domanda sarcasticamente “…che bisogno ci sia di una dittatura se abbiamo dalla nostra parte la maggioranza del popolo” e si risponde allo stesso modo in cui rispondono i menscevichi russi: Lenin vuole la dittatura perché sa che è l’unico modo per imporre il socialismo ad un paese che, al socialismo, non è ancora pronto
“Kautsky identifica il Leninismo con le condizioni attuali della Russia per condannarlo (si ricordi che l’intera socialdemocrazia, seguendo i menscevichi russi, insisteva a quel tempo sul fatto che il partito Bolscevico provava a prendere una scorciatoia verso il socialismo tentando di stabilirlo in un paese arretrato ovvero in un paese che non era ancora sufficientemente maturo, tanto economicamente quanto politicamente, per una rivoluzione socialista” [65]
Si tratta di un’accusa che è stata avanzata molte volte ai bolscevichi e che è stata al centro anche dello scontro con il populismo: la Russia è ancora un paese contadino con una classe operaia esigua che non può guidare il processo rivoluzionario se non attraverso un uso “dittatoriale” del potere…. Ma in questa accusa si evidenzia, ancora una volta, la profonda incomprensione del senso in cui Lenin parla di “dittatura”
“L’essenza della dottrina dello Stato di Marx può essere compresa fino in fondo soltanto da colui che comprende che la dittatura di una sola classe è necessaria non solo per ogni società classista in generale, non solo per il proletariato dopo aver abbattuto la borghesia, ma per un intero periodo storico, che separa il capitalismo della “società senza classi”, dal comunismo. Le forme degli Stati borghesi sono straordinariamente varie, ma la loro sostanza è unica: tutti questi Stati sono in un modo o nell’altro, ma in ultima analisi, necessariamente, una dittatura della borghesia. Il passaggio dal capitalismo al comunismo, naturalmente, non può non produrre un’enorme abbondanza e varietà di forme politiche, ma la sostanza sarà inevitabilmente una sola: la dittatura del proletariato” [66]
Per Lenin la democrazia/dittatura del proletariato è una democrazia più ampia di quella borghese. Dunque, non si deve contrapporre “democrazia” a “dittatura”, ma democrazia borghese a democrazia socialista o anche dittatura del capitale a dittatura dei lavoratori. Che poi lo Stato sorto dopo l’Ottobre sia stato capace – fino a quando, in che misura, se – di costruire una democrazia effettivamente socialista è stato e dovrà restare oggetto di approfondimento.
Note
[47] Textier [1997], pag. 316.
[48] Gramsci [1975] Q 10, § 12, pag. 1235.
[49] Lenin [5], pag. 340.
[50] Cfr. Gruppi [1972].
[51] Gramsci [1975] Q. 4, AF I, § 38, pag. 455.
[52] Gramsci [1975] Q. 4, AF I, § 38, pag. 464-5.
[53] Marx [1973].
[54] Mayer [1993], pag. 258.
[55] Marx [1992].
[56] Lenin [28], pag. 237.
[57] Famosa è rimasta la sua frase conclusiva: “Dixi et salvavi anamam meam”.
[58] Gotha era la cittadina tedesca in cui si realizzò, nel 1875, il congresso di unificazione della SPD.
[59] Kautsky cit. da Lenin in Lenin [28], pag. 236.
[60] “Letteralmente intesa, la parola dittatura significa la abolizione della democrazia” (Kautsky [1944], pag. 66).
[61] L’etimologia del termine, invece, non ci dice granché – ed è proprio questo che la concezione marxista dello Stato decostruisce – perché “potere del popolo” rimanda alla nozione di popolo, una delle nozioni più controverse della storia dell’umanità.
[62] Cfr. Erodoto [2008].
[63] Cfr. Canfora [2004].
[64] Lenin [28], pag. 239.
[65] Balibar [1977] pag. 13. Transcribed by From Marx to Mao: “Kautsky uses the identification of Leninism with contemporary Russian conditions in order to condemn it (remember that the whole of Social-Democracy, following the Russian Mensheviks, was at this time insisting that the Bolshevik Party had tried to ‘take a short cut’ to socialism by attempting to establish it in a backward country, i.e. in a land which was not yet sufficiently ‘mature’, either economically or politically, for socialist revolution)”
[66] Lenin [25], pag. 389.
Esposizione di prim’ordine, a mio avviso, ma l’ultima rase se la poteva proprio risparmiare.
Grazie Guglielmo, troppo gentile. L’ultima frase non voleva essere una critica semplicistica alla democrazia socialista post-Ottobre ma un porsi in modo cauto rispetto al tema della transizione dal precedente regime zarista ad un nuovo sistema socialista. Se ci pensiamo, anche dal punto di vista economico-sociale ci sono state fasi “ibride” (il comunismo di guerra o la NEP, ad esempio) in cui non potevano ancora dispiegarsi una democrazia e un sistema compiutamente socialisti.