Antiper | DAD o non DAD? Questo (non) è il problema
Con l’esplosione della pandemia anche il mondo della scuola ha dovuto attrezzarsi e parte delle lezioni in presenza sono state sostituite con lezioni a distanza; questo ha fatto nascere uno scontro senza esclusione di colpi tra i sostenitori (della necessità) della didattica a distanza (DAD) – prudentemente rinominata nella seconda fase didattica digitale integrata (DDI) – e i suoi avversari (tra le cui fila troviamo il variegato mondo dei libertari-negazionisti, ma anche una certa parte della sinistra “radicale” che ha, ormai da molto tempo, smarrito la capacità di “cogliere il punto” in ogni situazione).
Come sempre, sarebbe stato utile evitare di schierarsi in modo aprioristico e anti-dialettico su fenomeni che in realtà hanno una portata molto più vasta di quanto possa apparire a prima vista così come sarebbe utile riuscire a cogliere le opportunità offerte dalla didattica digitale (anche a distanza) pur senza mettere in discussione l’importanza della didattica in presenza che se è superiore lo è soprattutto in quanto offre la possibilità di sviluppare relazioni sociali (piuttosto che per la sua presunta maggiore capacità di produrre conoscenza [1]). E in una società come quella in cui viviamo, in cui le relazioni sociali si impoveriscono giorno dopo giorno, è fondamentale valorizzare i momenti di incontro e di scambio non virtuali, specialmente in quella fase molto evolutiva che è l’adolescenza. La pandemia non è solo un grande problema di salute e di certo non è soprattutto un problema di mancati profitti delle imprese: è, innanzitutto, un problema di (ridotta) socialità delle persone. D’altra parte: siamo davvero convinti che il tipo di socializzazione offerta dalla scuola sia la socializzazione di cui i giovani hanno bisogno?
Si ha l’impressione che l’attuale polarizzazione pro-DAD vs no-DAD costituisca solo una semplificazione della questione. Intanto, bisognerebbe stabilire di quale segmento della formazione stiamo parlando giacché nell’ambito dei livelli più avanzati – diciamo universitari e post-universitari – la didattica a distanza è già una componente fondamentale (e crescente) dell’offerta formativa.
Pensiamo alle registrazioni delle lezioni [2] che permettono agli studenti che lavorano o che abitano lontano dalle facoltà (e non possono permettersi i costi del soggiorno nelle carissime città universitarie) di seguire ugualmente i corsi, come se fossero frequentanti.
O si pensi anche – e soprattutto – ai cosiddetti MOOC (Massive Open Online Courses) cioè ai corsi online prodotti dalle grandi università di tutto il mondo per essere offerti ad un pubblico vastissimo [3] e che si stanno sviluppando anche in Italia attraverso una serie di circuiti universitari (la Federico II di Napoli, il Politecnico e la Bicocca di Milano, EduOpen…). Si tratta di un catalogo composto da migliaia di corsi gratuiti prodotti dalle più prestigiose università del mondo e che offrono una formazione di altissimo livello che si integra perfettamente con quella classica. Grazie a questa modalità-MOOC si ha l’opportunità di seguire, poniamo, un corso sull’intelligenza artificiale tenuto da Peter Norvig [4] anche senza recarsi negli Stati Uniti; questa è certamente un’opportunità che va valorizzata soprattutto da chi le risorse per recarsi negli Stati Uniti non le ha.
Ovviamente, la situazione è assai diversa se la DAD viene proposta ai giovanissimi della scuola primaria o della secondaria di primo grado i quali hanno certamente più difficoltà a seguire a distanza.
Ma il vero problema non è né soltanto, né principalmente, quello della capacità di concentrazione degli alunni (problema che in questi decenni di inarrestabile degrado del sistema scolastico e di riforme sempre più aziendalistiche – vi dicono nulla termini come “dirigente scolastico”, “crediti, “debiti”…? – è interessato a ben pochi).
Il vero problema di chi si oppone alla didattica a distanza è che le ore-DAD possano finire per sostituire stabilmente quote di ore-aula. Ora, questo è certamente un fatto negativo per i posti di lavoro dei docenti (e per la forza associativa delle organizzazioni sindacali di categoria). E d’altra parte è normale che venga considerato un fatto positivo dallo Stato per via delle sue casse dissestate. Ma che tipo di fatto è per gli studenti (ammesso che degli studenti si possa parlare come di un corpo sociale omogeneo, rinunciando ad analizzarne le stratificazioni di classe come si faceva una volta)?
In linea di principio nessuno è favorevole alla DAD come “sostituto” della didattica in presenza e persino le istituzioni che l’hanno adottata affermano di averlo fatto solo per necessità dettata dalla situazione pandemica. In linea di principio tutti convengono che la scuola non è solo istruzione – ovvero semplice trasmissione di saperi tecnici – ma anche formazione degli individui e relazione con altri individui. Ma siamo proprio sicuri che prima del lockdown la scuola assolvesse a questo compito formativo-relazionale? Siamo davvero sicuri che sia una relazione – e una buona relazione – il semplice stare 5-6 ore al giorno seduti gli uni accanto agli altri, chiusi in un’aula scolastica, immobili sulle sedie, in silenzio di fronte ai docenti, isolati dal resto del mondo? E siamo davvero sicuri che basterà eliminare la DAD per produrre un mondo scolastico magico, in cui docenti e studenti cooperano armoniosamente per la “formazione”, la “relazione”, l‘”istruzione”? E soprattutto: il mondo della scuola può essere scorporato del mondo in generale ed essere armonioso in un mondo che armonioso non è?
Il filosofo francese Michel Serres, scomparso nel 2019, ha posto [5] alcuni interessanti problemi che meritano di essere, se non condivisi, quanto meno analizzati.
Il primo di questi problemi riguarda il ruolo del docente (e più in generale della scuola) in un mondo nel quale l’accesso a qualunque sapere è possibile, grazie alla rete, in qualsiasi momento e da qualsiasi luogo. In un mondo come questo nel quale il sapere è ormai distribuito e decentralizzato ha ancora senso la centralizzazione del sapere – la sua concentrazione “alla cattedra” –?
“Che cosa trasmettere? Il sapere? Eccolo qua, disponibile ovunque in Rete, oggettivato. Trasmetterlo a tutti? Ormai l’intero sapere è accessibile a tutti. Come trasmetterlo? Già fatto.
Con l’accesso alle persone, tramite il cellulare, con l’accesso a ogni luogo, tramite il GPS, l’accesso al sapere è ormai avvenuto, in un certo senso esso è sempre e ovunque già trasmesso. Oggettivato, certo, ma, in più, diffuso” [6]
Il secondo problema posto da Serres – che da un certo punto di vista sembra richiamarsi alle riflessioni di Marshall McLuhan [7] – costituisce una risposta indiretta alle scuse avanzate da genitori, studenti e docenti rispetto alla difficoltà di concentrazione “a distanza”.
“non dite che agli allievi mancano funzioni cognitive che permettano di assimilare il sapere così distribuito, perché tali funzioni si trasformano con il supporto e grazie a esso. Attraverso la scrittura e la stampa, la memoria, per esempio, è cambiata” [8]
Questi ragazzi che, dai 10 anni in su, seguono per ore su YouTube le sessioni di gioco dei “Maestri di Fortnite” o i consigli delle “influencer” che parlano di giochi, di cosmetici, di moda, di musica, di cucina… questa generazione di video e smartphone dipendenti non sarebbe in grado, per ragioni legate al “mezzo a distanza”, di seguire le lezioni scolastiche come invece farebbero, interessati e partecipi, se fossero in aula, di fronte a docenti spesso impreparati e demotivati che si sentono presi a calci in culo dalla vita dopo aver accarezzato il sogno di essere i Platone e gli Aristotele della paideia dei nostri tempi? Ovviamente, sono solo chiacchiere; ciò che fa la differenza è la motivazione, il diverso interesse che i ragazzi e le ragazze nutrono nei confronti di Chiara e Matilda Ferragni [9] e in quelli di Galileo Galilei o Dante Alighieri.
Poiché la pedagogia
“cambia totalmente con le nuove tecnologie” [10]
essa sta già subendo una trasformazione e lo sviluppo di una componente didattica non frontale ègià in atto, inevitabile e, per taluni aspetti, auspicabile. Perché auspicabile? Perché consente un’estensione immensa della knowledge base a cui poter attingere e quindi, almeno in teoria, favorisce la costruzione di inferenze sempre più complesse e creative.
Un tempo ci si lamentava che l’accesso stesso al sapere fosse elitario; oggi abbiamo scoperto che non basta poter accedere al sapere, ma che bisogna anche volervi accedere. E non è per nulla scontato.
Inoltre, si prenda l’esempio delle scienze informatiche. Chi davvero pensa che i docenti di scuola superiore o universitari siano superiori in quanto a competenze rispetto agli “youtuber” (chiamiamoli così per semplicità) vive sicuramente su Urano. Una biblioteca o un’aula di un Istituto Tecnico è probabilmente l’ultimo posto in cui si dovrebbe andare per acquisire saperi informatici pratici di alto livello. Questo vuol dire che non si deve più insegnare informatica a scuola? Ovviamente no, ma eliminare la “didattica a distanza” dei tutorial in rete sarebbe solo una forma di auto-evirazione.
Nell’avversione di certi docenti verso la DAD si mescolano fattori molto diversi: c’è il timore di non riuscire a coinvolgere efficacemente gli studenti e quindi di non riuscire ad offrire la migliore lezione possibile, certo; ma ci sono anche banali resistenze psicologiche al cambiamento o l’intenzione di riproporre anno dopo anno sempre gli stessi metodi e gli stessi programmi imparati una volta per tutte; ci sono pulsioni egocentriche dei docenti-oratori che la cattedra soddisfa e il collegamento Internet no; ci sono i residui culturali fascistoidi dei docenti che costringono gli studenti ad alzarsi in piedi e mettersi sull’attenti quando il docente-colonnello entra in aula; c’è il bisogno di esercitare forme di (micro) potere quasi sempre basate sul ricatto del voto (“non mi ascolti, ma io ti stango all’interrogazione”) e sulla possibilità di giudicare gli studenti attraverso valutazioni molto soggettive e poco oggettive; c’è il bisogno dei docenti-mattatori di arringare un pubblico per avere una parte (in senso teatrale) nella “società dello spettacolo” e per sentirsi meno declassati come figura sociale e culturale; ci sono i timori di essere registrati e messi alla berlina per le proprie negligenze; ci sono i pregiudizi verso la tecnologia strumento del Demonio di tanti docenti anziani (“io ho ancora il Nokia”) o di tanti docenti “umanistici”; ci sono le pure e semplici incapacità (o indisponibilità) a mettersi all’altezza dei tempi ecc…
Non è questa la scuola a cui vogliamo tornare chiusa la fase DAD, una scuola che ormai tende ad essere solo un AIS althusseriano
“Ma accanto, ed anche in occasione dell’apprendimento di queste tecniche e di queste conoscenze, si imparano a Scuola le «regole» del buon uso cioè del comportamento che deve tenere, a seconda del posto che è «destinato» ad occuparvi, ogni agente della divisione del lavoro: regole di morale, di coscienza civica e professionale, il che significa, evidentemente, regole di rispetto della divisione tecnico-sociale del lavoro, e in definitiva regole dell’ordine stabilito dal dominio di classe. Vi si impara anche a «parlare bene francese», a ben «redigere». cioè di fatto per i futuri capitalisti ed i loro servi) a «ben comandare» ossia (soluzione ideale) a «parlare bene» agli operai, ecc.
Per esporre questo fatto in un linguaggio più scientifico, diremo che la riproduzione della forza-lavoro esige non soltanto una riproduzione della sua qualificazione, ma, al tempo stesso, una riproduzione della sua sottomissione alle regole dell’ordine prestabilito, il che significa una riproduzione della sua sottomissione all’ideologia dominante da parte degli operai ed una riproduzione della capacità di maneggiare bene l’ideologia dominante da parte degli agenti dello sfruttamento e della repressione, affinché assicurino anche «attraverso la parola» il predominio della classe dominante.” [11]
Non si tratta di un punto secondario, tenuto anche conto che la sinistra è da lungo tempo muta rispetto ai programmi scolastici, ma si risveglia dal coma sbraitando contro la DAD – durante una pandemia! – in nome del principio finto-ribellistico e anarcoide del “nessuno mi può dire cosa devo o non devo fare”, entrando in competizione con il “right libertarianism” [12]. Effetti di lungo periodo della post-post-modernità, verrebbe da dire.
Che le nuove tecnologie offrano agli studenti la possibilità di accedere ad una base di conoscenza (tecnica) vastissima bypassando la figura del docente e quindi ridimensionando la stessa istituzione-scuola non c’è alcun dubbio. Prenderne atto è il minimo che si possa fare. Che gli studenti svalutino la figura del docente di matematica perché vanno a studiare matematica direttamente sul Web è però del tutto immaginario. Un conto è la potenza, un conto è l’atto, direbbe Aristotele.
Il vero problema che abbiamo di fronte riguarda proprio lo scarto tra le potenzialità di accesso al sapere offerte dal Web ed il cattivo uso che ne facciamo. In questo, Michel Serres si fa delle grandi illusioni.
In ogni caso, che la forma-scuola classica sia ormai inadeguata rispetto alle trasformazioni in atto è difficilmente contestabile, così come è difficilmente contestabile che il docente classico – o, per meglio dire, il classico rapporto alunno-docente– tenda a diventare sempre di più un “collo di bottiglia” nell’accesso al sapere; le conoscenze di chiunque sono nulla nei confronti di quel gigantesco accumulatore di sapere che è il Web al quale, peraltro, possiamo accedere in modo pressoché istantaneo. E di qui a qualche anno l’Intelligenza Artificiale sarà in grado di sfruttare il sapere distribuito del Web per produrre inferenze molto più interessanti di quelle che oggi sono in grado di produrre molti insegnanti. È uno scenario inquietante? In certa misura sì, ma è anche uno scenario realistico e il modo giusto di confrontarsi con questo scenario non è certo quello di battere i piedi o mettere la testa sotto la sabbia oppure, peggio ancora, auspicare reazionari ritorni ai modelli pedagogici dei bei tempi che furono, con tanto di lavagne coi gessetti e di bacchettate di righello sulle nocche. È sul futuro che si gioca la partita, non nel ritorno al passato.
Ebbene: il docente che chiede ai ragazzi, durante una verifica scritta che si svolge on line – ovvero con il computer o lo smartphone e collegati ad Internet – di togliersi le cuffie “per non farsi suggerire” è una persona adatta per capire il cambiamento in atto e a predisporsi ad affrontarne – e a combatterne – le conseguenze? O non è piuttosto, usando la bella metafora di Serres, il bagliore residuo di una stella già morta?
Le nuove tecnologie fanno emergere nuove forme di pedagogia. È inutile disperarsi; bisogna invece attrezzarsi per non essere travolti dal cambiamento. Se si vuole una battaglia che davvero merita di essere combattuta allora si scenda in battaglia per una rivoluzione del modo di produzione (anche del sapere). Una rivoluzione per un nuovo mondo, non certo contro la DAD o le prove INVALSI; queste sono battaglie “win-no-win” ovvero battaglie che una volta che le hai vinte, non hai vinto nulla.
Fino a qualche anno fa solo chi aveva fatto studi di sociologia sapeva in quali testi, poniamo, Pierre Bourdieu aveva trattato il suo concetto di habitus; oggi, grazie al Web, siamo in grado, in pochi istanti, di trovare in quale testo Bourdieu parla di habitus, di scaricare gratuitamente quel testo e di trovare a quale pagina (e in quali termini) ne parla. Le conoscenze non stanno più nella testa di singoli individui, concentrate, ma sono sempre più collettive, distribuite. È sempre meno importante memorizzare le nozioni, mentre è sempre più decisivo saper usare le tecnologie per accedervi e saper usare la conoscenza per creare nuova conoscenza. E non è per nulla facile dal momento che lo sviluppo tecnologico non è neutro e non sempre è possibile un uso alternativo e anti-sistemico delle tecnologie.
Se la battaglia contro la DAD è una battaglia per rimettere il Professore sul pulpito allora si sappia che si tratta di una battaglia già persa da tempo; sul terreno della “quantità di sapere” è molto più utile avere a portata di mano uno smartphone che non un professore (tanto più che il sapere “professorale” è quasi sempre specialistico, disciplinare, mentre il “sapere” distribuito del Web è universale; la rete non sa “di matematica” o “di filosofia”: la rete “sa tutto”). E che poi i docenti siano davvero in grado di divulgare in modo efficace il poco sapere che possiedono è davvero una cosa su cui è lecito nutrire serissimi dubbi. Chi è rimasto indietro rispetto ai cambiamenti tecno-culturali finisce necessariamente per usare metodi e linguaggi pedagogici del tutto inadeguati, in presenza come a distanza.
Sarebbe bello sperare che il ruolo del docente potesse evolvere da contenitore di sapere a stimolatore della capacità critica degli studenti, sia dal punto di vista della ricerca (critica), sia dal punto di vista dell’analisi (critica). Ma se oggi c’è una categoria priva di spirito critico quella è proprio la categoria degli insegnanti; e se ci sono oggi luoghi privi di dibattito critico quelli sono proprio le scuole e le università.
Note
[1] La DAD è avversata anche da settori amici del grande capitale (FIAT-Repubblica, ad esempio, mette in grande evidenza sul sito immagini con slogan da Cobas della scuola: “Niente scuola né sport e la testa che scoppia. La vita da ragazzi reclusi in videochat”, “Scuole aperte in modo sicuro. In classe c’è il nostro futuro”, “Scuole superiori, anche in Emilia Romagna il Tar annulla l’ordinanza regionale di chiusura”). E perché? Ma è ovvio, perché la DAD non è (ancora) abbastanza efficiente nell’opera di irreggimentazione fisica e psicologica dei giovani.
[2] Per fare un esempio si consideri la Mediateca dell’Università di Pisa.
https://mediateca.unipi.it/media
[3] Class central è il principale “hub” dell’offerta MOOC.
[4] Stuart J. Russell and Peter Norvig, Artificial Intelligence: A Modern Approach, (4th Edition), Pearson Series in Artifical Intelligence, 2020
[5] Michel Serres, Non è un mondo per vecchi, Bollati Boringhieri, Torino, 2013.
[6] Michel Serres, Ibidem, pag. 19.
[7] Cfr. Marshall McLuhan, Il mezzo è il messaggio.
[8] Michel Serres, Ibidem, pag. 20.
[9] Il cane di Chiara Ferragni – Matilda – ha 400.000 follower su Instagram.
https://www.instagram.com/matildaferragni/
[10] Michel Serres, Ibidem, pag. 20.
[11] Cfr. Louis Althusser, Ideologia e apparati ideologici di Stato.
[12] Cfr. Ippolita, Nell’acquario di Facebook
Condivisibile nel suo equilibrio e nella critica ad una certa tradizione didattica. Ma chi conosce le importanti esperienze della scuola di base sa che il problema è legato alla loro messa in sordina e alla maldestra o nulla formazione dei docenti delle superiori, tra i quali allignano ancora amanti delle lectio ex cathedra. Su Invalsi: una citazione casuale, una caduta di stile, che dimostra scarsa o nulla conoscenza da parte dell’autore dell’ottimo articolo, del funzionamento del Sistema Nazionale di Valutazione affidato ad un’unica agenzia ( a cui si deve la fantomatica nozione di Valore Aggiunto applicato al prodotto-competenze valuate con i test) Grazie
Grazie Renata per aver commentato l’intervento. Il riferimento alle prove Invalsi non era riferito al fatto che esse meritino di essere criticate (così come la “filosofia” che ci sta dietro), ma piuttosto al fatto che forse non è quella la battaglia principale da portare avanti.