Laboratorio Marxista | Genova 2001
Laboratorio Marxista, Genova 2001, da Controvento, Bollettino periodico di informazione politica e territoriale, n.2, agosto 2001.
Sugli avvenimenti di Genova sono ormai infinite le cose dette; altre verranno dette.
Con queste note non intendiamo ripercorrere gli eventi di Genova: non ce n’è lo spazio e neppure la necessità, visto che molti fatti sono in larga parte noti. Intendiamo piuttosto riflettere su alcuni elementi così come li abbiamo percepiti nei due giorni che abbiamo passato a Genova (il 20 e il 21) e così come li abbiamo percepiti leggendo la stampa di regime e quella di movimento nei giorni successivi.
E’ innanzitutto necessario premettere che a distanza di parecchi giorni dal 20 luglio sentiamo ancora una enorme impressione per la morte di Carlo Giuliani e con grande difficoltà riusciamo a razionalizzare lo sdegno per la vera e propria campagna di mistificazioni che sulla sua morte e sulla repressione di Genova è stata fatta e continua ad essere fatta.
Mantenere la lucidità dell’analisi in questo momento è certamente molto difficile. Probabilmente impossibile. Tenteremo di farlo per aiutare con il nostro modestissimo contributo a chiarire alcuni aspetti politici che emergono dalle giornate di Genova.
La prima precisazione che occorre fare è quella che riguarda la vera responsabilità politica della feroce repressione genovese.
Certo, chi ha ammazzato a sangue freddo, chi ha sequestrato, torturato, picchiato, insultato, aggredito, arrestato centinaia e migliaia di dimostranti, sono stati carabinieri, polizia, guardia di finanza, polizia penitenziaria.
Chi ha orchestrato ed attuato lo stato di guerra a Genova, blindandola a suoi stessi cittadini, sono stati i servizi segreti italiani e stranieri, Cia in testa.
Chi ha diretto e organizzato le azioni squadristiche delle forze repressive sono stati i vertici delle cosiddette forze dell’ordine alcuni dei quali sono stati rimossi dai loro incarichi.
Chi ha protetto e garantito con l’impunità persino gli assassini è il governo Berlusconi, con Scajola e Fini in prima fila.
Certo, tutte queste cose sono assolutamente sacrosante. Tutta questa gente, dai picchiatori e torturatori delle forze di polizia fino al Governo sono responsabili, politicamente e materialmente della morte di Carlo Giuliani e delle violenze.
Ma c’è una responsabilità più impercettibile, che appare quasi impersonale e che sembra dunque non imputabile: è la responsabilità del sistema capitalistico nel suo complesso, di cui poliziotti e governo sono espressione.
Se non riusciamo a comprendere questo elemento, non riusciremo a comprendere perché i vertici delle forze di polizia che sono state impegnate a Genova (dal capo della polizia De Gennaro al capo dell’anti-terrorismo La Barbera, dal questore di Genova Colucci al capo delle Digos Andreassi) siano stati tutti nominati dai passati governi di centro-”sinistra”.
E non comprenderemo perché a Napoli, alcuni mesi fa, manifestazioni analoghe siano state represse in modo altrettanto violento da parte di un governo di centro-”sinistra” per impedire a lavoratori, studenti e disoccupati di manifestare contro i potenti del mondo e contro le misure varate dal governo in materia di lavoro.
Una domanda che ci dobbiamo porre ed a cui è indispensabile rispondere è questa: se al governo vi fosse stato il centro-”sinistra” le cose sarebbero andate nello stesso modo oppure sarebbero andate diversamente ?
E’ sufficiente dichiarare fascista il governo Berlusconi per liquidare la necessità di una vera analisi di cui abbiamo bisogno non solo per comprendere Genova, quanto piuttosto per comprendere i possibili scenari che si aprono dopo Genova ?
Le cose sono meno semplici di quanto può superficialmente apparire.
Noi riteniamo che a Genova, per due giorni, lo stato, le forze repressive e gli stessi mass-media abbiano operato in sostanza come in un vero e proprio regime fascista.
Per due giorni Genova è stata quasi come Buenos Aires, come Ankara, come Lima.
Per due giorni invece che per dieci anni.
Questa è la vera differenza che però non è una differenza secondaria.
Anche se la repressione scatenata contro il movimento antagonista (nella sua più ampia accezione, dai centri sociali ai gruppi rivoluzionari, alle manifestazioni di piazza) nel corso di questi ultimi 2-3 anni – e particolarmente nell’ultima fase – fa venire la voglia di parlare di regime fascista, dobbiamo essere cauti.
Se fossimo davvero convinti che quello che abbiamo di fronte è il fascismo, se quello che abbiamo di fronte fosse effettivamente il fascismo, non potremmo non trarne delle necessarie conseguenze politiche ed organizzative.
Contro il fascismo sarebbe necessario combattere come combatterono i partigiani nella Resistenza Antifascista, non certo con la propaganda e i volantinaggi.
Oggi, le sedi del movimento rivoluzionario non sono proibite, così come non sono proibite associazioni politiche comuniste o anarchiche; i compagni e le compagne possono sviluppare “liberamente” (per quanta “libertà” la borghesia sia disposta a concedere) la propria attività politica.
Le organizzazioni politiche possono convocare riunioni e organizzarsi.
Questo, dunque, non è ancora un vero regime fascista. E’, semplicemente, la “democrazia” borghese, la “democrazia” delle classi dominanti, la “democrazia” dei ricchi.
L’azione dello stato a Genova è stata un’azione non solo repressiva, ma anche preventiva. Proprio perché il movimento non esprime un potenziale rivoluzionario che possa mettere seriamente in discussione il potere delle classi dominanti era necessario lanciare un segnale inequivocabile, un segnale di carattere terroristico, un segnale – appunto – orientato a terrorizzare quanti più dimostranti possibile e a seminare il panico e la divisione.
Il risultato, è inutile nasconderlo, è stato in buona parte raggiunto.
Del resto, se la borghesia pensasse che le manganellate, i lacrimogeni, le cariche, gli arresti, la brutalità…spingessero ancora più avanti la protesta e la determinazione del movimento, certamente non piccherebbe, non torturerebbe, non arresterebbe.
A Genova la borghesia ha mostrato, non per caso, ma per calcolo politico, a quali livelli è disposta ad arrivare per salvaguardare il proprio potere; e quando neppure tale potere è in discussione.
Dai fatti di Genova possiamo facilmente immaginare a quale livello di repressione fascista sarebbe disposto ad arrivare lo stato nel caso in cui fosse messo realmente in discussione da parte di un vasto movimento politico rivoluzionario.
E’ un insegnamento che chi tiene a mente l’esperienza storica del novecento conosce molto bene e che Genova ha concorso a chiarire nuovamente.
Questo sistema è dotato di una serie impressionante di strumenti di repressione (dall’apparato poliziesco alla magistratura, alle leggi…) che usa per tentare di controllare e annientare tutto ciò che in qualche modo resiste o si oppone ad un ordine-disordine sociale ed economico fondato sulla violenza e sullo sfruttamento di una classe sull’altra.
A Genova lo stato ha inteso fare sfoggio della sua forza militare e repressiva, ma in questo modo ha anche indicato al movimento, e particolarmente ad alcuni suoi settori più avanzati, la strada da percorrere per poter organizzare efficacemente la lotta contro il potere che uccide centinaia di milioni di persone per fame, malattie, guerre, carestie…
E questa strada è, evidentemente, la strada della ricostruzione a livello internazionale dell’organizzazione politica rivoluzionaria del proletariato, cioè il partito comunista.
Senza il partito comunista e senza la sua autorevolezza ogni movimento è destinato alla sconfitta.
Qualcuno ha detto che il movimento cosiddetto “anti-globalizzazione” sta all’oggi come il movimento studentesco sta al ‘68.
Può darsi. In questo movimento, come in quello del ‘68, si incrociano spinte e tensioni spesso profondamente diverse e contraddittorie.
E oggi, come allora, alcune parti del movimento troveranno uno sbocco politico superiore capace di organizzare la voglia di cambiamento che in moltissimi giovani si rivela in modo così radicale.
Proprio la radicalità delle forme di lotta – e non certo la radicalità delle rivendicazioni politiche – ha imposto il movimento “anti-globalizzazione” all’attenzione di tutto il mondo. Da Seattle in poi, ogni manifestazione è stata segnata da scontri con la forze repressive, ed anzi la forza propulsiva del movimento è stata quella di avere messo a nudo il vero volto repressivo dello stato (come ad esempio impedire l’accesso a Nizza o a Genova da parte di manifestanti stranieri).
Le immagini di manifestanti “armati” di bastoni, caschi, sassi, maschere anti-gas… hanno fatto il giro del mondo e quasi tutti coloro che oggi si scandalizzano degli atti “vandalici” dei “black block” li hanno usati nelle riviste, nei volantini, nei giornali, nei manifesti, nelle magliette… per catturare l’immaginario ribellistico di tanti giovani.
Del resto quelli che oggi vengono chiamati “black block” e che in altre occasioni sono stati chiamati “squatters” o “casseurs” sono stati protagonisti di movimenti di massa importanti come quello nato in Francia dalle periferie sottoproletarie di Parigi che costrinse il governo Balladur a respingere lo Smic, la proposta di salario “d’ingresso” – cioè ridotto – per i giovani disoccupati (e che in Italia è stata messa a punto da Prodi con l’appoggio di Cgil-Cisl-Uil e PRC).
Anche solo per queste semplici ragioni è davvero di una infinita ipocrisia la “levata di scudi” dei vari Agnoletto & co. contro i “vandalismi” delle tute nere ed è da rispedire al mittente il tentativo di lasciar intendere che a Genova sia stata la violenza “estremista” e “distruttiva” del cosiddetto “blocco nero” ad innescare la spirale repressiva.
Lo stato ha colpito in modo premeditato. Punto.
La morte di Carlo Giuliani non è un incidente di percorso e neppure una reazione esagerata in un momento di paura: è il prezzo che lo stato ha fatto pagare al movimento mettendo in mano ad un ragazzo la vita di un altro ragazzo.
Questo è il prezzo che siamo costretti a pagare per organizzare il nostro legittimo diritto ad una vita migliore.
Sempre, abbiamo dovuto pagare questo prezzo.
Lo pagano i compagni e le compagne che combattono, lo pagano i milioni di proletari che ogni giorno muoiono di fame e di lavoro per arricchire i potenti del mondo.
Nel centro imperialista, dove le condizioni di vita sono molto diverse da quelle dei paesi della “periferia” – anche per i proletari -, la morte di un giovane suscita inevitabilmente un grande scalpore.
Ma anche in Palestina, in Turchia, in Colombia, in Africa dove ogni giorno muoiono decine di persone per le lotte che conducono o per la fame che patiscono, la morte di un giovane viene pianta dalle madri e dai compagni, forse con meno scalpore, ma certamente con lo stesso identico dolore.
Questo nuovo governo ha potuto giovarsi delle misure repressive che i passati governi hanno introdotto, ivi compreso l’inquadramento dell’arma dei carabinieri come quarta forza armata voluto da D’Alema. E nello stesso tempo, coerentemente con la propria natura di destra, rincara la dose.
Noi avevamo avvertito già prima del 13 maggio che la vittoria del centro-destra avrebbe parzialmente modificato la situazione, che la linea di continuità con i passati governi si sarebbe combinata con una maggiore spinta in termini di politiche repressive e anti-popolari.
La gestione dell’“ordine pubblico” a Genova, le prime misure adottate in campo giuridico ed economico (abolizione della tassa di successione, depenalizzazione dei reati di falso in bilancio, progetto di controriforma delle pensioni, Tremonti-bis…) lasciano intendere che questo governo si caratterizzerà in maniera ancora più pesantemente anti-proletaria di quelli precedenti.
Avevamo messo in guardia dalla tentazione di mettere semplicisticamente centro-“sinistra” e centro-destra esattamente sullo stesso piano. Avevamo riconosciuto che identici erano gli interessi di classe che sostenevano e dunque, in definitiva identico era l’orizzonte politico, economico e giuridico, ma che nello stesso tempo sussistevano nel centro-”sinistra” alcune contraddizioni che potevano essere usate dal proletariato .
Ma proprio perché non avevamo messo centro-destra e centro-”sinistra” esattamente sullo stesso piano prima, riterremmo un gravissimo errore buttarsi adesso nel movimento anti-governativo imbarcando tutto ed il contrario di tutto, ivi compresi gli esponenti delle passate maggioranze e dei passati governi (PRC, Verdi, Comunisti Italiani, DS…) all’insegna dello “scurdammoci o’passato” (cioè dello scordiamoci del Pacchetto Treu, della guerra imperialista in Jugoslavia, di Maastricht, delle botte a Napoli o a Ventimiglia, degli arresti e delle perquisizioni di questi mesi, dell’attacco al diritto di sciopero…).
Proprio ora è il momento per la parte più cosciente del movimento comunista di operare un salto di qualità politico ed organizzativo per proporsi come reale opzione di classe alla stabile alternanza istituzionale tra destra e centro-”sinistra”-PRC.
Continuando a riflettere su Genova appare oggi molto più chiara la vera natura della direzione politica del movimento che faceva capo al Genoa Social Forum, la quale si è attribuita unilateralmente il ruolo di paladina dei diritti dei poveri del mondo senza che, non altre parti del movimento, ma soprattutto questi stessi poveri abbiamo fatto alcunché per legittimare tale ruolo.
Quando noi comunisti sviluppiamo la nostra attività politica non parliamo “per conto” del proletariato; siamo proletari e compagni che lottano secondo le proprie convinzioni (una delle quali è quella di interpretare le legittime aspirazioni degli altri proletari).
Agnoletto, dopo giorni e giorni di patteggiamenti con il governo, in cambio della propria legittimazione in quanto soggetto politico aveva “garantito” una manifestazione pacifica, rivendicando la democrazia contro una “globalizzazione ingiusta”.
Ma nella manifestazione (non autorizzata) del 20 luglio in cui ha perso la vita Carlo Giuliani a nome di chi parlava Agnoletto ? Delle tute bianche che volevano sfondare la “zona rossa”, degli autonomi, del black block ?
E, sempre il 20, alla manifestazione di Sampierdarena organizzata da Slai Cobas e Cub, con la presenza di oltre 10.000 lavoratori, chi rappresentava Agnoletto ?
E alla stessa manifestazione del 21 in cui erano presenti migliaia di compagni di varie organizzazioni politiche nazionali e internazionali poteva Agnoletto parlare per nome e per conto di tutti ?
Quella di accreditare il GSF come portavoce unico delle manifestazioni di Genova e come rappresentante unico della contestazione ai “grandi” del mondo è stata una mossa della borghesia (ampiamente sostenuta da Berlusconi con il suo finto “dialogo”) proprio per evidenziare la oggettiva incapacità di direzione del GSF e per ricondurre presso l’opinione pubblica tutto un movimento alle sue più semplici espressioni di lotta di piazza.
D’altra parte chi può credere ad una “globalizzazione giusta”, ad una globalizzazione “dal volto umano” se non gli amici “di sinistra” del capitalismo cioè, appunto, i Bertinotti, gli Agnoletto, i Casarini ?
Si può innalzare la “bandiera della democrazia” in una società capitalista che fa ovunque della negazione dei più elementari diritti democratici la sua pratica quotidiana ?
Mentre Agnoletto & co erano impegnati nella loro opera di delazione, additando alla repressione i settori del movimento meno congeniali ai loro disegni egemonici, centinaia di compagni e compagne sono stati attaccati brutalmente, torturati per ore e giorni nelle caserme, arrestati e, come nel caso di Carlo Giuliani, ammazzati in mezzo alla strada.
La cinica opera di propaganda di Agnoletto & co. non si è fermata neppure di fronte ad un morto e già il venerdì sera, mentre arrivavano le frammentarie notizie e immagini sulla morte del giovane, questi “soggetti” già si affannavano a spiegare che quella morte era da mettere sul conto non dei carabinieri e delle forze repressive che l’avevano materialmente compiuta, non dello stato che la stava coprendo (dopo averla in larga parte determinata), ma dei “violenti” del black block.. E così, in tutta Italia, la morte di Carlo Giuliani è servita alla borghesia per criminalizzare un movimento di lotta e ad alcuni “dirigenti” di questo movimento per salvare la faccia, il tutto mentre il più vigliacco di tutti i partiti, i DS, prendeva la palla al balzo per ritirare la propria partecipazione alla manifestazione del 21.
La globalizzazione non è che l’altra faccia del capitalismo nella sua fase imperialista: la crisi economica spinge le varie frazioni dominanti a farsi la guerra per spartirsi aree di influenza e mercati: la guerra in Jugoslavia, il massacro del popolo palestinese ed anche i fatti di questi giorni in Macedonia lo dimostrano.
E’ solo un pia illusione pensare che l’imperialismo possa essere democratico o “costituzionale”: la democrazia borghese è la negazione della democrazia.
Il potere della borghesia è la negazione del potere del proletariato, cioè della maggioranza, cioè l’unico potere veramente democratico.
Si può invocare la non violenza quando la violenza si respira fin dalla nascita, ci si è cresciuti, la si è subita quotidianamente in fabbrica, sul territorio, nei rapporti sociali ?
L’ingiustizia è violenza.
La povertà è violenza.
Lo sfruttamento di una classe sull’altra è violenza.
Anni di galera e torture per chi ha lottato contro l’oppressione in nome di un ideale concreto, questa è violenza.
Le guerre imperialiste di spartizione del potere sono violenza.
E’ fin troppo facile invocare la “non violenza” per chi la violenza non la subisce.
La non violenza è la trappola che il potere cerca di imporre alle masse popolari per renderle mansuete e impaurite.
Malcolm X diceva: “noi non siamo violenti con chi non è violento con noi, ma non siamo non violenti con chi è violento con noi”.
Esiste una violenza necessaria e cioè la violenza che pone fine al sistema della violenza, la violenza che gli sfruttati sono costretti ad esercitare contro gli sfruttatori per conquistare la propria liberazione. E’ una violenza che persino alcuni preti hanno giustificato (i teologi della liberazione) e che invece dovrebbe essere bandita in assoluto e semmai solo rappresentata virtualmente.
Ed esiste un legittimo diritto all’autodifesa che Genova pone come problema concreto e sul quale molti si interrogano in modo sempre più pressante.
Persino Scalzone aveva capito con il suo “via da Genova” poteva esserci un massacro e che la rappresentazione virtuale e simbolica della guerriglia metropolitana stavolta non avrebbe pagato.
Del resto, chi ha contribuito a creare una vigilia piena di preoccupazione per le eventuali violenze ?
Non è stato forse lo stato con le immagini dello sceicco Osama Bin Laden che avrebbe dovuto eliminare Bush con non si sa quali missili ?
Ma non sono state forse anche le dichiarazioni bellicose delle tute bianche che intendevano sfondare la “zona rossa” protetta da migliaia di armati di tutto punto ? Come pensavano che avrebbe reagito la polizia ? Aprendo i cancelli e dicendo “prego, accomodatevi, andate pure fino a Palazzo Ducale e salutatemi Berlusconi” ?
Evidentemente al GSF non avevano capito che quella di Genova non sarebbe stata un’altra delle solite pagliacciate di contrattazione con la Digos.
Aver portato migliaia di giovani a lottare impreparati e a mani nude contro un esercito imponente, armato fino ai denti, indottrinato all’uso senza pietà della violenza, quella sì è stata un’azione della quale qualcuno dovrebbe rispondere.
Oggi Casarini fa bene a sviluppare l’autocritica sul livello di preparazione della resistenza opposta alle forze repressive “venute per ammazzarci”. Ma in una prima fase la dichiarazioni erano ben altre se una portavoce delle tute bianche dichiarava che a Genova non si era colpito chi doveva essere colpito e che si era invece colpito chi non doveva essere colpito.
Questa è una teoria che pone sullo stesso piano potere, padroni e polizia con chi si oppone al potere, ai padroni e alla polizia. Ed è una vera e propria opera di delazione con cui si aiuta la polizia a colpire i “responsabili” .
Ma la vera “responsabilità” di alcuni settori del movimento è stata in realtà quella di non essersi voluti sottomettere ai disegni di egemonia del GSF dopo essere stati usati per gonfiare l’impatto mass-mediatico del movimento “anti-globalizzazione”. Finché facevano comodo per pompare il “movimento di Seattle” come fenomeno internazionale i “black block” e le vetrine rotte della banche andavano bene (e qualcuno addirittura li usava come “testimonial” delle proprie campagne di tesseramento).
Ma quando l’attenzione dei mass-media era ormai desta e si doveva semplicemente sfilare contro il governo che aveva vinto le elezioni (perché questo era il reale e principale connotato politico della manifestazione del 21) “basta con le violenze”, salvo qualche piccola “dichiarazione di guerra” o qualche piccola “intenzione di sfondamento”.
Come appaiono grotteschi, oggi, quegli esercizi di resistenza delle “tute bianche” con finti bastoni e finti scudi posti a confronto con la violenza assoluta delle forze repressive, di fronte alle torture inflitte ai fermati, di fronte al terrore di stato che per due giorni ha insanguinato Genova.
Ci si scandalizza degli infiltrati.
Ma come si fa a scandalizzarsi se in Italia (e in tutti i paesi capitalisti) l’infiltrazione è stata attuata sistematicamente per decenni ? Non è forse esistita in Italia una struttura clandestina di nome Gladio, con quel compito specifico ? E le condanne inflitte persino alla Fiat per l’uso di ex-agenti impiegati nella raccolta di informazioni, nei pedinamenti, nell’attività di isolamento delle avanguardie operaie in fabbrica ?
Rispetto agli interessi di classe del proletariato l’opera condotta da infiltrati che spaccano le vetrine delle banche è molto meno pericolosa dell’opera condotta da chi, guidando organizzazioni politiche e sindacali di massa, permette licenziamenti, flessibilità, gabbie salariali, restrizione delle libertà democratiche (come lo stesso diritto di sciopero) e avalla il bombardamento per settimane di proletari di altri paesi.
Di “infiltrati”, a Genova, ce n’erano non a decine ma a centinaia e di tutti i generi: oltre ai servizi e alle forze di polizia italiane, c’erano i servizi dei paesi del g8, Cia in testa.
Che questi infiltrati abbiano agito per provocare c’è da giurarci. Ma questo che cosa significa se non, di nuovo, che la responsabilità di ciò che è avvenuto a Genova è del capitalismo, delle sue forze di polizia, dei sui servizi più o meno segreti ?
E non significa forse che è tempo – almeno per alcuni settori del movimento – di procedere ad un maggiore livello di organizzazione nella lotta contro l’imperialismo ?
Questa volta lo stato non ha neppure aspettato le “provocazioni” montate ad arte se è vero che alcuni luoghi di raccolta genovesi (da alcuni centri sociali come il Pinelli o l’Immensa, allo stesso stadio Carlini che ospitava le “tute bianche”) erano stati accerchiati dalla polizia sin dal primo mattino.
E se è vero, come è vero, che il 20 la polizia ha caricato a freddo (qualcuno dice a corteo fermo) picchiando ed ammazzando, come si fa a indicare come responsabile il “blocco nero” se non negando la più elementare verità, nel tentativo di scaricare la responsabilità sugli altri per alleggerire la propria posizione ?
Di fronte a gran parte dell’opinione pubblica “tute bianche” e “tute nere” sono più o meno la stessa cosa, anche perché la borghesia opera scientificamente per mettere tutti sullo stesso piano. La stessa azione squadristica condotta nelle sedi del GSF la notte del 21 è stata attuata con il chiaro intento di dimostrare che il GSF, aldilà delle chiacchiere, proteggeva le “tute nere” dando ospitalità a loro e ai loro armamenti.
E’ chiaro che sotto i cappucci dei “black block” si possono nascondere dei provocatori, così come si possono nascondere sotto i caschi, le tute e le protezioni delle tute bianche. Ma si possono nascondere anche sotto i passamontagna degli zapatisti o sotto le kefiah palestinesi.
Individuare, isolare e colpire i provocatori infiltrati nelle file del movimento rivoluzionario e in generale nei movimenti di lotta è uno dei compiti principali di questi movimenti. Additare alla repressione dello stato e chiedere alla polizia fascista di fare il servizio d’ordine contro gli “indesiderabili” è invece la pratica dei delatori e degli infami.
Le forze di polizia a Genova, sotto la direzione del Governo Berlusconi, hanno agito per quello che realmente sono: difensori delle classi dominanti, altro che strutture al “servizio del cittadino”. Genova ha mostrato una volta di più il volto crudo e drammatico della lotta di classe. Ha mostrato che la borghesia agisce senza pietà, come non ha pietà per i miliardi di esseri umani che costringe alla fame, alle malattie, alla morte, mentre un pugno di privilegiati vivono nel lusso e nello spreco.
Se le risorse che la borghesia impegna nella costruzione di strumenti di morte sempre più sofisticati (per ultimo lo scudo spaziale di Bush) venissero usati per la ricerca scientifica in campo medico, alimentare, sociale, miliardi di esseri umani potrebbero vivere e dignitosamente.
Ma questo vorrebbe dire costruire una società in cui le forze produttive che l’uomo ha costruito fino ad oggi possano essere messe al servizio di tutti e non solo di pochi e questo, la borghesia, non lo accetterà mai pacificamente perché si chiama comunismo.
La lotta di classe tra oppressi e oppressori è la lotta per la vita che i proletari ingaggiano quotidianamente contro chi vorrebbe imporre loro la morte.
Di quale democrazia le classi dominati in questa società capitalistica sono capaci lo mostrano ogni giorno in tutto il mondo.
A luglio lo hanno mostrato anche a Genova.