Antiper | Stato, crisi e riproduzione capitalistica
L’asin/istra italiana (e non solo) è sempre stata irresistibilmente attratta dalle teorie economiche che enfatizzano il ruolo dello Stato ritenendo, ovviamente a torto, che molto Stato significhi molta protezione sociale dei lavoratori dagli arbitri del mercato [1].
Di conseguenza, a sinistra, si è portati quasi naturalmente a ritenere che Keynes e Marx siano in fondo molto più vicini tra loro di quanto non lo siano con i supporter del cosiddetto “libero mercato” [2].
Questo avviene perché si assume come elemento caratterizzante delle teorie di economia politica il ruolo dello Stato. E visto che, sia pure in modo profondamente diverso e con obbiettivi del tutto diversi, Keynes e Marx sono convinti che il ruolo dello Stato sia fondamentale [3] si pensa che le idee di Marx e quelle di Keynes siano tutto sommato equivalenti e che in fondo Keynes altro non sia che una specie di versione “realistica” di Marx (il quale sarebbe quindi la versione “utopistica” di Keynes).
Si dimenticano di aggiungere – gli asin/istri – che mentre Keynes parla del ruolo permanente dello Stato nel capitalismo, Marx parla del ruolo transitorio dello Stato nel socialismo. Una differenza non da poco.
I liberisti invece vengono considerati nemici dello Stato dal momento che affermano che esso non deve mai intervenire nel mercato e questo deve essere lasciato libero di muoversi in autonomia perché la “mano invisibile” lo conduce necessariamente verso una condizione di equilibrio.
Il problema è che, dopo il 1929 non esistono più liberisti ma solo neo-liberisti ovvero liberisti che riconoscono allo Stato un ruolo fondamentalissimo: salvare il capitale quando le cose si mettono male. E non più in modo indiretto, velato, ma in modo esplicito, spudorato. L’apoteosi è stata raggiunta con il crack di Wall Street del 2007-2008: dopo anni di bolle finanziarie gonfiate a dismisura, lo Stato è intervenuto con denaro pubblico per evitare il tracollo di banche già virtualmente fallite e con esse della già asfittica economia “reale”. Negli USA e anche in Europa.
Il non voler prendere atto che lo Stato è un pilastro fondamentale del capitalismo contemporaneo (Lenin ebbe a parlare addirittura di capitalismo monopolistico di Stato in riferimento allo Stato nell’epoca dell’imperialismo) conduce l’asin/istra a spacciare per “marxiste” concezioni che hanno molto a che fare con Keynes, ma nulla a che fare con Marx e a proporre continuamente la nazionalizzazione delle imprese decotte (come se poi questo non fosse qualcosa che il capitale fa da sempre, ristrutturando a spese della collettività e ri-privatizzando dopo il risanamento a vantaggio del capitale).
L’asin/istra e l’estrema asin/istra pensano che la presenza dello Stato sia una cosa buona perché non hanno una teoria dello Stato nelle società capitalistiche; anche i lavoratori pensano che la nazionalizzazione sia una cosa buona perché gradirebbero molto diventare non licenziabili a vita – come sono attualmente di fatto i dipendenti pubblici – anche se questo può avvenire solo a spese di lavoratori dipendenti e pensionati che producono oltre 4/5 del gettito fiscale.
Ma oltre al fatto che dire semplicemente “Stato” non ci permette affatto di individuarne il carattere (Stato borghese? Stato socialista? Stato nazional-socialista? Stati Uniti d’America?) basta cambiare criterio di “classificazione” delle teorie di economia politica affinché le cose cambino sensibilmente.
Ecco, ad esempio, come pone la questione l’economista marxista Anwar Shaikh
“… è importante rendersi conto che qualsiasi spiegazione su come il capitalismo riproduce sé stesso è allo stesso tempo (in modo implicito o esplicito) una risposta alla domanda su come e perché avviene la sua “non-riproduzione” [4] e vice versa: in altre parole, l’analisi della riproduzione e l’analisi della crisi sono inseparabili. Questo è vero sia che tale connessione sia resa esplicita da una particolare teoria o meno.
Nella storia del pensiero economico possiamo distinguere 3 correnti di pensiero sulla questione della riproduzione capitalistica. La prima, e la più conosciuta, è la nozione secondo cui il capitalismo è in grado di auto-riprodursi in modo automatico. [La riproduzione capitalistica] può essere regolare ed efficiente (teoria neo-classica) oppure imprevedibile e dispendiosa (Keynes), ma [il sistema] si auto equilibra.
Soprattutto, non esistono limiti necessari all’esistenza storica del sistema capitalistico: che sia lasciato sé stesso (teoria neo-classica) o che sia gestito opportunamente (Keynes) [il sistema] può durare per sempre. Naturalmente, questa è sempre stata la concezione dominante nelle teorie borghesi” [5].
Questo è un punto fondamentale.
Classificando le teorie di economia politica in base alla convinzione che il capitalismo abbia la possibilità di proseguire indefinitamente oppure no, le cose cambiano radicalmente. In questo caso, infatti, è Keynes che si trova dalla stessa parte dei più ultra degli ultra-liberisti mentre Marx, al contrario, ritiene che il modo di produzione capitalistico è destinato ad essere superato attraverso processi rivoluzionari in cui si coagulano fattori di carattere storico, economico e politico.
A differenza di quello che pensano nell’asin/istra, le ricette economiche di Keynes non hanno affatto l’obbiettivo di favorire gli interessi dei lavoratori, bensì quello di favorire gli interessi del capitale, cercando di agire in modo anti-ciclico per evitare/contenere le crisi e per favorire la crescita dopo i periodi di recessione. Persino il sostegno alla domanda per beni di consumo (che deve avvenire attraverso l’erogazione di commesse alle imprese) ha l’obbiettivo di favorire il rilancio del profitto e non quello di far crescere il benessere dei lavoratori il quale benessere, dal punto di vista di Keynes, non è un obbiettivo ma un prodotto indiretto del benessere delle imprese, secondo uno schema classico del pensiero liberale (l’avidità di profitto dei capitalisti produce magicamente il benessere dell’intera società perché da lavoro, bla, bla…).
Marx pensa, al contrario, che il benessere dei lavoratori coincida con l’abolizione del sistema del lavoro salariato, con l’espropriazione degli espropriatori e con la nascita di un modo di produzione della vita sociale basato su produttori liberi e associati in modo cooperativo. A questo punto Keynes diventa molto, ma molto lontano da Marx e molto, ma molto vicino ad ogni altro tentativo di giustificazione storica del capitalismo. Il fatto che tanti “professoroni dell’asin/istra” (cit.) si dichiarino apertamente post-pro-neo-proto-para-filo keynesiani e/o propongano ricette economiche keynesiane costituisce l’ulteriore dimostrazione che “la situazione politica in Italia è grave ma non è seria” (Flaiano).
Note
[1] Questo è avvenuto anche perché, a causa della grande influenza del PCI (e del riformismo in senso più ampio – oggi ereditato culturalmente dalla quasi totalità del “movimento” in quello che noi definiamo neo-riformismo), si è ritenuto da sempre – ed ancora si ritiene – che l’intervento nelle istituzioni (cioè nello Stato) – e non il loro sovvertimento – fosse la strada verso il “socialismo”.
[2] Tanto è vero che ci sono autori che parlano addirittura di marxisti influenzati dal keynesismo (cfr Riccardo Bellofiore…).
[3] Si pensi, per fare un esempio, al discorso sulla pianificazione realizzata dai liberi produttori associati di cui Marx parla nel primo libro del Capitale (in particolare nel paragrafo del primo capitolo dedicato al feticismo delle merci).
[4] Ovvero, la crisi (Ndt).
[5] Anwar Shaikh, U.S Capitalism in crisis, U.R.P.E, New York, 1978, Trad.it. Antiper 2012.