Antiper | Antifascismi
Tratto da Antiper, Essere antifascisti. Riflessioni su fascismo e democrazia, aprile 2009, ver. 2.0
In questi anni i partiti della sinistra riformista hanno usato il “pericolo fascista” per chiamare al voto un “popolo della sinistra” sempre più deluso e soprattutto per convincerlo della necessità di costruire cartelli elettorali e accordi istituzionali con partiti più o meno apertamente confindustriali.
Ma mentre ogni tanto il centro-sinistra vinceva sul terreno elettorale, la destra intanto dilagava sul piano politico e culturale.
Del resto, quando è la “sinistra” che istituisce i lager-CPT per gli immigrati o che usa i soldi dei lavoratori per ridurre le tasse alle imprese o che manda gli aerei a bombardare la Jugoslavia senza neppure coinvolgere il Parlamento… è evidente che destra e “sinistra” diventano concetti inadeguati a comprendere il quadro politico esistente; da Rifondazione Comunista alla Lega Nord, passando per PD e PDL, i partiti sono tutti formalmente diversi ma poi, qualunque sia la maggioranza, le politiche di Governo sono tutte sostanzialmente identiche. Post-fascisti e post-antifascisti, finti comunisti e veri anti-comunisti, liberisti di sinistra e liberisti di destra… si contendono il Governo del paese per difendere gli interessi delle imprese e massacrare socialmente i lavoratori [1]. Gli italiani non lo hanno ancora capito ed è per questo che gli uni continuano a votare pensando di impedire la vittoria elettorale di una sinistra che non ha nulla di ciò che storicamente in Italia è stato concepito come “di sinistra”, mentre gli altri continuano a votare pensando così di impedire la vittoria elettorale di una destra che però intanto stravince nel “senso comune”.
Il fascismo italiano è stato indubbiamente un fenomeno storico articolato nel quale sono confluiti molti fattori anche – apparentemente – contraddittori. Ma un elemento è certo: quando ricevette l’incarico per formare il nuovo Governo nell’ottobre del 1922 Mussolini era il capo di un movimento che alle elezioni del 15 maggio 1921 aveva raccolto poco più di una trentina di deputati, tra l’altro 2 soli dei quali nella lista fascista [2] e tutti gli altri in altre liste (i “blocchi nazionali”). Nonostante le difficoltà dei socialisti e le violenze degli squadristi gli italiani, chiamati a votare, non avevano certo dato al fascismo il risultato che esso sperava costringendolo a venire definitivamente allo scoperto con la “marcia su Roma”. Ma anche la “marcia su Roma” fu un mezzo fallimento malgrado la benevolenza con cui l’esercito trattò manifestanti che si proponevano di scorrazzare verso la capitale compiendo violenze ad ogni tappa. Invece di dichiarare lo stato d’assedio che avrebbe permesso all’esercito di spazzarli via, fu permesso agli squadristi di arrivare a Roma e a Mussolini di diventare Primo Ministro. Questo, a memoria delle responsabilità dirette che Monarchia e liberali/popolari hanno avuto nell’ascesa del fascismo.
Del nuovo governo facevano parte il Partito Nazionale Fascista, il Partito Popolare Italiano di Don Sturzo [3], il Partito Liberale, il Partito della Democrazia Sociale. Solo 3 ministri erano fascisti.
Il fascismo pervenne al potere grazie soprattutto alla protezione politica ed economica del grande capitale agrario e industriale italiano, grazie all’appoggio del Re e dei partiti liberali e cattolici, anche se la base sociale del suo pur limitato consenso elettorale era sostanzialmente sotto-proletaria (reduci di guerra, soprattutto) e piccolo-borghese; il famoso “consenso” al regime crebbe solo successivamente.
Il fascismo si presentò in alternativa al capitalismo e al comunismo, ma in realtà fu sempre strettamente collegato al padronato [4] ed allo Stato di cui fu braccio para-militare; l’abolizione delle libertà sindacali, sancita con l’accordo di Palazzo Vidoni nel 1925 fu il sigillo “istituzionale” più evidente di questo collegamento (come lo furono – “extra-istituzionalmente” – i pestaggi e gli assassini di militanti operai e contadini, comunisti e socialisti).
Per questa ragione, una posizione autenticamente anti-capitalista [5] non può che essere anche anti-fascista. Un conto, quindi, è la critica dell’antifascismo posticcio della democrazia borghese; un altro conto è la critica tout court dell’antifascismo.
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Come ci insegna il mai troppo apprezzato (e quasi sempre misconosciuto) materialismo storico se vogliamo capire qualcosa dell’evoluzione delle idee dobbiamo provare a capire qualcosa dell’evoluzione della realtà giacché le idee sono spesso e principalmente il riflesso di questa realtà.
Per fare un esempio su cui torneremo più volte in questo contributo perché ne costituisce il cuore: lo sviluppo “ideologico” della xenofobia avrebbe molto meno agio in una società nella quale, qualsiasi fosse il numero di immigrati, la forza-lavoro offerta fosse quantitativamente inferiore a quella richiesta (se fossimo in una condizione di ipotetico “pieno impiego”) perché la base materiale della xenofobia è costituita dalle contraddizioni che l’arrivo degli immigrati producono realmente all’interno della società. Poi, queste contraddizioni possono essere risolte in modo solidale o in modo – appunto – xenofobo, ma si tratta di una diversa risposta ad una stessa realtà oggettiva. Una risposta solidale sarebbe possibile se esistesse una diffusa coscienza di classe, ovvero la comprensione dei lavoratori italiani di essere parte della stessa classe dei lavoratori immigrati, entrambi sfruttati dalla classe dei capitalisti. Ma le classi – ce lo hanno ripetuto in tutte le salse – sono “cose del passato”… Persino i sindacati non sono più “dei lavoratori”, ma “dei cittadini”.
Una concezione classista della società è il primo argine contro la xenofobia e il razzismo tra le file dei proletari, laddove, al contrario, il “supremo interesse della nazione”, la concertazione tra padroni e operai, gli spalancano culturalmente la porta. Ecco perché del dilagare della xenofobia e della “guerra tra poveri” non dobbiamo considerare responsabili solo le forze politiche di destra che ne fanno una bandiera programmatica (come la Lega Nord o i vari post-neo-fascisti), ma anche quelle forze politiche e sindacali che si definiscono progressiste, “solidali”, “di sinistra”… e che non perdono occasione per mostrare il proprio volto compassionevole e paternalistico nei confronti degli immigrati; quelli che dicono che tutti hanno il diritto di emigrare, ma poi firmano i decreti flussi; quelli che propongono la cittadinanza agli immigrati, ma poi li sbattono nei campi di concentramento se ai capitalisti non interessano; quelli che di fronte ad una crisi economica che manda sul lastrico milioni di lavoratori propongono di risparmiare soldi da dare alla polizia per “aumentare la sicurezza”…
La xenofobia è la risposta – reazionaria, certo – dei proletari alla concorrenza interna alla propria classe per accaparrarsi un “bene limitato” come il posto di lavoro. Chiedendo di mandar via gli immigrati, i lavoratori italiani chiedono di non essere messi in concorrenza al ribasso con loro; si lasciano ammaliare da presunti “diritti prioritari” (“prima gli italiani” [6]) perché sperano in questo modo di cavarsela a buon mercato soprattutto in epoca di crisi e di scarsezza di posti di lavoro.
Così finisce che gli operai della Indesit in via di delocalizzazione in Polonia assumano posizioni semi-leghiste (pur non essendo, con tutta probabilità, leghisti, e questo significa egemonia) mentre “intellettuali organici” come Gad Lerner fanno loro la morale [7]. Ma a Gad Lerner non fa concorrenza l’arrivo di proletari dall’Est o dal Sud del mondo perché il suo posto di lavoro non è sottoposto che alla concorrenza di altri “intellettuali” ancora più servili di lui (e non è facile); agli operai italiani, invece, fa concorrenza eccome l’arrivo di immigrati in Italia e la minaccia di delocalizzazione delle imprese. In assenza di una cultura di classe quale può essere la risposta più “spontanea” se non quella di chiedere un trattamento di riguardo “in quanto italiani”, straparlando a vanvera di presunte maggiori professionalità…
Ma questo modo di affrontare le cose – gli italiani contro gli immigrati – è proprio ciò che desidera chi ci sfrutta entrambi
“La nostra divisione è proprio ciò che auspicano le classi dominanti per poterci controllare meglio e poterci sfruttare di più. I padroni dividono gli immigrati dagli italiani e anche dagli altri immigrati (ad esempio formando intere aziende, settori lavorativi, quartieri, zone… composti integralmente da persone della stessa provenienza); in questo modo il senegalese si riconosce solo nel senegalese, il rumeno nel rumeno, il peruviano nel peruviano, il cinese nel cinese. E in questo modo vengono messi gli uni contro gli altri e gli italiani contro tutti.
Ecco perché rimanere chiusi ciascuno nelle proprie comunità è un errore che non possiamo permetterci il lusso di commettere; dobbiamo superare le differenze linguistiche e culturali, rispettare le credenze religiose come fatto privato.
Non possiamo confrontarci sulla base di ciò che ci divide, ma sulla base di ciò che ci unisce ovvero il fatto di essere tutti membri della classe dei lavoratori salariati, sfruttati dai padroni a fini di profitto” [8].
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Quella che è in atto è una vera e proprio rivoluzione passiva, una “controrivoluzione culturale di massa” che scava giorno dopo giorno nel sentimento popolare e viene coadiuvata da una campagna d’odio scatenata attraverso giornalisti prezzolati lanciati alla caccia del rom ladro di bambini e del rumeno stupratore. I fascisti, ovviamente, si fanno zelanti interpreti e fomentatori di questo odio basato sulla paura suscitata dall’insicurezza sociale per costruire il proprio consenso popolare.
Poiché è su questo piano che può oggi svilupparsi una vera e propria mobilitazione reazionaria, è su questo piano che deve svilupparsi la risposta del movimento antifascista. Più che coltivare astrattamente la “memoria storica” si tratta di mostrare concretamente ai proletari che la loro divisione li indebolisce mentre la loro unità li rafforza, che l’unica “patria” che essi hanno è la propria classe protesa alla conquista del socialismo e, in prospettiva, del comunismo perché il comunismo è l’unica società nella quale non esiste “concorrenza tra poveri” per accaparrarsi il “diritto” ad essere sfruttati.
Note
[1] La CGIL ha scoperto nel marzo 2009 (cfr. inchiesta Ires) che i salari dei lavoratori sono fermi a quelli del 1993. Ma dai? Poi però la CGIL si dimentica di dire che in questi 15 anni il refrain più gettonato è stato quello della concertazione e della “politica dei redditi” per frenare l’inflazione e “rilanciare” l’economia.
[2] Partito Nazionale Fascista (0,2% dei voti). In compenso alle elezioni del 24 aprile 1924, le liste fasciste raccolsero il 65% dei voti. In due anni il fascismo era passato da zero a 2/3 dei voti. Una bella crescita, come ebbe a sottolineare il povero Giacomo Matteotti.
[3] Che, tra parentesi, aveva un consenso, nel 1921, del 20%.
[4] Basti pensare che la prima sede del movimento fascista (cioè dei “Fasci italiani di combattimento”) a Milano fu una sede dell’Associazione Lombarda degli Industriali.
[5] Nel senso esposto in Laboratorio Marxista – Associazione Primo Maggio, I nostri compiti nell’immediato… ma non troppo, 2005, Autoproduzioni:
“Quando parliamo di “superamento” del capitalismo o di “abolizione dello stato di cose presente” intendiamo abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, abolizione dello sfruttamento della forza-lavoro e del sistema del lavoro salariato, abolizione della rendita e della trasmissione ereditaria della proprietà individuale, abolizione della divisione del lavoro e della selezione di classe nell’istruzione e la formazione, abolizione delle disuguaglianze nell’accesso alla ridistribuzione della ricchezza sociale complessivamente prodotta, ecc..
“Ecc” poi – significa tantissime altre cose che ciascuno di noi può immaginare per “pensare la società futura”: dal progressivo raggiungimento di un legame armonico tra uomo e uomo e tra uomo e natura al superamento delle superstizioni religiose, dal pieno sviluppo della libera individualità dell’uomo al dispiegamento del suo potenziale culturale e creativo, dalla costruzione di una comunità umana non più scissa in sfruttati e sfruttatori all’estinzione dello Stato, garante dell’inconciliabilità tra le classi e del dominio di una classe su un’altra…
Il discorso potrebbe proseguire all’infinito. E forse all’infinito proseguirà. Quello che ci preme sottolineare è che a noi interessa “arruolare” nei ranghi dell’anticapitalismo settori sociali e movimenti politici solo nella misura in cui è chiara la loro assoluta non ambiguità nei confronti nel sistema politico dominante. Chi appoggia o non denuncia le “guerre umanitarie” non può stare nel campo anticapitalista, così come non possono starci coloro che sottoscrivono leggi che istituiscono “centri di permanenza temporanea” o introducono forme di caporalato nel mondo del lavoro o appoggiano elettoralmente (in modo diretto o indiretto) esponenti di partiti e partiti che fanno questo. Ciò, del tutto indipendentemente dalla percezione auto-soggettiva e dalla “falsa coscienza” dei militanti di base, ed ancor più indipendentemente dalle dichiarazioni più o meno radicali dei leader o dalle opportunistiche acrobazie politiche dei vari gruppi pseudo-rivoluzionari.”
[6] “Dimenticando”, ovviamente, che gli italiani sono emigrati per decenni in tutto il mondo:
“Si calcola che il numero di italiani emigrati dalla seconda metà dell’800 ad oggi sia di circa 30 milioni di cui solo il 40% rientrati: esattamente 29.036.000 partiti di cui 10.275.000 tornati e 18.761.000 rimasti. Tanto per avere un’idea dell’ordine di grandezza di questo fenomeno basti pensare che al momento dell’unità d’Italia (nel 1870) la popolazione nazionale era costituita da circa 25 milioni di persone. Si può dunque affermare che in ogni famiglia proletaria c’è una qualche storia di emigrazione. Le comunità di origine italiana sono composte da decine di milioni di persone. Tanto per fare alcuni esempi: 12 milioni in Argentina, 18-20 milioni in Brasile, 18 milioni negli USA, ecc… Tutt’ora ci sono oltre 4 milioni di italiani all’estero ai quali, da alcuni anni, è consentito votare per le elezioni politiche italiane. Non è invece consentito il voto, neppure amministrativo, a chi, come gli immigrati, qui risiede, qui fa crescere i propri figli, qui contribuisce alla ricchezza nazionale”.
Dall’intervento di Primomaggio alla Giornata della fraternità tra italiani e immigrati promossa dall’Associazione “Thomas Sankara”, 20 dicembre 2008, Centro Culturale “Pablo Neruda”, Ronchi, Marina di Massa (MS).
[7] Cfr. La7, L’infedele. Trasmissione del marzo 2009.
[8] Dall’intervento di Primomaggio alla Giornata della fraternità tra italiani e immigrati.