Marco Riformetti | Il Covid-19 e la (nuova) crisi che verrà
Pubblicato da La città futura, il 18 aprile 2020
Dopo alcune settimane dallo scoppio dell’epidemia di Covid-19 in Occidente è già molto diffusa la consapevolezza che questa crisi produrrà enormi effetti economici e sociali
“L’economia mondiale non ha mai visto niente di simile. Quasi tutte le previsioni economiche per il 2020 parlano di una contrazione del PIL globale del 3-5%, peggiore quanto, se non di più, di quella della Grande Recessione del 2008-9.
Secondo l’OCSE, nella maggior parte delle economie la produzione diminuirà in media del 25%, mentre intanto i “lockdown” vanno avanti e interesseranno direttamente una quota di settori che rappresentano fino a un terzo del PIL delle principali economie. Per ogni mese di contenimento è prevista una perdita di 2 punti percentuali nella crescita del PIL annuale”[1].
In una situazione di questo tipo (ma in verità potremmo dire in ogni situazione) anche solo pensare di lasciare al mercato il compito di trovare autonomamente un equilibrio “efficiente” e “equo” è pura follia. Le conseguenze del virus costituiscono, per usare il linguaggio degli economisti, un’esternalità negativa talmente macroscopica da rendere indispensabile un massiccio intervento dello Stato. Non c’è neo-liberista che non lo capisca.
Ma ecco che non appena lo Stato sembra tornare protagonista assoluto della scena, scatta il classico sillogismo della sinistra: se il mercato è il Male e lo Stato deve sostituire il mercato, allora lo Stato, se non è propriamente il Bene, è quanto meno un bene. Il dubbio che Stato e mercato possano agire in modo “solidale” (diciamo, per privatizzare i profitti e socializzare le perdite [2]) non sfiora la mente di tante e tanti che infatti hanno immediatamente ricominciato a recitare il de profundis del cosiddetto neo-liberismo (il quale dev’essere peraltro duro a morire giacché era già stato dichiarato defunto all’indomani del crack di Wall Street del 2007-2008 e dei relativi salvataggi di Stato).
Che lo Stato fosse stato il padre del cosiddetto “libero mercato” lo hanno raccontato Karl Polanyi [3] e Karl Marx [4]; mentre Adam Smith, da buon filosofo morale, ebbe a riconoscere che il mercato produce la polarizzazione della ricchezza e dunque la necessità “morale” – nel senso della morale borghese – del suo riequilibrio.
“Ben lontano dal teorizzare un mercato autoregolantesi che funzionerebbe al meglio con un apparato statale residuale o inesistente, nella Ricchezza delle nazioni, così come nella Teoria dei Sentimenti morali o nelle inedite Lezioni sulla giurisprudenza, Smith propone l’esistenza di uno stato forte, capace di creare e riprodurre le condizioni necessarie per l’esistenza del mercato stesso, capace di servirsene come di un efficace strumento di governo e capace di imporgli delle regole intervenendo attivamente per limitarne le conseguenze socialmente o politicamente negative” [5].
Smith, ad esempio, proponeva di
“‘provvedere lo stato […] di risorse sufficienti a fornire i servizi di pubblica utilità’ e ‘garantire alla popolazione un alto tenore di vita’”[6].
Dunque, non è mai stato ignoto che il libero mercato arricchisce pochi, impoverisce molti ed ha bisogno dell’aiuto dello Stato per non fallire e per riprodurre la sua logica. Perché allora, dal nuovo protagonismo politico ed economico dello Stato derivante dalla pandemia di Covid-19, gli anti-neo-liberisti deducono la morte del neo-liberismo? Forse perché pensano che neo-liberismo e Stato siano antitetici. Ma se lo pensano, pensano male.
“il neo-liberismo non sostiene più, infatti, che le spese statali debbano essere limitate ai soli settori della difesa, della giustizia e dell’ordine pubblico ma, in contrapposizione dialettica con i fautori del Welfare State, ritiene che lo Stato debba intervenire solo nei casi di evidente fallimento del mercato” [7].
Non tragga in inganno il “solo”. Nella teoria economica il concetto di “fallimento del mercato” è collegato (inversamente) con quello assolutamente teorico e irrealistico di “concorrenzialità perfetta” [8] e, per il semplice motivo che il concetto di concorrenza perfetta è una costruzione teorica a cui non risponde nessuna effettualità [9], è facile dedurre che il mercato non può mai non fallire e dunque che lo Stato non può mai non intervenire.
L’ultimo grande crack del 2007-2008 ha mostrato chiaramente che, quando le grandi banche stanno per ricevere l’estrema unzione, lo Stato interviene per riportarle in vita spingendo i banchieri a livelli sempre più alti di azzardo morale: d’altra parte, se so che alla fine sarò comunque salvato, non c’è limite al rischio che posso prendermi, dato che in effetti non è un vero rischio. Infatti, dopo la grande paura del 2007-2008, tutto è tornato sostanzialmente come prima perché l’unica variabile che avrebbe potuto fare la differenza – la rabbia popolare – è rimasta confinata soprattutto in movimenti come Occupy Wall Street o nelle campagne elettorali per la candidatura di Bernie Sanders senza riuscire a produrre, al momento, il necessario salto di qualità politico e organizzativo (banalmente, la completa “autonomizzazione” dal Partito Democratico).
Gli anti-neo-liberisti sembrano convinti che Stato e mercato, nel capitalismo, non possano essere come i famosi “ladri di Pisa”, che litigavano di giorno e rubavano insieme di notte; dichiarano che la nuova morte del neo-liberismo apre la strada al ritorno di un “capitalismo dal volto umano” che redistribuirà ricchezza come ai “bei vecchi tempi” (e anche qualcosa in più): reddito di cittadinanza ricco, universale e incondizionato, pensioni e salari minimi (ma non sono già abbastanza al minimo?) e giusti (rispetto a chi e a cosa?), sanità d’avanguardia, casa e scuola gratis, piena occupazione…
I soldi? Semplice, prendiamoli ai ricchi (diavolo, averlo saputo prima…!). Oppure, ancora più semplice, adottiamo la “soluzione universale” [10]: usciamo dall’area-Euro, stampiamo moneta italica (nuova o vecchia, a seconda che si adotti la Lira o la Libera [11]), svalutiamo, esportiamo, incassiamo, spendiamo e… godiamo! In fondo il capitalismo potrebbe non essere il peggiore dei mondi possibili.
Ma ci sono anche gli inguaribili ottimisti che si spingono a prevedere l’inevitabile ritorno di fiamma del comunismo in quanto, a forza di stare chiusi in casa, riscopriremo certamente che siamo zoon politikon e dunque abbiamo bisogno di stare insieme agli altri (come se andare allo stadio o a fare shopping al Megastore o pigiarsi in discoteca o prendere l’ostia in chiesa… non fosse anch’esso “stare insieme”).
Ora, è certamente vero che la speranza fa bene allo spirito; ma la speranza fa bene anche al corpo – ovvero alla nostra capacità di iniziativa politica – solo se, “blochianamente”, rappresenta una proiezione realistica del presente, altrimenti tanto vale sperare nella Provvidenza.
Il fatto è che lo Stato può essere espressione degli interessi di una classe o di un’altra, ma non può essere espressione degli interessi di tutte le classi; almeno, se siamo consapevoli che gli interessi delle diverse classi sono, appunto, diversi. Dunque non basta auspicare l’intervento dello Stato, ma bisogna domandarsi qual è il tipo di Stato che abbiamo di fronte e se esso possa (o meno) essere indotto ad operare concretamente a favore dei lavoratori.
Oggi tutte le varianti della sinistra “ragionevole” si dicono più o meno orgogliosamente “keynesiane” (oppure lo sono di fatto senza saperlo). Perché? Intanto, banalmente, perché non essendo marxiste fraintendono il ruolo dello Stato che non è quello di proteggere la condizione sociale dei dominati ma, tutto al contrario, quello di garantire i più alti tassi di profitto dei dominanti.
Inoltre, non avendo più fiducia in un cambiamento rivoluzionario – cosa peraltro comprensibilissima data l’attuale fase storica – gli anti-neo-liberisti si mettono a dare consigli alla classe dominante su come uscire dalle sue [12]crisi facendo al contempo il bene della povera gente. E questo è un po’ meno comprensibile.
E in cosa consistono questi consigli? Semplice: i ricchi diano soldi ai poveri così i poveri potranno comprare le merci prodotte dalle imprese dei ricchi e questo rilancerà i consumi interni, l’economia, la crescita, la ricchezza, il benessere, la felicità.
Ma se il “keynesismo” diventa il semplice sostegno statale alla domanda effettiva allora si può fare in molti modi: dare denaro ai poveri per aumentare il consumo di beni di prima necessità è solo uno dei tanti, di certo quello meno praticato (e, quando praticato, praticato obtorto collo). Ma il “keynesismo” si può fare anche (e così soprattutto si è fatto e si farà) fornendo denaro alle imprese “per investire” e fare profitti, dietro la promessa – spesso non mantenuta – della creazione di posti di lavoro di cui tutta la società potrebbe poi beneficiare. Persino la costruzione di F35 o della TAV sono esempi di keynesismo, così come lo erano gli investimenti nell’industria bellica al tempo del New Deal. Per non parlare del keynesismo finanziario del buon Mario Draghi che ha elargito, tramite il cosiddetto “quantitive easing” (QE), migliaia di miliardi di euro al sistema europeo delle banche
“La BCE ha speso 2,6 trilioni di euro (3 trilioni di dollari) in quasi quattro anni, acquistando principalmente debito pubblico, ma di impresa (corporate), titoli garantiti da attività (asset-backed securities) e obbligazioni garantite (covered bonds) – a un ritmo di 1,3 milioni di euro al minuto. Ciò equivale a circa 7.600 euro per ogni persona che appartiene al sistema valutario (dell’euro)” [13].
Ecco, potevano dare 7.600 euro ad ogni persona dell’area-Euro e invece hanno riempito le casse ai capitalisti, ai banchieri e agli Stati. Come mai? Beh, è molto semplice, perché hanno il potere e fanno quello che vogliono. Insultare Draghi o la Lagarde sui social può essere divertente, ma non cambia granché la situazione.
Come è successo nelle crisi passate, così succederà nella grande crisi che sta per arrivare con la pandemia. Molte persone di sinistra, sinceramente indignate, diranno che “la crisi la devono pagare quelli che l’hanno provocata!” e chiederanno allo Stato di agire attraverso l’imposizione fiscale per spostare un po’ ricchezza dal lato del capitale verso quello del lavoro.
Sarebbe giusto fare come Robin Hood, prendere ai ricchi per dare ai poveri? Certo. Produrrebbe una maggiore equità sociale? Nell’immediato, forse, in certa misura, chissà. Permetterebbe al sistema di fuoriuscire dalla crisi? No. Lo faranno? Lo Stato sarà come Robin Hood? Forse, ma solo con la canna del fucile puntata alla testa. Se qualcuno ha il fucile si faccia avanti.
Ovviamente quella del “fucile” è solo una metafora (con la quarantena le armerie sono chiuse) per dire che lo Stato non può essere “convinto”, ma solo “costretto” ad attuare politiche a favore dei lavoratori e che questo può avvenire solo quando i lavoratori hanno un’elevata forza “associativa” e “strutturale” (come le chiamerebbe Erik Olin Wright)
“In questo articolo, la nostra attenzione si concentra soprattutto su ciò che definisco potere associativo della classe operaia – le varie forme di potere che derivano dalla formazione di organizzazioni collettive dei lavoratori. Ciò che include sindacati e partiti, ma anche una varietà di altre forme, come consigli di fabbrica, forme di rappresentanza istituzionale dei lavoratori nei consigli di amministrazione dentro situazioni di compartecipazione o anche, in talune circostanze, organizzazioni comunitarie. Il potere associativo può essere messo a confronto con quello che può essere definito come potere strutturale della classe operaia – ovvero il potere che deriva dalla semplice collocazione dei lavoratori all’interno del sistema economico. Il potere che deriva direttamente dalla rigidità del mercato del lavoro o dalla posizione strategica di un determinato gruppo di lavoratori all’interno di un settore industriale strategico costituiscono esempi di potere strutturale” [14].
Nella crisi che verrà, probabilmente, la forza “strutturale” dei lavoratori diminuirà, come spesso è avvenuto nelle crisi, quando aumenta la disoccupazione e diminuiscono i salari. In generale le lotte non pagheranno, per così dire. E anche la forza “associativa” dei lavoratori (la partecipazione a partiti di massa, sindacati, movimenti sociali) è destinata diminuire dal momento che la credibilità di politiche “riformiste” e di miglioramento sociale declinerà ulteriormente con l’ulteriore declino dei margini per la loro effettiva realizzazione. Quando le lotte vincono si diffonde la fiducia, ma quando non vincono si diffondono la sfiducia e il senso di impotenza.
Senza contare la retorica che ci chiederà “unità nazionale” e “coesione sociale” “per la ricostruzione”. Il “linguaggio da tempo di guerra” di oggi prepara il terreno al “discorso da dopoguerra” di domani.
Detto questo, per le forze che si propongono un cambiamento radicale dell’intera società quella che viene sarà una situazione politica e sociale molto difficile, e al tempo stesso densa di profonde contraddizioni e potenzialità che dobbiamo cercare di orientare verso la costruzione di un discorso che non sia solo anti capitalistico, ma che sia soprattutto oltre capitalistico.
Del resto, non è stato proprio nella devastazione prodotta dal primo conflitto mondiale, con le sue tragiche conseguenze sociali ed economiche, che sono maturate dialetticamente le forze che hanno permesso l’esplosione dell’Ottobre, il terremoto che ha mobilitato centinaia di milioni di persone nel cambiamento rivoluzionario della propria vita?
Note:
[1] Michael Roberts, Lives or livelihoods?, 6 aprile 2020 (trad. Antiper)
[2] Per fare un esempio, cfr. Dario Prestigiacomo, Agli azionisti 7,5 miliardi, a 200mila operai la disoccupazione: polemiche su Bmw, Daimler e Wolkswagen, EuropaToday, 12 aprile 2020 http://europa.today.it/lavoro/auto-dividendi-operai-licenziati.html.
[3] Cfr. Karl Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi.
[4] Cfr. Karl Marx, Il capitale, libro primo, cap. XXIV, La cosiddetta accumulazione originaria, Einaudi, Roma, 1980. Qui Marx spiega come lo Stato abbia creato, attraverso leggi come quelle relative alle enclusures degli open fields, un mercato della forza-lavoro dal quale potessero attingere le nascenti industrie inglesi.
[5] Giovanni Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, 2008, pag. 56-7.
[6] Giovanni Arrighi, Ibidem, pag. 57.
[7] Liberismo, Dizionario economico online, Simone.
[8] Cfr. Balestrino, Galli, Spataro, Scienza delle finanze, UTET, 2015 (per fare un esempio di manuale di certo non di stampo marxista).
[9] Lo aveva dimostrato già Piero Sraffa in un saggio del 1926 (traduzione italiana in Sraffa, Saggi, Il Mulino, Bologna, 1986). Anche la crema degli economisti liberisti come Friedrich von Hayek e Milton Freidman, pur ritenendo che l’astrazione della concorrenza perfetta potesse costituire un buono strumento analitico, dovettero convenire sulla sua inesistenza nell’economia reale.
[10] “Universale” in quanto condivisa un po’ da tutti, dall’estrema destra all’estrema sinistra, nonché dalle varie espressioni del neo-populismo destro-sinistro.
[11] Cfr Luciano Vasapollo con R. Martufi e J. Arriola, Il risveglio dei maiali, Jaka Book.
[12] Le crisi sono del capitale; sono le nefaste conseguenze che sono dei lavoratori.
[13] Ritvik Carvalho, Dhara Ranasinghe, Tommy Wilkes (Reuters), The life and times of ECB quantitative easing, 2015-18,
[14] Erik Olin Wright, Working-Class Power, Capitalist-Class Interests, and Class Compromise, “American Journal of Sociology”, 105, 4, pp. 957-1002 (Trad mia)