Antiper | Questioni dell’antifascismo
Tratto da Antiper, Essere antifascisti. Riflessioni su fascismo e democrazia, aprile 2009, ver. 2.0
In un paese che, come avrebbe detto Gramsci, ha avuto una Controriforma senza aver avuto una Riforma e in cui – a differenza di Francia, Inghilterra, Stati Uniti… – la borghesia ha conquistato il potere attraverso mille compromessi con l’ancient régime, con un Risorgimento che si è concretizzato più che altro in una sorta di colonizzazione sabauda della penisola realizzata attraverso 3 guerre di indipendenza che gli “italiani” non hanno condotto per nulla in modo indipendente; in un paese che ha iniziato due guerre mondiali da una parte della barricata e le ha terminate, al volgere degli eventi, dall’altra parte; in un paese in cui persino gli ultra-“nazionalisti” fascisti si sono schierati al fianco di un paese occupante per rastrellare, torturare e falcidiare popolazioni inermi…; in questo paese era inevitabile che la Resistenza del 1943-‘45 dovesse assurgere, nell’immaginario della borghesia progressista e del riformismo italiani, al rango di Secondo Risorgimento (come anche tanta retorica “resistenzialista” ha suggerito per decenni [1]), di definitivo “atto costitutivo”, di – nientepopodimeno – “religione civile” [2].
Ma la vera fondazione dell’Italia “moderna” si è fatta più che altro sul sudore di milioni di emigranti e sullo sfruttamento di milioni e milioni di lavoratori da parte del capitale grande e piccolo. E questo è anche il trait d’union di monarchia e Repubblica, di fascismo e “democrazia”.
Sul fatto che già il 3 giugno 1946 l’Italia fosse – Costituzione o meno, governo di “unità nazionale” o meno – un paese organicamente capitalistico non possono esserci seri dubbi. Tuttavia, da questa semplice constatazione discendono almeno 3 primi importanti elementi politici.
1) Il primo elemento riguarda il tema della cosiddetta “vittoria” della Resistenza. Su questo punto c’è un problema militare e, soprattutto, un problema politico.
Il problema militare consiste nel fatto che parlare di “vittoria della Resistenza” può far intendere che la Resistenza sia riuscita a cogliere l’obbiettivo della Liberazione (ammesso che tale obbiettivo sia stato effettivamente colto) per effetto della propria autonoma iniziativa ciò che, come noto, non è storicamente vero.
È difficile dire come sarebbero andate a finire le cose senza l’aiuto militare degli “alleati”. È persino difficile dire se quella degli Alleati fosse un’offerta “che non si poteva rifiutare” o meno. Il fatto è che quell’alleanza qualcuno (come la Resistenza jugoslava) l’ha, nella sostanza, declinata, nel senso che è riuscito ad impedire che si trasformasse in un’occupazione a guerra finita; e gli stessi francesi riuscirono, dopo la guerra, a rispedire i militari americani a casa propria [3].
Com’è ovvio, l’aiuto militare degli Alleati non fu certo disinteressato e lo abbiamo pagato duramente: “dal 24 al 26 aprile 1945”, infatti, l’Italia passò dall’occupazione militare tedesca all’occupazione politica, economica, culturale e militare nord-americana.
E qui nasce il problema politico. Un paese governato sin dall’immediato dopoguerra da un partito ipocritamente cristiano, ma autenticamente anti-comunista (in alleanza o meno con il PCI), dominato da una cultura clericale e semi-reazionaria (clerico-fascista la definiva Pierpaolo Pasolini), fedele esecutore delle direttive di Washington, disseminato di basi e installazioni USA-NATO con decine di migliaia di militari americani di stanza, dipendente dal denaro del Piano Marshall…, non può essere definito sovrano (neppure nell’accezione borghese del termine) né, tanto meno, libero. L’occupazione nazista è durata meno di 2 anni ed ha provocato, con la sua brutalità, la ribellione; quella americana dura da 60 anni e, con la sua pervasività, ha provocato la progressiva assuefazione, ciò che dimostra fino a che punto molti italiani siano capaci di adattarsi, in cambio di una ciotola di pappa, a qualsiasi situazione storico-politica.
2) Il secondo elemento è quello dei cosiddetti “valori” della Resistenza. Parlare di “valori” nella resistenza italiana significa supporre un’omogeneità di fini ultimi che in realtà non è mai esistita e ovviamente non poteva esistere date le differenti, contraddittorie e spesso apertamente contrastanti motivazioni sussistenti tra le varie componenti politiche e, soprattutto, sociali che di quell’esperienza furono protagoniste [4].
Ora, la cosa sarebbe particolarmente evidente se mettessimo a confronto esperienze come la Volante Rossa [5] milanese o la Brigata Osoppo friulana, ma anche se escludiamo questi due “estremi” resta una varietà di strategie e “nature” che non possono essere appiattite su un’unica matrice riassunta idealmente – e idealisticamente – nel concetto di “Valori”.
Che la Resistenza italiana sia stata un’esperienza – politicamente, ancora più che socialmente – dalla natura “interclassista” è un fatto noto. Questa natura la si può considerare un limite o una ricchezza. Si può dire che un “fronte popolare” interclassista non può che inquinare e ostacolare l’ipotesi di costruzione di un processo di trasformazione sociale rivoluzionario. Ma si può anche dire che un “fronte popolare” elettorale sotto l’egemonia ideologica di partiti borghesi e una lotta di liberazione nazionale armata sotto l’egemonia politico-organizzativa di un partito comunista non sono, evidentemente, la stessa cosa. Il punto non è (solo) questo, ma il fatto che proprio l’“interclassismo” – ripetiamolo, politico e sociale – della Resistenza non poteva che generare obbiettivi, parziali e generali, diversi e spesso divergenti. Repubblicani e monarchici, comunisti e “cattolici”, borghesi e proletari, ecc… non potevano nutrire intenzioni convergenti rispetto alla Resistenza, a partire dalla stessa valutazione sul parteciparvi o meno (e in effetti, le varie componenti parteciparono alla Resistenza in misura e con modalità molto diverse). I monarchici (che nell’Italia di quell’epoca erano moltissimi, come si poté evincere nel referendum del 2 giugno 1946) avevano convissuto benissimo con il fascismo e non avevano alcun interesse a combatterlo, tanto meno militarmente, tanto meno assieme a comunisti, socialisti e repubblicani [6]. Così la Chiesa cattolica. Ma un conto erano il contadino monarchico o l’operaio cattolico; un altro conto erano le classi dirigenti monarchiche e democristiane. La limitata partecipazione di monarchici, cattolici, liberali… alla Resistenza (cui faceva da contraltare la costituzione – quella sì, assurda e incomprensibile – di un Comitato di Liberazione Nazionale “paritetico”) non fu forse suggerita dalla preoccupazione che attraverso l’autorevolezza conquistata nella lotta di liberazione i comunisti riuscissero a conquistare la simpatia e l’appoggio di milioni di operai e contadini? Ma certo che fu così; quelle componenti parteciparono alla Resistenza non certo per amore dell’antifascismo, ma per il timore di un’avanzata dei comunisti (cosa che peraltro avvenne comunque perché il PCI riuscì a costruire un rapporto veramente di massa con il proletariato italiano proprio grazie alla Resistenza [7]).
Perché i comunisti e i proletari potessero avere più interesse di monarchici e borghesi a partecipare alla Resistenza è presto detto: perché in larga parte comunisti e proletari vedevano nella caduta del fascismo repubblichino e nella liberazione nazionale dall’occupazione nazista una tappa (diciamo, “democratica”) di un processo più generale: la liberazione nazionale doveva essere il primo atto della liberazione sociale. Questo valeva per tutti i “comunisti” e per tutti i proletari? No, lo sappiamo. La maggioranza del gruppo dirigente del PCI aveva già operato una ri-definizione non solo della propria linea politica, ma della propria intera linea strategica. Anche qui, si può discutere se il PCI abbia cambiato linea nel 1926 con il Congresso di Lione, dopo il 1937 e la morte di Gramsci o nel 1944 con la “svolta di Salerno”; possiamo discutere se l’abbandono dell’ipotesi rivoluzionaria sia stata una scelta di realismo [8] o un tradimento, se sia stata una valutazione “italiana” o un’imposizione dell’Unione Sovietica dopo l’accordo di Yalta; possiamo addirittura mettere in discussione se il PCI sia mai stato un partito veramente rivoluzionario. Ma pur non abboccando alla favola della “democrazia progressiva” come strategia per la conquista pacifica e democratica del socialismo, resta il fatto che il PCI del dopoguerra è un partito riformista che punta alla costruzione di un processo politico compatibile, certo, con il capitalismo, ma comunque poggiato sul consenso popolare e quindi, come ogni riformismo, bisognoso di risultati concreti per dimostrare la propria efficacia. La DC è, al contrario, il baluardo elettorale (e non solo [9]) contro la temuta vittoria delle forze democratiche (PCI e PSI), tanto è vero che la gran parte del consenso al fascismo si riversa sotto le insegne dello “scudo crociato”. Questo spiega anche l’estrema disinvoltura con cui la maggior parte dei fascisti italiani decise di entrare in massa nella DC che, pur con estrema e comprensibile “timidezza”, non poteva non proclamarsi antifascista [10].
3) Il terzo elemento su cui è importante riflettere riguarda una lezione (che dovrebbe essere) ben nota: quando deponi le armi in cambio di semplici parole – per quanto scritte su una Carta Costituzionale -, poi non ti puoi lamentare se i rapporti di forza cambiano a tuo svantaggio. Quando un Guardasigilli “comunista” si fa carico della “riconciliazione nazionale” e concede l’amnistia [11] ai fascisti, non solo tradisce i morti, i prigionieri, i torturati antifascisti e proletari nella Resistenza e nel “ventennio”, ma scava con le proprie stesse mani la fossa all’avanzata del movimento operaio che infatti, dall’immediato dopoguerra fino alla fine degli anni ’50, attraverserà una fase di grandissima difficoltà dalla quale comincerà ad uscire solo con lo sviluppo del cosiddetto “miracolo economico” [12] e la ripresa del conflitto sociale e sindacale.
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Problemi come quelli sin qui esposti infastidiscono una certa interpretazione “resistenzialista” che vorrebbe concepirsi come anti-revisionistica, ma poi finisce per inserirsi nel principale dei filoni revisionisti:
“Quando leggo le diverse interpretazioni che si danno della Resistenza provo un certo fastidio, una certa delusione: possibile, mi chiedo, che neppure di un evento che per venti mesi fu sotto gli occhi e il sentimento di tutti non si possa avere una memoria nel suo complesso univoca, come la si ha per un terremoto, per una alluvione?” […] “…per chi non c’è stato credo sia difficile rivivere quel sentimento di liberazione, di riappropriazione del proprio destino…” [13]
Ci sono eventi storici che sono stati “sotto gli occhi e il sentimento di tutti” per decenni (altro che per 20 mesi) e sui quali non c’è la benché minima concordanza; basti pensare, solo per fare un esempio inerente alla Resistenza, alla vicenda delle “foibe”. Per Giorgio Bocca può capire solo “chi c’è stato”. Ma “chi c’è stato” dove, nelle Langhe? L’esperienza particolare di Giorgio Bocca può diventare per semplice “auto-proclamazione” generale? Perché Bocca pretende di parlarci con i suoi libri di qualcosa in cui “non siamo stati” e che quindi, secondo lui, non siamo in grado di comprendere? Perché dovremmo fidarci della rievocazione storica e politica di Bocca? Se ci sono interpretazioni diverse la sua è l’unica “vera” mentre tutte le altre sono necessariamente false? Se per discutere di un pezzo di storia bisogna “esserci stati” esisterebbe una “storia” interrogabile, interpretabile, analizzabile…? È evidente che Giorgio Bocca, che per 60 anni si è proposto come uno dei depositari della verità storico-resistenziale non può che raccontare, della Resistenza, la sua versione, la sua interpretazione. Buona o cattiva, è comunque la sua. E poiché si tratta di una interpretazione che, come egli stesso afferma, è cambiata, quale dobbiamo considerare buona? Quella più vecchia e vicina emotivamente e storicamente agli eventi o quella lontana di dopo?
Sarebbe molto meglio riconoscere che una interpretazione “oggettiva” della storia è molto difficile, se non impossibile, sia perché anche i “fatti” stessi possono essere selezionati, combinati e vissuti soggettivamente – appunto – in modo arbitrario, sia perché nel prendere posizione non c’è nessun obbligo di onestà intellettuale (e infatti i fascisti ricostruiscono la storia della Resistenza in modo assai diverso dagli antifascisti), sia – soprattutto – perché la Storia può essere letta in senso generale come storia di classi in lotta o come storia di re, regine, imperatori o, perché no, partigiani delle Langhe… e la cosa fa, eccome, la sua bella differenza.
Lo stesso vale per la Resistenza. Richiamarsi a motivazioni soggettive e psicologiche – che poi incoerentemente si pretendono universali [14] – come la “la riappropriazione del proprio destino che coinvolse milioni di italiani” [15] – non ci porta da nessuna parte. Nell’intimo di ogni individuo anche la paura (e dunque il rifiuto) della chiamata in guerra o la suggestione dell’esperienza “eroica” o, certo, la “riappropriazione del proprio destino”… possono aver giocato – e sicuramente hanno giocato – un ruolo. Ma è possibile che tra milioni di italiani nessuno – secondo Bocca – abbia riposto nella Resistenza la speranza di un cambiamento generale [16] della società e tutti si siano immersi in quell’esperienza in modo puramente esistenzialistico, a rischiar la pelle per “riappropriasi del proprio destino” dopo che per due decenni non avevano granché manifestato questa intima esigenza? Che poi gran parte della speranza e volontà di cambiamento sociale si siano determinate per effetto del tracollo del fascismo nella guerra è appunto una spiegazione materialistica (e non idealistica, come la “riappropriazione del proprio destino”) all’evoluzione in senso antifascista di una parte importante delle masse popolari (particolarmente colpite dalla crisi economica che la guerra imponeva all’Italia).
La Resistenza non fu solo guerra civile come sostengono i fascisti che, essendo ideologicamente nazionalisti, non possono ammettere di essersi schierati contro la sovranità del proprio paese.
Ma non fu neppure solo lotta di liberazione nazionale contro i tedeschi come vorrebbero suggerire da opposti versanti gli interpreti borghesi o “estremisti” [17].
La Resistenza fu lotta di liberazione dall’occupazione tedesca e guerra civile di una parte di italiani contro un’altra parte – fascista – che aveva appoggiato Mussolini per 20 anni e costretto al carcere o all’esilio decine di migliaia di persone, che non aveva esitato a schierarsi con la Germania nazista durante la guerra, collaborando alle tante stragi che insanguinarono i nostri paesi soprattutto nell’inverno del 1944.
Fu anche giustizia – e non vendetta come ci raccontano gli “storici” di regime alla Giampaolo Pansa o alla Arrigo Petacco – contro coloro che avevano negato per due decenni ogni giustizia.
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Il PCI, che si sentiva “socio fondatore” della Repubblica, fu tra i principali pilastri della versione risorgimentale della Resistenza e del cosiddetto “riscatto del popolo italiano”. Ma non il “popolo” italiano riscattò sé stesso dalla vergogna del “ventennio”, bensì una sua parte minoritaria che minoritaria [18] restò anche dopo la guerra. Chi aveva comandato con il fascismo continuò a comandare con la “democrazia” mentre chi aveva sgobbato e subito angherie nel fascismo continuò a sgobbare e a subire angherie anche con la democrazia.
il PCI accredita l’idea di una Resistenza patriottica e neo-risorgimentale e non l’idea della lotta di liberazione nazionale come prodromo di una successiva lotta di liberazione sociale – com’era per migliaia di partigiani – perché il PCI non vede la Resistenza come primo passo verso la Rivoluzione, ma come primo passo verso l’integrazione nel processo democratico borghese. Di fronte all’impegno con cui i comunisti hanno difeso la “patria” (e le sue fabbriche) dall’invasore tedesco chi potrà mettere in discussione il loro diritto a candidarsi alla guida della Nuova Italia [19]? [20]
Chi tutto aveva concesso per dimostrare la propria “affidabilità democratica” (fino all’indecenza di liberare i fascisti torturatori) fu ripagato con una “moneta di stagno” e, dal 1948 in poi, relegato all’opposizione, in attesa di un avvento al Governo che però non sarebbe mai arrivato, a dimostrazione che sul terreno “democratico” (ovvero capitalistico) sono più serie le forze borghesi che non i parvenu riformisti.
Dalla pacificazione togliattiana con i fascisti gli italiani trassero la “morale” seguente: inutile darsi troppo da fare, le cose non cambiano. È così che, di smobilitazione in smobilitazione, di arretramento in arretramento, sfruttando un’autorevolezza conquistata con il sangue di migliaia di partigiani e proletari, si educa una classe intera alla subordinazione e alla rassegnazione.
La “via italiana” al “socialismo” era avviata.
Note
[1] E non fu proprio un caso se come “testimonial” delle Brigate partigiane dirette dal partito comunista e delle liste elettorali di “blocco popolare” degli anni ’40 fu scelta la figura di Giuseppe Garibaldi.
[2] “…la Resistenza è la religione civile del nostro Paese; la Resistenza è l’anima della Repubblica italiana”. Intervento alla manifestazione di Milano del 25 aprile 2007 di Fausto Bertinotti, fu Presidente della Camera.
[3] E questo non lo fecero i comunisti, ma il generale De Gaulle. “Era infatti il 7 marzo 1966 quando il generale Charles de Gaulle, in piena guerra fredda, decideva di far uscire la Francia dal comando della Nato, di cui, tra l’altro, era stata una delle fondatrici nel 1949. […] La Francia, unico paese del blocco occidentale, non avrebbe ospitato basi americane e soldati stranieri sul proprio suolo”, da megachip.info.
[4] Quando parliamo di diverse componenti politiche e sociali della Resistenza italiana non dimentichiamo mai, ovviamente, che il peso della componente proletaria e comunista fu molto più cospicuo e decisivo di quello di ogni altra componente.
[5] Cfr. Laboratorio Marxista – Ass. Primo Maggio, Volante rossa, Autoproduzioni, 2001.
[6] Anche se gli stessi fascisti, ormai “orfani” del Re, nel settembre del 1945 dovettero fondare la Repubblica Sociale Italiana contando sull’appoggio dell’esercito tedesco.
[7] Il PCI passò, elettoralmente, dal 5% del 1921 al 26% del 1948 e da qualche migliaio di iscritti dei primi anni ‘40 alle centinaia di migliaia di simpatizzanti della fine degli anni ’40 (come ricorda anche Giovanbattista Lazagna nell’introduzione al suo libro sulla Resistenza a Genova, Ponte rotto. La lotta al fascismo dalla cospirazione all’insurrezione armata, Edizione 1972 a cura del Comitato Nazionale contro la strage di stato (Soccorso Rosso), Sapere edizioni).
[8] L’impossibilità “secchiana” della continuazione della lotta partigiana per trasformarla in rivoluzione. Cfr. Laboratorio Marxista, Associazione Primo Maggio, Introduzione a Volante Rossa di Cesare Bermani.
[9] In Sicilia i poteri che si contrapponevano ai comunisti (mafia, Stato, DC, OSS-CIA, briganti…) scatenarono una vera e propria lotta armata contro i comunisti, soprattutto se attivisti sindacali e contadini. Bastino ricordare la strage di Portella delle Ginestre del 2 maggio 1947 (avvenuta all’indomani della vittoria del “blocco popolare” alle elezioni regionali siciliane) o l’omicidio di Placido Rizzotto che si collocano in tutta una serie di agguati mortali in tutta l’isola.
[10] Del resto tutte le forze politiche del cosiddetto “arco costituzionale” avevano sottoscritto una Carta Costituzione che prevedeva il divieto della ricostituzione del partito fascista.
[11] Promulgata con D.P.R. 22 giugno 1946, n.4, e riguardante anche i reati i reati commessi dopo l’8 settembre, come il collaborazionismo con il nemico (furono liberati anche responsabili di torture e massacri come alcuni componenti della famigerata “banda Koch”). Cfr, Mimmo Franzinelli, L’amnistia Togliatti. 22 giugno 1946: colpo di spugna sui crimini fascisti, Oscar Mondatori Storia, 2007.
[12] Che determinerà una nuova situazione di rapporti di forza favorevoli al rilancio delle lotte sociali e sindacali perché basati su una forte richiesta di forza-lavoro che farà lievitare i salari. Ma sarà con l’autunno caldo e i primi anni ’70 che avverranno le vere grandi conquiste del movimento operaio italiano del dopoguerra.
[13] Giorgio Bocca, Sulla politicità della storiografia e della memoria. Comunicazione per il Convegno di Vercelli del 28-29 gennaio 2000 dal titolo I fondamenti dell’Italia repubblicana: mezzo secolo di dibattito sulla Resistenza, non a caso organizzato dal Consiglio regionale del Piemonte, dal Comitato per l’affermazione dei valori della Resistenza e dei principi della Costituzione repubblicana, dall’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia e dall’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli, con il patrocinio del Comune di Vercelli ed il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Vercelli (atti reperibili su Internet).
[14] Tutti insieme spinti dalle stesse motivazioni individuali.
[15] Giorgio Bocca, Sulla politicità della storiografia e della memoria.
[16] Quindi non solo politico-istituzionale, ma anche economico-sociale.
[17] Nell’accezione data da Lenin in L’estremismo, malattia infantile del comunismo.
[18] Una minoranza molto ampia, certo, ma pur sempre una minoranza.
[19] In certe zone il PCI è praticamente l’unico partito a far parte del CLN locale e fa passare suoi membri come esponenti di altri partiti antifascisti per accreditare l’idea del fronte antifascista. Cfr. LM, Mostra sulla Resistenza.
[20] Antiper, Il ciclo sgonfiato, agosto 2008.