Giorgio Agamben | Chiarimenti (con una chiosa iniziale di Antiper)
Il filosofo Giorgio Agamben in una serie di articoli pubblicati su Quodlibet (Contagio, Chiarimenti, Riflessioni sulla peste) e sul Manifesto (Lo stato d’eccezione provocato da un’emergenza immotivata), pone alcune questioni in merito al modo in cui la società ha reagito all’epidemia Coronavirus.
Si tratta di questioni che sottendono probabilmente una visione paranoica del rapporto tra potere e masse, che hanno fatto guadagnare ad Agamben molte critiche e che tuttavia meritano di essere lette e analizzate – tanto più che si tratta di interventi brevi – a prescindere dal retro-pensiero agambeniano.
Nella misura in cui la traduzione del discorso di Agamben è un forma di pensiero anti-scientifico (singolare il riferimento a Ippocrate e sintomatico quello alla scienza come religione) allora rispondiamo “no, grazie” (come rispose Jean-Luc Nancy proprio ad Agamben che gli consigliava di non fidarsi dei medici e di non lasciarsi operarsi al cuore).
D’altra parte, non è prostrazione verso la Santa Scienza – specie in un popolo che ricorre ancora frequentemente a maghi, tarocchi, preti, malocchi… – se le persone, di fronte all’allarme dei medici, adottano un principio di precauzione (tanto più se sono anziane o malate e in quanto convinte che le restrizioni debbano durare solo poche settimane). Saremo anche oggetto di un tentativo di disciplinamento, ma – è una delle questioni che suggerisce lo stesso Agamben – la crisi ha messo in evidenza quanto siamo già disciplinati.
D’altra parte non possiamo non porci alcune domande. L’accoglimento tutto sommato largo e acritico di misure di prevenzione così drastiche è davvero il frutto del grande senso di responsabilità di un popolo che crede alla verginità della Madonna e al sangue di San Gennaro, legge “50 sfumature di grigio” e vota politici con il rosario in una mano e il mojito nell’altra? Come mai non si è verificata neppure quella fisiologica reazione dovuta alla necessità di adattarsi ad una quotidianità completamente nuova e anzi molti hanno scoperto in sé una spiccata propensione alla “sceriffitudine” e alla deprecazione dei “passeggiatori” (quelli sì, creati a tavolino come untori, senza alcun fondamento scientifico, forse proprio in quanto espressioni di resistenza, per svago o per necessità, alla clausura)? Siamo certi che le misure di completo isolamento sociale adottate senza tante discussioni non lasceranno comunque un segno profondo e che non verranno strumentalizzate per stabilizzare lo “stato di eccezione”? La decretazione di emergenza è davvero una novità oppure l’emergenza è effettivamente diventata la norma?
Insomma, anche la visione paranoica di Agamben (che proprio in quanto paranoica non può essere critica) forse ci aiuta a mantenere lucidità, lucidità che di certo non manteniamo leggendo i j’accuse di certi suoi feroci detrattori (come il girotondaro Paolo Flores D’Arcais).
Post scriptum: uno dei maggiori errori di Agamben è contenuto nell’articolo del Manifesto quando afferma che il Coronavirus è come una “normale” influenza (e dunque le misure di prevenzione sono a suo avviso del tutto sproporzionate).
Anche se fosse vero quello che dice Agamben, anche se fosse vero che il Covid-19 non possiede tassi di virulenza e mortalità così straordinariamente anomali da legittimare il panico, anche se avessimo già visto all’opera tassi di mortalità molto alti nel recente passato, anche se la vera questione fosse quella della mancanza di un vaccino e della capacità delle nostre strutture ospedaliere e territoriali di trattare i casi più gravi… il punto è che le influenze “normali” non sono per nulla innocue per certe parti della popolazione.
E dunque, mentre ci interroghiamo sulla “sopravvalutazione” di oggi, dovremmo anche interrogarci sulla sottovalutazione di ieri (che ovviamente era funzionale al silenzio sociale di fronte alla distruzione della sanità pubblica).
[Antiper]
Un giornalista italiano si è applicato, secondo il buon uso della sua professione, a distorcere e falsificare le mie considerazioni sulla confusione etica in cui l’epidemia sta gettando il paese, in cui non si ha più riguardo nemmeno per i morti. Così come non mette conto di citare il suo nome, così nemmeno vale la pena di rettificare le scontate manipolazioni. Chi vuole può leggere il mio testo Contagio sul sito della casa editrice Quodlibet. Piuttosto pubblico qui delle altre riflessioni, che, malgrado la loro chiarezza, saranno presumibilmente anch’esse falsificate.
La paura è una cattiva consigliera, ma fa apparire molte cose che si fingeva di non vedere. La prima cosa che l’ondata di panico che ha paralizzato il paese mostra con evidenza è che la nostra società non crede più in nulla se non nella nuda vita. È evidente che gli italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e politiche al pericolo di ammalarsi. La nuda vita – e la paura di perderla – non è qualcosa che unisce gli uomini, ma li acceca e separa. Gli altri esseri umani, come nella pestilenza descritta da Manzoni, sono ora visti soltanto come possibili untori che occorre a ogni costo evitare e da cui bisogna tenersi alla distanza almeno di un metro. I morti – i nostri morti – non hanno diritto a un funerale e non è chiaro che cosa avvenga dei cadaveri delle persone che ci sono care. Il nostro prossimo è stato cancellato ed è curioso che le chiese tacciano in proposito. Che cosa diventano i rapporti umani in un paese che si abitua a vivere in questo modo non si sa per quanto tempo? E che cosa è una società che non ha altro valore che la sopravvivenza?
L’altra cosa, non meno inquietante della prima, che l’epidemia fa apparire con chiarezza è che lo stato di eccezione, a cui i governi ci hanno abituati da tempo, è veramente diventato la condizione normale. Ci sono state in passato epidemie più gravi, ma nessuno aveva mai pensato a dichiarare per questo uno stato di emergenza come quello attuale, che ci impedisce perfino di muoverci. Gli uomini si sono così abituati a vivere in condizioni di crisi perenne e di perenne emergenza che non sembrano accorgersi che la loro vita è stata ridotta a una condizione puramente biologica e ha perso ogni dimensione non solo sociale e politica, ma persino umana e affettiva. Una società che vive in un perenne stato di emergenza non può essere una società libera. Noi di fatto viviamo in una società che ha sacrificato la libertà alle cosiddette “ragioni di sicurezza” e si è condannata per questo a vivere in un perenne stato di paura e di insicurezza.
Non stupisce che per il virus si parli di guerra. I provvedimenti di emergenza ci obbligano di fatto a vivere in condizioni di coprifuoco. Ma una guerra con un nemico invisibile che può annidarsi in ciascun altro uomo è la più assurda delle guerre. È, in verità, una guerra civile. Il nemico non è fuori, è dentro di noi.
Quello che preoccupa è non tanto o non solo il presente, ma il dopo. Così come le guerre hanno lasciato in eredità alla pace una serie di tecnologie nefaste, dai fili spinati alle centrali nucleari, così è molto probabile che si cercherà di continuare anche dopo l’emergenza sanitaria gli esperimenti che i governi non erano riusciti prima a realizzare: che si chiudano le università e le scuole e si facciano lezioni solo on line, che si smetta una buona volta di riunirsi e di parlare per ragioni politiche o culturali e ci si scambino soltanto messaggi digitali, che ovunque è possibile le macchine sostituiscano ogni contatto – ogni contagio – fra gli esseri umani.
17 marzo 2020