Alain Badiou | Lettera a Slavoj Žižek sull’opera di Mao Tse-Tung
Una lettera molto interessante del filosofo francese Alain Badiou al filosofo sloveno Slavoj Zizek a proposito della pubblicazione commentata dei due testi di Mao – Sulla contraddizione e Sulla pratica – da parte della casa editrice Verso (in Italia da parte di Mimesis).
Molte considerazione condivisibili come il richiamo a non lasciarsi incantare dalle sirene delle interessate analisi su Mao provenienti dal mainstream culturale e come il richiamo alla necessaria contestualizzazione storica delle scelte politiche. Due richiami che certo valgono anche per la lettura del periodo “staliniano” che invece viene sempre liquidato sbrigativamente proprio a partire dalla de-contestualizzazione storico-politica a cui fa seguito necessariamente la demonizzazione personale: la lotta di classe scompare, resta il Grande Dittatore, solo nella sua paranoia criminale, a dettare lo svolgersi della Storia.
E interessante è anche il richiamo sulla classica contraddizione tra partito e masse che meriterebbe un importante approfondimento capace di coglierne la dialettica, aiutandoci a rifuggire le estremizzazioni unilaterali del volontarismo ultra-movimentista e di quello, opposto, ultra-organizzativista (Antiper).
Caro Slavoj,
La tua introduzione ai testi filosofico-politici di Mao pubblicata da Verso è, come sempre, di grande interesse. Per cominciare direi, come è mia abitudine e di contro alla tua reputazione – frutto di una falsificazione del tutto francese – di uomo di spettacolo e di buffone del concetto (hanno detto altrettanto del nostro maestro Lacan, sentiamoci rassicurati!) che questa tua introduzione è leale, profonda e coraggiosa.
È leale perché, lungi da ogni finzione e da ogni traballante retorica, esprime con esattezza il tuo rapporto ambivalente con la figura di Mao. Riconosci la novità e l’ampiezza della sua visione, ma la giudichi falsa e pericolosa da numerosi punti di vista.
È profonda perché tagli corto, vai dritto a una questione cruciale e difficile, quella del pensiero dialettico contemporaneo nei suoi legami con la politica. Le tue considerazioni sulla negazione della negazione sono notevoli. Senza alcun dubbio, tu fai luce per la prima volta sulla ragione profonda del rifiuto di questa “legge” dialettica, avanzato da Stalin e da Mao, sapendo che attraverso tale rifiuto essi hanno frainteso il vero senso hegeliano: ogni negazione immanente è, nella sua essenza, negazione della negazione che essa è.
Infine, il tuo è un testo coraggioso perché, come spesso fai, qui ti esponi alle critiche provenienti da ambo le parti. I discendenti controrivoluzionari dei nostri “nuovi filosofi” grideranno, come già fanno, che tu e Badiou siete una coppia di partigiani attempati, e comunque pericolosi, di un comunismo sepolcrale. Che altro senso potrebbe mai avere, per questi cani da guardia della nuova generazione, anche solamente parlare di Mao? Ma i seguaci di ciò che, a seguito del maggio ’68, in Europa fu chiamato “il maoismo”, e di cui senza ombra di dubbio io sono, oggi, uno dei rari rappresentanti noti, avranno comunque qualche rimprovero da farti. Tu sei avvezzo, così, a “lottare su due fronti”, il che del resto fu una parola d’ordine fondamentale della Rivoluzione Culturale: lottare contro la borghesia classica, il cui epicentro è l’imperialismo americano, ma anche contro la nuova borghesia burocratica, il cui epicentro allora era l’Unione Sovietica.
A proposito dell’esistenza di questa nuova borghesia in Cina, Mao diceva: “La gente si chiede dov’è da noi la borghesia. Io rispondo: è nel Partito comunista”. Di questa frase si può davvero dire che è profetica, visto che cosa hanno fatto della Cina le riforme di Deng Xiaoping. Si può anche dire che illustrano a che punto Mao sia il creatore di una politica della negazione della negazione, a discapito delle sue stesse osservazioni e dei commenti giusti che tu proponi di esse. Infatti, è al cuore stesso del Partito, direzione riconosciuta del processo di distruzione del vecchio mondo, che si annida la nuova negazione di questo stesso processo. Negazione che oggi è condivisa: “borghesia”, e molto di più ancora “nuova borghesia”, sono vocaboli banditi da tutti i discorsi politici ufficiali, della maggioranza o dell’opposizione.
Qui siamo giunti a un punto di metodo essenziale e su cui, credo, non c’è tra di noi alcun contrasto sui principi. Trattandosi di figure come Robespierre, Saint-Just, Babeuf, Blanqui, Bakunin, Marx, Engels, Lenin, Trotzkij, Rosa Luxemburg, Stalin, Mao Tse-tung, Zhou Enlai, Tito, Enver Hoxha, Guevara, Castro e qualche altro (penso in particolare a Aristide) è di estrema importanza non lasciare nulla al contesto di criminalizzazione e di aneddoti spettacolari in cui, da sempre, la reazione tenta di chiuderli e annullarli. Possiamo e dobbiamo discutere tra noi (il “noi” di coloro per cui il capitalismo e le sue forme politiche sono un orrore, e per cui l’emancipazione egalitaria è la sola massima che abbia un valore universale) sull’uso che facciamo, o che non facciamo, di queste figure. La discussione può essere vivace, anche vederci antagonisti, ma avviene “tra noi” e la sua regola si oppone assolutamente a ogni collusione con le grida degli avversari.
Dobbiamo tener conto anche della verifica dei fatti e del rigore storico. Oggi, qualunque libro su Mao di provenienza ufficiale o presunta “neutra”, qualunque “biografia” sensazionale sono un chiaro atto di propaganda, uniformemente menzognero, perfido e privo di ogni interesse. Tu citi il libro di Jung Chang e Jon Halliday, tipico prodotto di quel genere. Lo stesso Bush, famoso per non leggere nulla, dice di aver letto avidamente una biografia di Mao e di aver appreso, con grande e patetica sorpresa, che Mao aveva ucciso personalmente settanta milioni di persone, il che indubbiamente fa di lui il più grande serial killer della storia…
Mi sembra che, andando a vedere nel dettaglio, tu non sia sempre del tutto slegato dall’immagine insieme folcloristica e ripugnante che il nostro caro Occidente, effettivamente appoggiato, se non addirittura manipolato dallo Stato cinese (in mano, ricordiamolo, ai revanscisti della Rivoluzione Culturale, diventati signori corrotti dell’accumulazione capitalista), intende fornire dell’ultimo grande rivoluzionario marxista della storia mondiale.
Da una parte, ti allontani troppo dal contesto, estremamente delicato e teso, della politica mondiale dell’epoca. Per esempio, non si può parlare del famoso scambio “cibo per armamenti”, che avrebbe affamato la Cina degli anni cinquanta a vantaggio dell’URSS, senza ricordare che, dagli anni cinquanta in poi, l’esercito cinese è in guerra frontale contro gli Americani, in Corea, e che, in seguito, servirà da retroguardia ai Vietnamiti durante vent’anni di guerra per la liberazione del Paese. Non si può non ricordare le esperienze di produzione di massa e di industrializzazione delle campagne, compreso il “Grande Balzo in avanti”, senza evocare la rottura, latente e poi esplicita, con il “padrino” sovietico, rottura che era una necessità politica, un obbligo rivoluzionario incontestabile, ma che esponeva la Cina a pericoli enormi. Le ritorsioni economiche del padrino furono infatti di una brutalità inaudita e costrinsero i comunisti cinesi a prendere in considerazione un’autarchia prolungata, nello stesso frangente in cui dovevano prepararsi alla guerra. Tentare a ogni costo di sviluppare la produzione “contando sulle proprie forze” (principio cruciale del maoismo) era, per un paese isolato e provocato simultaneamente da due superpotenze, una questione di sopravvivenza.
D’altro canto, credo che alcuni aspetti “culturali” dello stile di Mao ti divertano, che ti affascinino anche (come è il caso della sua visione “cosmologica”, a mio avviso un semplice catalogo di metafore), mentre altre ti rimangono estranee. Per esempio, tu non sempre percepisci lo humor cinese “alla contadina”, caratteristico di numerosi interventi di Mao (compreso quando gioca con il numero di morti, ricorda che “le teste della gente non ricrescono come cipolle”, etc.). C’è poi il fatto che il tuo stesso senso dell’humor si vuole uno humor nero venuto dall’Est e che, conoscendo a fondo gli arcani del regime stalinista, tu ne proietti troppo in fretta i macabri parametri sull’universo della Cina comunista, in realtà molto diverso. Debbo forse ricordarti che, ad eccezione, certo, di Liu Shaochi e probabilmente anche di Lin Piao, nessuno dei nemici giurati di Mao ai vertici del Partito ha mai perso la vita, anche nel pieno delle violenze della Rivoluzione Culturale? E che addirittura quasi tutti, a partire dalla metà degli anni settanta, hanno riacquistato i loro posti e i loro poteri? Den Xiaoping, stigmatizzato, denunciato e ovunque oggetto di caricatura sotto il vocabolo infamante – e del tutto esatto, come ha dimostrato il futuro – di “secondo dei più alti responsabili che, benché del Partito, sono impegnati nella causa capitalista”, al termine dell’impresa è diventato il nuovo signore del Paese. Che differenza rispetto a Stalin, ossessionato dalla volontà di sterminare la “vecchia guardia” bolscevica! Già solo questo distingue radicalmente la Rivoluzione Culturale dalle purghe sovietiche degli anni trenta, contrariamente alle tue affermazioni. Ma l’essenziale non è questo. In primo luogo, vorrei farti capire che tu non definisci con sufficiente rigore i punti sui quali si può fondare l’ipotesi di un’universalità di Mao. Universalità senza cui né la pubblicazione di testi, né i nostri commenti, i miei come i tuoi, avrebbero il minimo interesse.
In verità, un corollario del radicale principio di precauzione che dobbiamo avanzare riguardo al flusso incessante della propaganda controrivoluzionaria è quello di non abbandonare mai il campo problematico della politica di emancipazione, detta anche politica comunista: campo all’interno del quale noi leggiamo, apprezziamo o critichiamo l’opera di Mao.
Dunque, come sempre quando si tratta di quel che io chiamo le “procedure di verità”, questo campo si costruisce a partire da problemi. Occuparsi di problemi, proporre soluzioni teoriche e pratiche, commettere errori, rettificarli, trasmettere alcuni principi, alcuni problemi risolti e altri nuovi problemi senza una soluzione conosciuta a coloro che Mao, angosciato da tale questione, chiamava “gli eredi della causa del proletariato”: ecco dove sta l’interesse, per noi, dell’opera dei dirigenti rivoluzionari del passato. Non c’è altro argomento di cui dobbiamo parlare.
La prima domanda, dunque, è necessariamente questa: che problemi abbiamo oggi in comune con Mao? In che cosa la lettura dei suoi testi è altro rispetto a un esercizio nostalgico o puramente critico? Per quale motivo – come, diciamo, certe memorie di Poincaré concernenti la teoria dei sistemi dinamici sono ancora fonte d’ispirazione per i matematici – i testi di Mao possono fungere da riferimento nella ricerca di un nuovo corso della politica di emancipazione?
Per entrare efficacemente in merito, bisogna fissare tra il 1925 e il 1955 il punto di partenza della visione staliniana – anzi, la sua egemonia – nell’intero movimento comunista internazionale. Si tenga presente che quest’egemonia si fonda su di un evento senza precedenti: la prima rivoluzione popolare che riporti una vittoria, nell’ottobre del 1917 in Russia. Inoltre, ci si ricordi costantemente che tale vittoria, rivincita delle insurrezioni operaie schiacciate, durante tutto il XIX secolo e specie in Francia, è universalmente attribuita alla nuova disciplina politica incarnata da un Partito di tipo leninista. In maniera tale che l’intera sequenza, anche tra i trotzkisti antistalinisti, si definisce e si modula sulla base della questione del Partito di classe, del Partito proletario, o dell’organizzazione operaia, che dir si voglia.
Più in breve, possiamo affermare: l’universalità di Mao, se esiste, si regge su soluzioni nuove e/o sull’individuazione di problemi nuovi relativi al leninismo, dunque relativi al legame tra processo politico e Partito. Certamente, gli evidenti aspetti innovatori del pensiero di Mao sono numerosi, e tu li citi quasi tutti: l’importanza della classe contadina, di contro alla sua svalutazione in nome del feticismo operaista; la guerra popolare prolungata, mezzo cui necessariamente si ricorre laddove la puntuale insurrezione urbana è impraticabile; l’eccezionale importanza accordata all’ideologia e alla soggettività politica; la teoria della “nuova borghesia”, interna al Partito comunista; il ricorso al movimento di massa, anche spontaneo, piuttosto che alla polizia politica e alle purghe statali per lottare contro di essa; la distinzione tra i diversi tipi di contraddizione e la loro mobilità immanente, ecc.
Ma nulla di tutto ciò potrebbe costituire una verità politica isolatamente, se cioè tutti questi motivi non si connettessero al problema centrale del Partito, concepito da Stalin come l’unica fonte e l’unico attore del processo chiamato “edificazione del socialismo”. Non collegare i tratti particolari del maoismo a questo problema, che in un certo senso è il problema rivoluzionario del periodo, conduce a un empirismo difensivo, che concede troppo agli avversari di ogni rivoluzione egualitaria.
Effettivamente, in Mao, all’interno di uno stalinismo apparente del tutto classico (“senza il suo Partito comunista il popolo non ha niente”) molto presto vengono a distinguersi alcune singolari reticenze, verso tutto ciò che accorderebbe al Partito il monopolio della direzione del processo politico popolare.
In Logiques des Mondes ho analizzato molto da vicino questo punto, come appare nel giovane Mao, il Mao degli inizi della guerra popolare del 1927 sui monti Xinjiang. Agli occhi di Mao il “Potere rosso” si compone di diversi elementi, e nel suo contesto le assemblee popolari sono importanti tanto quanto il Partito. D’altronde, la questione dell’esercito è centrale, a quell’epoca. Dunque, se è vero che “il Partito comanda i fucili”, è vero anche che – e la formula equilibra quella di Stalin – “senza l’esercito popolare, il popolo non ha niente”. Anzi: questa forza viene definita come “l’organizzazione armata incaricata di realizzare gli obiettivi politici della rivoluzione”, il che intacca già fortemente il monopolio del Partito riguardo i suddetti obiettivi.
Nel corso della Rivoluzione Culturale, quarant’anni più tardi, si vedranno ancora i “comitati rivoluzionari” e l’Armata rossa attentare all’onnipotenza del Partito nei rapporti tra movimenti di massa e Stato. Anche il pensiero dialettico di Mao è al servizio di una relativizzazione dei poteri del Partito. Il suo motto, infatti, non è “non ci può essere comunismo senza Partito comunista”, bensì “per avere il comunismo, serve un movimento comunista”. In tal modo il Partito, organo della direzione dello Stato e dell’edificazione del socialismo, può ricavare la propria legittimità unicamente da un’esposizione totale e possibile alla negazione che su di esso esercita l’azione di rivolta delle masse insorte.
La celebre formula “ribellarsi contro i reazionari è giusto” significa apertamente: “abbiamo ragione di insorgere contro la forma ossificata della negazione che costituisce la burocrazia dello Stato-partito”. È in questo contesto che giustizia va resa alla carica di universalità insita nel terribile fallimento della Rivoluzione Culturale. Ricordiamo in proposito che il fallimento sanguinoso di un’impresa non rappresenta il suo giudizio ultimo. Anche qui, tu ricorri troppo facilmente al fallimento della Rivoluzione Culturale per cancellarne l’importanza e l’attualità (ricordiamoci che Mao sosteneva che sarebbero servite altre dieci o venti rivoluzioni culturali per spingere la società verso il comunismo).
Tutti sanno che il pensiero di Lenin si radica nella valutazione che egli fa della Comune di Parigi, seppure liquidata da un massacro senza precedenti degli operai rivoltati. Marx prima di lui aveva formulato il problema politico che la Comune poneva: dato che la capacità politica operaia può arrivare a impossessarsi del potere politico dello Stato (a Parigi, i comunardi hanno esercitato questo potere per più di due mesi); come far sì che la presa del potere sia estesa nello spazio, in prima istanza, e continua nel tempo, in seconda istanza? La sua risposta, provvisoria, ancora troppo generica, era che non ci si poteva accontentare di impadronirsi del potere di Stato tale e quale: si doveva distruggere la macchina dello Stato borghese. Lenin, sotto forma di un Partito centralizzato dotato di una “disciplina ferrea”, ha forgiato la vera soluzione storica al problema lasciato in eredità dalla Comune. Ha creato lo strumento, politico ma calcato sul modello militare, della “distruzione” come la voleva Marx, e della sua sostituzione con uno Stato di tipo nuovo, che eserciti un dispotismo popolare senza precedenti nella storia: lo Stato di dittatura del proletariato, in effetti, uno Stato fuso al Partito insurrezionale, che militarizza profondamente l’intera società. Il terrorismo di Stalin è una modalità degli utilizzi post-insurrezionali di uno strumento legato all’esito vittorioso dell’insurrezione. La sua radice sta nel fatto che ogni problema politico interno viene trattato come fosse un problema di tipo militare, il quale implica quindi la distruzione fisica degli avversari, o dei presunti tali.
Ora possiamo descrivere il problema che tentano di risolvere Mao e quei militanti che, a milioni, fanno valere il suo nome in Cina e nel resto del mondo tra il 1966 e il 1976. La Rivoluzione Culturale è stata descritta da Mao come “la forma finalmente trovata della dittatura del proletariato”. Che cosa vuol dire? Per Mao, anche se la posizione ufficiale dei comunisti cinesi, contro Kruscëv e i suoi successori, sembra voler dire il contrario, il bilancio di Stalin è in realtà ampiamente negativo. Perché? Perché, ci dice Mao, Stalin si concentra sui quadri, mai sulle masse. Per Stalin, si sa, “quando la linea è fissata, i quadri decidono di tutto”. Per Mao, “le masse, soltanto le masse sono gli eroi della storia universale e noi spesso siamo ridicolmente ingenui”.
Dunque, occorre imperativamente trovare il modo in cui il processo politico che conduce al comunismo – e dunque la “dittatura del proletariato” che lo denomina nella forma dello Stato – ritrovi le proprie fonti e gli attori fondamentali, come già avvenuto nel 1927, nelle masse popolari insorte, e non nei funzionari del Partito. Le forze disponibili per sostenere questa prova di forza sono in primis la gioventù scolarizzata (mobilitata negli anni sessanta, e in tutto il mondo); la frazione più giovane e più politicizzata degli operai; certi distaccamenti dell’Armata rossa.
A partire dal 1966, Mao e i suoi più stretti collaboratori si rivolgeranno a queste forze, gettando sì la Cina in un caos di dieci anni, ma mettendo in circolazione idee, parole d’ordine, forme di organizzazione, schemi teorici di cui noi, oggi, non abbiamo ancora esaurito la forza. Il fallimento di questo arruolamento straordinario, la cui libertà – riflessa nelle centinaia di organizzazioni nuove, nei giornali comparsi a migliaia, nei manifesti giganti, nei meetings costanti, negli innumerevoli scontri – desta ancora sorpresa, non è in nessun modo dovuto alla natura del problema che cercava di risolvere. Almeno, non più di quanto il fallimento della Comune di Parigi sia dovuto al fatto che gli operai siano insorti, cosa naturale e necessaria, nelle circostanze loro imposte. Il fallimento è dovuto al fatto che il movimento non seppe dialetticizzarsi su scala nazionale, in forme di organizzazione che avrebbero potuto realmente modificare lo schema dello Stato-Partito, esattamente come durante la Comune l’assenza di un’efficace direzione centralizzata (di un vero partito) generò la divisione anarchica e l’impotenza. In Cina, una miriade di frazionamenti ha smembrato l’azione collettiva. La forma più avanzata di organizzazione locale, quella che, all’inizio del 1967, ha preso il nome significativo di “Comune di Shangai”, non ha potuto diventare un paradigma nazionale e ha finito per ripiegarsi su se stessa, dando via libera ai revanscisti del Partito.
Insomma, il problema era del tutto reale (come animare il processo politico del comunismo al di là dell’azione dello Stato, nella via popolare stessa?). Il tentativo comportava lezioni universali (serve la diretta alleanza della gioventù intellettuale e degli operai; serve sperimentare nuove forme di organizzazione, non partitiche; serve una metamorfosi dell’insegnamento; serve rompere la divisione del lavoro; serve riorganizzare il potere in fabbrica, secondo norme democratiche; serve legare in altra maniera le città e le campagne; serve creare una nuova intellettualità popolare etc.). Il fallimento impone la rinuncia definitiva al paradigma militarizzato del Partito, l’apertura di una via a ciò che l’Organizzazione politica chiama in Francia una “politica senza partito”. Siamo tuttora a questo punto, e se ci siamo è perché la Rivoluzione Culturale ci ha condotti qui.
Possiamo dire, allora, senza timore: il bilancio della Rivoluzione Culturale, nella sequenza della politica rivoluzionaria in corso, gioca il ruolo del bilancio della Comune di Parigi nella sequenza leninista. La Rivoluzione Culturale è la Comune dell’epoca dei Partiti comunisti e degli Stati socialisti: fallimento terribile e lezioni essenziali.
Terminerò dicendoti che il legame diretto che tu credi di poter stabilire tra la Rivoluzione Culturale e il furioso accumulo capitalista che oggi devasta la Cina esiste solo come illusione. Si potrebbe anche dire che il fallimento della Comune di Parigi generò direttamente un lungo periodo di espansione imperiale in Francia, alla fine del XIX secolo: un affarismo forsennato, nel contesto di un capitalismo aggressivo che, infine, condurrà alla carneficina del ’14-’18. Necessariamente! Quando un tentativo grandioso, attuato dai rivoluzionari, di trattare un problema politico attuale, fallisce, l’avversario si ritrova a tenere le redini per un pezzo! Ma Mao e i suoi compagni non sono più responsabili della Cina dei miliardari di Shangai e della corruzione mondializzata di quanto Delescluze, Vallès, Louise Michel, Varlin o Blanqui siano responsabili del colonialismo e della corruzione della “belle époque”. La vera discendenza dei primi si incarna in Lenin, Rosa Luxemburg, e in tutti gli altri rivoluzionari che hanno superato le aporie della Comune, sempre però facendone un punto di partenza. La vera discendenza degli altri si cerca, cammina, sperimenta, per trattare il problema ricevuto in eredità dalla Rivoluzione Culturale, quello del processo politico “senza partito”, formulando pensieri che partono dai punti universali del tentativo che essa rappresenta. Credo che tu ed io facciamo parte di questa discendenza. Ecco perché uno Zarka, firma del Figaro, non ha torto quando ci accosta sotto il titolo esageratamente elogiativo di “filosofo del Terrore”.
Con tutta la mia amicizia più viva, mio caro Slavoj.
Ma Badiou ha letto solo le critiche di Mao a Stalin e non la miriade infinita di giudizi positivi? Forse se li leggeva evitava confusioni trotskiste su un inesistente stalinismo.