Antiper | Gli “opposti estremismi” e la risposta rivoluzionaria
Tratto da Antiper, Tutto è restato impunito. Riflessioni a 40 anni dalla strage di Piazza Fontana, 12 dicembre 2009, EBOOK, 12 pag., A4, COPERTINA
Gli strateghi della “strategia della tensione” sono convinti che le bombe non potranno non suscitare una reazione armata dei comunisti (almeno di quelli che cominciano ad organizzarsi alla sinistra del PCI dopo il ’68 e l’“autunno caldo”). Pensano anche che vi sarà (come in effetti vi fu) una radicalizzazione di settori dello stesso PCI.
A quel punto verrà facile descrivere la società italiana come sottoposta all’attacco degli “opposti estremismi”. Basterà evocare l’idea che “comunisti” e “fascisti” “se le suonano di santa ragione” a colpi di bombe e di revolverate, per spingere la “gente” – che ama la tranquillità – a rifugiarsi sotto le materne ali della vecchia “balena bianca”. È, in sostanza, un piano di stabilizzazione in senso “moderato” del quadro politico.
In questa lettura – che ha certamente molti elementi di verità – le stragi vengono usate per provocare la risposta armata dei comunisti e impedire che essi possano realizzare la trasformazione della società italiana, anche solo per via riformista.
Una volta che i comunisti avranno reagito i depistaggi e le coperture serviranno solo per non colpire materialmente gli “esecutori”; la “matrice politica fascista”, invece, dovrà emergere perché è uno dei presupposti della teoria degli “opposti estremismi”
“Se il terrore è il fine primario – ha scritto Norberto Bobbio – un atto è tanto più terrorizzante quanto più è circondato da un mistero impenetrabile. Ma la difficoltà maggiore incontrata dalla magistratura è consistita in una serie di ostacoli frapposti nel corso delle indagini; reperti e documenti importanti distrutti, testimoni attendibili e possibili imputati fatti espatriare, testimoni falsi fatti comparire, continue indicazioni fuorvianti. Per oltre un decennio, dal 1970 fino al 1981, cioè fino alla scoperta delle liste degli iscritti alla Loggia P2 di Licio Gelli e alla conseguente epurazione dei cosiddetti “servizi deviati” essi hanno interferito in tutte le indagini sulle stragi e solo in quelle; non si ha notizia, infatti, di depistaggi a danno delle indagini sul terrorismo rosso” [1].
Ma questa è anche una lettura parziale.
È certamente vero che Piazza Fontana spinge il dibattito nella “sinistra rivoluzionaria” italiana sul tipo di risposta da dare all’offensiva terroristica dello Stato e del neo-fascismo. Così come è certamente vero che dopo Piazza Fontana si fa strada la consapevolezza che alle “armi della critica” sia ormai necessario affiancare la “critica delle armi”, sia in termini difensivi, sia in termini offensivi.
Del resto, quando alle lotte sindacali si risponde con le bombe non è incomprensibile pensare che ad un ulteriore livello di lotta sindacale possa corrispondere solo un ulteriore numero di bombe. E un conto è cercare di non farsi trascinare dalle provocazioni su terreni che non si ha la capacità di sostenere o su terreni su cui non si è scelto consapevolmente di collocarsi; ma un altro conto è offrirsi come “agnelli sacrificali” all’attacco armato dello Stato.
Che la strage di Piazza Fontana abbia spinto migliaia di compagni sul terreno di una riflessione concreta in merito alla necessità di una risposta adeguata al livello di scontro terroristico scatenato dallo Stato [2] (anche – ma non solo – attraverso la sua componente fascista) è indiscutibile. Ciò non significa essersi lasciati adescare all’amo degli “opposti estremismi” o essersi lasciati “etero-dirigere” dallo Stato anche perché la “risposta rivoluzionaria” ha incontrato in molte occasioni il favore di settori popolari di massa; forse non di larga massa, ma di massa, il che significa che quella risposta corrispondeva ad una domanda reale e non solo ad una valutazione soggettiva.
Naturalmente, è qui impossibile ricostruire la complessità di eventi e di tendenze che hanno caratterizzato lo scenario politico del dopo Piazza Fontana. Ma una cosa possiamo dirla: la strage del 12 dicembre segna uno “spartiacque” tra un prima e un dopo: è la fine di un epoca caratterizzata, per milioni di persone, dalla convinzione che attraverso un processo graduale di riforme e di conquiste sociali il movimento dei lavoratori avrebbe potuto realizzare una transizione “pacifica” e “democratica” al socialismo; è la sanzione che lo Stato (in quanto espressione istituzionale del potere capitalistico) non avrebbe mai accettato questa prospettiva e che avrebbe messo in opera ogni tipo di azione per impedirla.
D’ora in poi ci saranno solo due strade: accettare il capitalismo come limite invalicabile della società umana con tutti i suoi meccanismi (per parafrasare Marx, una sorta di passaggio dalla “sottomissione formale” al capitalismo rappresentata dal riformismo ad una “sottomissione reale” organica ai meccanismi del capitale); oppure, comprendere che puntare al superamento del capitalismo significa dotarsi degli strumenti materiali ed intellettuali anche per resistere alla controffensiva del sistema di potere dominante.
“Cosa intendeva Berlinguer quando, riflettendo sull’esito dell’esperimento riformista in Cile di Salvador Allende, deposto ed assassinato nel 1973 dal colpo di stato di Pinochet appoggiato dagli USA, affermava che in Italia il PCI non avrebbe potuto governare neppure con il 51%? Non certo, ovviamente, che avrebbe dovuto conquistare il 60 o il 70%, ma che il grande capitale italiano e internazionale non avrebbero mai permesso un governo di “comunisti” o con i “comunisti” senza un accordo strategico che garantisse in modo inequivocabile il suo profitto e potere reali. Ecco come il colpo di stato militare in Cile (assieme anche alla “strategia della tensione”) ha messo fine anche alle illusioni democratico-riformiste del PCI [3].
Certo, molti altri fattori hanno concorso alla definizione della nuova linea del PCI (la crisi economica incipiente, innanzitutto, l’incapacità di reggere ulteriormente la “conventio ad excludendum” anti-comunista imposta dagli USA, la ricollocazione sul piano internazionale [4]…), ma la consapevolezza che, pur con tutta la sua forza sociale, elettorale e culturale, il PCI non avrebbe retto l’urto della risposta terroristica dello Stato è stato anch’esso un elemento cardine della sua ulteriore “svolta”: dopo aver accettato negli anni ’40 il terreno “democratico” come il terreno sul quale costruire l’ipotesi della trasformazione della società italiana, nei primi anni ’70 il PCI chiarisce, anzitutto a sé stesso, che non c’è proprio alcuna società da trasformare.
Note
[1] Sergio Zavoli, La notte della Repubblica (trascr. Antiper).
[2] E nella sinistra rivoluzionaria italiana fu abbastanza chiaro sin da subito che quella di Piazza Fontana fosse una “strage di Stato” (anche se la famosa “controinchiesta” – La strage di Stato – si concentrava molto sul ruolo dei fascisti).
[3] Antiper, Il ciclo sgonfiato. Riflessione aperta sulla situazione politica italiana dopo le elezioni del 13-14 aprile 2008, agosto 2008, www.antiper.org.
[4] Si prenda ad esempio il passaggio al cosiddetto “Eurocomunismo”.