Antiper | Maestri di scuola, lavoro produttivo e Capitale
Antiper, Maestri di scuola, lavoro produttivo e Capitale, Ottobre 2019 | PDF
Nel capitolo XIV del primo libro del Capitale Marx affronta un tema che ha assunto grande rilevanza nel dibattito politico internazionale e che sembra essere diventato ancora più rilevante con l’avvento di quella che Manuel Castells ha chiamato “società dell’informazione”; si tratta del tema se il lavoro “immateriale” (ad esempio il lavoro mentale) debba o meno essere considerato produttivo. O anche, aggiungono alcuni autori [1] se addirittura si possa pensare un lavoro puramente immateriale.
Marx inizia con una osservazione
“Come nell’organismo naturale mente e braccio sono connessi, così il processo lavorativo riunisce lavoro intellettuale e lavoro manuale” [2]
Fintanto che il lavoro si trova ancora allo stadio individuale il lavoratore riunisce in sé lavoro manuale e lavoro intellettuale. Il sarto-artigiano realizza il vestito che egli stesso ha progettato. Ma con lo sviluppo dell’industria meccanizzata lavoro manuale e lavoro intellettuale si separano e si contrappongono. Ci sono lavoratori che svolgono attività prevalentemente [3] manuali e lavoratori che svolgono attività prevalentemente mentali: l’architetto e il muratore, l’ingegnere e il meccanico…
La divisione del lavoro e, al suo interno, la contrapposizione tra lavoro mentale e lavoro manuale fanno sì che il prodotto del lavoro non possa essere più considerato individuale, ma sociale, in quanto derivante dell’attività di un lavoratore complessivo combinato. Nessun lavoratore può più dire: io produco questo o quello.
Nessun operaio della Tesla può dire “costruisco auto” se il suo compito è solo quello di sviluppare il software per la gestione del computer di bordo e, a maggior ragione, se il suo compito è solo quello di sviluppare uno dei tanti moduli che compongono quel software assieme ad altri sviluppatori che lo co-producono assieme a lui. E proprio l’estrema parcellizzazione dell’attività produttiva di cui Marx parla altrove nel Capitale [4] – e che l’ingegnere più odiato del mondo, Fredrick Taylor, avrebbe successivamente dichiarato forma “scientifica” dell’organizzazione del lavoro – produce quei fenomeni di estraneazione che Marx aveva già affrontato in gioventù (nei Manoscritti economico-filosofici del 1844).
Il processo produttivo si svolge sempre dentro il rapporto tra uomo e natura, solo che ora non è più un’attività individuale ma avviene nella forma di un lavoro sociale. E cosa sono chiamati a produrre i lavoratori associati?
“La produzione capitalistica non è soltanto produzione di merce, è essenzialmente produzione di plusvalore. L’operaio non produce per sé, ma per il capitale. Quindi non basta più che l’operaio produca in genere. Deve produrre plusvalore. È produttivo solo quell’operaio che produce plusvalore per il capitalista, ossia che serve all’auto-valorizzazione del capitale” [5]
Stiamo parlando del modo di produzione capitalistico [6] e Marx dichiara produttivo il lavoro che contribuisce a generare plusvalore perché lo scopo dell’attività produttiva capitalistica non è la produzione di valori d’uso, ma la produzione di profitto attraverso la circolazione delle merci. Naturalmente, non esiste valore di scambio se non esiste scambio e ha poco senso parlare di merce se lo scambio non si perfeziona, se non avviene la realizzazione del valore contenuto “in potenza” nel prodotto del lavoro. E di cause per una mancata realizzazione ce ne possono essere molte: dalla sovrapproduzione fino all’obsolescenza tecnologica per non parlare del deperimento delle merci alimentari o del ritiro dei prodotti difettosi, ecc…
Al capitale, quindi, interessa la produzione di valori di scambio, non di semplici valori. E questo vuol dire che anche attività come quella di trasporto o di vendita fanno parte a tutti gli effetti del sistema di produzione-circolazione che permette di trasformare il valore in valore di scambio e il plusvalore in capitale (non a caso il Capitale tratta della produzione e della circolazione, prima in forma separata, poi in forma combinata).
Inoltre, dal momento che l’attività produttiva non potrebbe concretizzarsi se, poniamo, i gabinetti non venissero puliti, perché non possiamo riconoscere come produttivo anche il lavoro dell’addetto alla pulizia dei gabinetti, sebbene si tratti di un’attività che, a prima vista, sembra lontana dalla produzione di valore?
E perché non considerare produttivo – o anche ri-produttivo [7] – il lavoro della donna che a casa cucina(va) e rammenda(va) per l’operaio di fabbrica? E così via.
Un elemento di ambiguità è spesso derivato dall’uso di un certo linguaggio. Ad esempio la classica traduzione del termine “Arbeiter” con “operaio” richiama soprattutto il lavoro manuale. E così si tende a pensare che “operaia” sia da considerarsi l’opera di un lavoratore manuale impiegato in una fabbrica, mentre non si pensa che sia operaia l’opera prestata dal programmatore di una software house o dal ragazzo che riempie i panini in un McDonald’s o dalla telefonista che risponde alle chiamate in un Call Center.
Si tratta di una “deformazione semantica” che affonda le sue radici negli anni in cui effettivamente la “classe operaia” delle grandi fabbriche costituiva la parte apparentemente più numerosa e soprattutto più combattiva dal punto di vista sindacale. Marx scrive
“Der Arbeiter produziert nicht für sich, sondern für das Kapital“ [8]
dove Arbeiter si può tradurre come “operaio” ma anche, e soprattutto, come “lavoratore” [9]. Anche la traduzione inglese è un po’ “operaistica” dal momento che la parola usata è “labourer” che si riferisce soprattutto ad attività non specializzate, manuali [10]…
Tuttavia, che questa interpretazione non corrisponda al pensiero di Marx lo si evince dall’inequivocabile esempio del maestro di scuola
“Se ci è permesso scegliere un esempio fuori della sfera della produzione materiale, un maestro di scuola è lavoratore produttivo se non si limita a lavorare le teste dei bambini, ma se si logora dal lavoro per arricchire l’imprenditore della scuola. Che questi abbia investito il suo denaro in una fabbrica d’istruzione invece che in una fabbrica di salsicce, non cambia nulla nella relazione” [11]
Marx parla di “fabbrica di istruzione” intenzionalmente perché in una tale “fabbrica”, a rigori, non vengono prodotti beni materiali, ma conoscenza.
Infine, Marx chiude con un’ulteriore importante osservazione: la caratteristica che il lavoro e il lavoratore possiedono di essere “produttivi” è una caratteristica sociale
“Il concetto di operaio produttivo non implica dunque affatto soltanto una relazione fra attività ed effetto utile, fra operaio e prodotto del lavoro, ma implica anche un rapporto di produzione specificamente sociale, di origine storica, che imprime all’operaio il marchio di mezzo diretto di valorizzazione del capitale. Dunque, esser operaio produttivo non è una fortuna, ma una disgrazia” [12]
Nella produzione c’è relazione tra attività umana ed effetto utile ovvero creazione di un certo valore d’uso, ma questa relazione non è sufficiente per caratterizzare il lavoro produttivo in ambito capitalistico.
A questo punto Marx rimanda al previsto IV libro del capitale “che tratterà la storia della teoria” e che verrà poi pubblicato, molti anni dopo la morte di Marx, con il titolo Storia dell’economia politica o Teorie sul plusvalore.
“Nel quarto libro di quest’opera, che tratterà la storia della teoria, si vedrà più da vicino come l’economia politica classica abbia da sempre fatto della produzione di plusvalore la caratteristica decisiva dell’operaio produttivo. E quindi la sua definizione dell’operaio produttivo varia col variare della sua concezione della natura del plusvalore. Così i fisiocratici dichiarano che solo il lavoro agricolo è produttivo, perché esso soltanto fornisce un plusvalore. Ma il fatto è che per i fisiocratici il plusvalore esiste esclusivamente nella forma di rendita fondiaria” [13]
Ovviamente Marx, superando i fisiocratici, chiarisce come il plusvalore possa essere generato soprattutto, seppure non solo, dal processo produttivo industriale moderno.
Per concludere. Sebbene in senso generale possa essere considerato “produttivo” anche il lavoro che consiste nell’andare a raccogliere legna, farne delle assi e usarle per costruirsi un tavolo, per Marx il lavoro produttivo caratteristico del modo di produzione capitalistico è quello che produce plusvalore ed anzi, per meglio dire, è quello che alla fine del processo produce nuovo capitale. È solo questo tipo di produzione che interessa al capitale ed è solo per realizzare l’obbiettivo dell’auto-valorizzazione che il capitalista avvia il ciclo produttivo (D-M-D’).
Ma per produrre quel plusvalore non basta l’opera del singolo lavoratore; serve un intero sistema sociale – potremmo dire, un intero modo di produzione – nel quale sono collocate le molte figure che, ciascuna a suo modo, partecipano al processo e permettono che esso raggiunga il proprio obbiettivo.
Questo non significa affatto ridimensionare l’importanza dei lavoratori diretti, ma piuttosto comprendere che con lo sviluppo della divisione del lavoro che il procedere del capitalismo industriale (e post-industriale) porta con sé, molte altre figure diventano indispensabili affinché il processo possa effettivamente realizzarsi e che non potrebbero essere eliminate neppure in un nuovo modo di produzione integralmente comunista.
Del resto, se esiste il tempo di pluslavoro durante il quale si produce il plusvalore c’è anche il tempo di lavoro necessario durante il quale si produce il valore che serve a (ri)produrre il lavoratore, la sua famiglia… e la riproduzione della classe dei lavoratori è, evidentemente, una condizione necessaria per l’intera riproduzione capitalistica.
Quando Marx parla del maestro di scuola si riferisce ad una “fabbrica di istruzione” privata che ha un “imprenditore della scuola” alla propria testa. Ma se anche si volesse prendere a riferimento una scuola pubblica l’esempio reggerebbe comunque perché le scuole pubbliche, pur non avendo l’obbiettivo esplicito di estorcere direttamente plusvalore, concorrono eccome alla formazione del plusvalore. Lo fanno in modo pratico svolgendo il ruolo di “ente formatore” di tutte le figure che sono destinate ad operare nel mondo della produzione capitalistica (elettricisti, informatici, ingegneri, infermiere, meccanici, medici…) e lo fanno in modo ideologico (come ci insegna Louis Althusser [14]) concorrendo alla riproduzione delle condizioni – in questo caso “culturali” e “ideologiche” – della produzione capitalistica.
Note
[1] Sul carattere “materiale” del lavoro mentale cfr. Guglielmo Carchedi, Sulle orme di Marx.
[2] Karl Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, 1980, pag. 555.
[3] “Prevalentemente” perché anche il più mentale dei lavori ha sempre una dimensione manuale ed anche il più manuale dei lavori ha sempre una dimensione mentale.
[4] Karl Marx, Il Capitale, Cap. XXII.
[5] Karl Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, 1980, pag. 556.
[6] Ma un discorso del tutto analogo potrebbe essere fatto anche per epoche antecedenti quella del modo di produzione capitalistico. Si prenda l’esempio degli opifici fiorentini nei quali i cosiddetti “ciompi” venivano concentrati a produrre plusvalore attraverso la produzione di tessuti.
[7] Cfr. Giovanna Vertova, Potenzialità e limiti del reddito di base. Risposte al questionario di Etica & Politica.
https://www.openstarts.units.it/bitstream/10077/14142/7/Etica_e_politica_2017_1.pdf
[8] Il lavoratore non produce per sé stesso, ma per il capitale.
http://www.mlwerke.de/me/me23/me23_531.htm
[9] Per fare un esempio: “Resta qualche perplessità relativamente alla scelta del pur ottimo traduttore italiano (Q. Principe) di rendere il tedesco “Arbeiter” con “operaio” che forse restringe oltremodo l’orizzonte semantico originario del sostantivo tedesco (“Arbeiter” è, letteralmente, lavoratore)”, in L’uomo e le macchine. Per un’antropologia della tecnica, a cura di Nicola Russo, pag. 72
[10] Dizionario inglese, Sansoni, labourer: n., 1 (worker) lavoratore m. (f. -trice) (non qualificato) | 2 (unskilled worker) manovale m. | 3 (farm worker) lavoratore m. (f. -trice) agricolo; (day labourer) bracciante m./f.
[11] Karl Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, 1980, pag. 556.
[12] Karl Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, 1980, pag. 556.
[13] Karl Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, 1980, pag. 556.
[14] Cfr. Louis Althusser, Ideologia e apparati ideologici di Stato.