Giulia Iacometti | Critica del dualismo cartesiano “green”
Tratto da Etica e politica nell’Antropocene (a partire dal contributo di Jason W. Moore), Tesi di laurea in filosofia, Pisa, 2018, PDF, 72 pagine.
L’approccio unitario e dialettico – non dualistico – al rapporto tra natura e società avvicina Moore ad un approccio marxista e l’accusa di “dualismo cartesiano” che egli rivolge contro talune interpretazioni è spesso condivisibile. È condivisibile, ad esempio, quando è rivolta contro le vecchie concezioni dell’ecologismo “green”, nate nel quadro del riflusso seguito alla sconfitta dell’ondata di lotte sociali, politiche, anti-coloniali, operaie, femministe, studentesche… degli anni ’60-’70. Quelle concezioni, avendo abbandonato la prospettiva della trasformazione radicale della società, ponevano dualisticamente il rapporto tra società e natura per fare appello ad una società rispettosa della natura, ad un capitalismo dal volto ecologicamente “umano”. Per promuovere questo tipo di esito l’ambientalismo verde sviluppava un discorso apparentemente ragionevole come quello che vivendo tutti sullo stesso pianeta abbiamo tutti il dovere (e l’interesse) a sostenere il rispetto dell’ambiente, senza tuttavia comprendere alcune cose. Innanzitutto che il capitalismo non ha un regime ecologico, ma è un regime ecologico (Moore), un modo di “rapportarsi” reciprocamente di natura e società e dunque è impossibile pensare un regime economico in contrasto con il regime ecologico.
Inoltre, può esserci un
“[…] manager di un’impresa che in base ai propri calcoli economici non si fa scrupolo di inquinare fiumi o intere regioni del pianeta. Vediamo spesso uomini di buona volontà spiegare accoratamente a quei manager che anche loro sono destinati a soffrire le conseguenze dell’inquinamento che hanno causato. “Dopo tutto”, pensa l’umanista, “siamo tutti esseri umani, e se voi manager inquinate, inquinate anche voi stessi.” Ma la strategia che tenta di sostituire all’interesse economico – “egoista”, secondo Jeremy Bentham e Adam Smith – un interesse semplicemente “umano” è una strategia destinata al fallimento. È impossibile creare un utilitarismo umanista, per il semplice motivo che la realtà del manager è determinata dalla sua esistenza materiale e oggettiva, e proprio questo è ciò che definisce un mondo […] L’inquinatore, certo, inquina anche se stesso, ma la situazione entro la quale egli esiste è articolata in modo
tale da privilegiare la sua identità di manager d’impresa a detrimento di altre dimensioni, che se continuano a far parte del suo sostrato profondo non risultano però decisive della sua situazione di manager.” [25]
Questi appelli sono dunque destinati a cadere nel vuoto e la questione andrebbe quanto meno re-impostata in termini “hegeliani” riconoscendo che l’unica dialettica liberatrice nella relazione servo-padrone è la lotta del servo per emancipare sé stesso; lotta che, mentre emancipa il servo, emancipa anche il padrone visto che, dopotutto, il padrone è costretto egli pure in un ruolo al quale non può sottrarsi e che gli impedisce di liberare le potenzialità connesse all’umana Gattungswesen [26].
Del resto noi cambiamo in profondità la nostra concezione del mondo soltanto nel momento in cui cambiamo la nostra condizione nel mondo [27]; non prima (come ipotizzano le visioni idealistiche), non dopo (come ipotizzano le visioni deterministiche).
Come non vedere, infine, che alcune profonde criticità ambientali pongono ben precise questioni sociali e di potere: si pensi al cosiddetto “effetto Glasgow”
“E se da un lato – come si legge in una inchiesta de Le Monde Diplomatique [28] – un’altra città ex-industriale come Glasgow è divenuta dopo il processo di riqualificazione la seconda città inglese per lo shopping (Buchanan Street è la settima strada più cara al mondo, sfoggia 20 ristoranti di lusso, 7 hotel a 5 stelle, 5 zone di shopping di lusso e 10 golf club privati) dall’altro, come denunciano i dati di un rapporto della Organizzazione Mondiale della Sanità la differenza fra la speranza di vita degli abitanti dei quartieri ricchi e quella dei quartieri poveri di Glasgow è di 28 anni, in pratica negli ex quartieri operai l’aspettativa di vita è inferiore a quella del Bangladesh! Anche in questo caso il potere del denaro occulta la violenza della ingiustizia e si accompagna al suo trionfo.” [29]
Non è dunque vero che stiamo tutti nella stessa barca, neanche dal punto di vista ecologico; anche come e dove si vive è importante. Così come è importante il fatto decisivo di possedere o non possedere i mezzi per spostarsi immediatamente, in caso di necessità. Lo dimostrano in modo esemplare gli effetti sociali delle cosiddette “calamità naturali”
“È noto come i disastri «naturali» che colpiscono le città (terremoti, inondazioni ecc.) abbiano effetti diseguali sui vari gruppi sociali […] Tali disuguaglianze sono venute alla luce in maniera particolarmente vistosa in occasione dell’uragano Katrina che nel 2005 ha distrutto vaste aree della città di New Orleans in Louisiana: mentre i quartieri «neri» hanno subito vere e proprie devastazioni, la comunità bianca più ricca è stata in parte risparmiata o ha potuto beneficiare di interventi di risistemazione degli spazi residenziali più celeri ed efficaci (Rydin, 2006).” [30]
L’interclassismo “green” si è scontrato con la realtà: il lavoratore dell’Ilva di Taranto non può rinunciare al proprio lavoro che è fonte di sussistenza per sé e tutta la propria famiglia (anche se sa benissimo di rischiare un tumore
e di mangiare cibi conditi con le polveri sottili provenienti dall’impianto) e il padrone dell’impresa non intende rinunciare alla propria attività inquinante a meno di non essere adeguatamente remunerato [31]. L’appello alla comune responsabilità ambientalista non è stato raccolto e il movimento verde, che era cresciuto sull’onda del riflusso è rifluito esso stesso.
Note
25 M. Benasayag, A. Del Rio, Elogio del conflitto, pp. 143-144.
26 Cfr. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844.
27 Cfr. K. Marx, F. Engels, Ideologia tedesca.
28 J. Brygo, Vivre riche dans une ville de pauvres, in «Le Monde Diplomatique», juillet 2010.
29 L. Wacquant, I reietti della città. Ghetto, periferia, Stato, pag. 24.
30. U. Rossi, A. Vanolo, Geografia politica urbana, pag. 165.
31. Cfr, ad esempio, A. Balestrino, E. Galli, L. Spataro, Scienza delle finanze, Benefici e costi nella determinazione della quantità ottimale in presenza di esternalità negative, pag. 97.