Etienne Balibar | Lenin, i comunisti e l’immigrazione
Traduzione dal francese di Antiper, luglio 2019, originale in Cinq études du matérialisme historique (Paris: Maspéro, 1974), 195-201 | PDF
Al Capo Redattore de L’Humanitè
Caro compagno
ho appena letto, insieme a tutti i lettori de L’Humanité, la cronaca storica di Jean Bruhat Sui lavoratori immigrati [1], che ci invita alla riflessione collettiva su una questione che l’attualità ha imposto all’attenzione di tutti i comunisti: è per questa ragione che ti chiedo a mia volta ospitalità sulle colonne del nostro giornale per alcune osservazioni sul medesimo argomento.
Ma prima di tutto, se mi è permesso e convinto di interpretare il sentimento generale, vorrei sottolineare la qualità e l’impostazione politica del pezzo di Jean Bruhat il quale, collocando la storia passata del movimento operaio in una prospettiva di lotta, pur senza alcun tipo di apologetica, ci offre informazioni essenziali per la conoscenza del presente e ci mostra la via di un’analisi critica, marxista e leninista, delle tendenze attuali nella storia del movimento operaio, dando alla nostra formazione politica permanente un contributo notevole.
Torno alla questione dei lavoratori immigrati. Jean Bruhat si è volontariamente limitato all’esame dei fatti che riguardano il primo periodo della storia del capitalismo industriale, contestuale alla nascita del movimento operaio internazionale. Sotto quali forme nuove la questione si è sviluppata in seguito? Alle fonti menzionate da Jean Bruhat, qui possiamo aggiungerne molte altre, tra cui Lenin.
Lenin e l’immigrazione
Nell’ottobre del 1913, Lenin pubblica un articolo poco conosciuto su “Il capitalismo e l’immigrazione dei lavoratori” [2]. Qui egli afferma che
“Il capitalismo ha creato un tipo particolare di migrazione di popoli. I paesi che si sviluppano industrialmente in fretta, introducendo più macchine e soppiantando i paesi arretrati nel mercato mondiale, elevano il salario al di sopra della media e attirano gli operai salariati di quei Paesi.
Centinaia di migliaia di operai si spostano in questo modo per centinaia e migliaia di verste. Il capitalismo avanzato li assorbe violentemente nel suo vortice, li strappa dalle località sperdute, li fa partecipare al movimento storico mondiale, li mette faccia a faccia con la possente, unita classe internazionale degli industriali” [*].
Questa constatazione conduce immediatamente Lenin all’osservazione seguente
“Non c’è dubbio che solo l’estrema povertà costringe gli uomini ad abbandonare la patria e che i capitalisti sfruttano nella maniera più disonesta gli operai immigrati. Ma solo i reazionari possono chiudere gli occhi sul significato progressivo di questa migrazione moderna dei popoli. La liberazione dall’oppressione del capitale non avviene e non può avvenire senza un ulteriore sviluppo del capitalismo, senza la lotta di classe sul terreno del capitalismo stesso. E proprio a questa lotta il capitalismo trascina le masse lavoratrici di tutto il mondo, spezzando il ristagno e l’arretratezza della vita locale, distruggendo le barriere e i pregiudizi nazionali, unendo gli operai di tutti i paesi nelle più grandi fabbriche e miniere dell’America, della Germania, ecc” [*]
A questo punto Lenin esamina la base economica dell’immigrazione, costituita dallo sviluppo ineguale del capitalismo: citando le statistiche sull’immigrazione negli Stati Uniti e in Germania, mostra che lo sviluppo dell’immigrazione dei lavoratori non cessa di crescere, ma che la sua struttura è cambiata dal 1880 al 1890: mentre nel periodo precedente l’emigrazione europea proveniva principalmente dai “vecchi paesi civilizzati” (Inghilterra e Germania), dove il capitalismo si era sviluppato più velocemente, ora sono i paesi “arretrati” (a cominciare dall’Europa Orientale) che forniscono all’America e ad altri paesi capitalisti “avanzati” lavoratori sempre meno qualificati. In queste condizioni, da un lato
“I paesi più arretrati del vecchio mondo, che più di tutti hanno conservato vestigia della servitù feudale in tutto il modo di vita, vengono, per così dire, sottoposti forzatamente a una scuola di civiltà” [*]
(ovvero il capitalismo), e dall’altro questo processo accentua l’“arretratezza” dei paesi in ritardo, trasformati in massicci fornitori di lavoro.
Tuttavia, passando dal piano economico a quello politico, Lenin nota che se i lavoratori russi sono da questo punto di vista più arretrati, essi sono invece più avanti nella lotta contro i tentativi della borghesia di divisione razzista [tra i lavoratori, ndt]:
“gli operai russi, in confronto al resto della popolazione cercano sempre più di uscire da questa arretratezza e barbarie, [sempre più oppongono resistenza a queste “deliziose” caratteristiche della loro patria, sempre più strettamente] si uniscono con gli operai di tutti i paesi in un’unica forza liberatrice mondiale.” [*]
Immigrazione e imperialismo
Ho fatto lunghe citazioni dell’articolo di Lenin per mettere in evidenza il doppio problema posto immediatamente dall’immigrazione: il problema delle sue cause economiche e della loro trasformazione nella storia del capitalismo, e il problema dei suoi effetti politici sul lotta del proletariato.
Per convincersi dell’estrema importanza di questi problemi, è sufficiente rileggere L‘imperialismo, stadio supremo del capitalismo [3]: qui Lenin analizza in modo molto più ampio i cambiamenti di tendenza nell’emigrazione dei lavoratori in quanto aspetto fondamentale dell’imperialismo, stadio del “parassitismo e della putrefazione del capitalismo”, e al tempo stesso le contraddizioni nello sviluppo delle forze produttive e la trasformazione nella struttura di classe dei paesi imperialisti (segnata dalla formazione dell’“aristocrazia operaia” e dal declino relativo nel numero di produttori).
Queste caratteristiche sono strettamente collegate e conducono Lenin ad evidenziare le conseguenze politiche, comprese quelle negative (“la tendenza dell’imperialismo a dividere i lavoratori, a rafforzare tra loro l’opportunismo, a provocare la disarticolazione momentanea del movimento operaio”).
L’analisi di Lenin è tanto più attuale in quanto apre, pur senza risolverli definitivamente, una serie di problemi teorici e pratici. Essa ci costringe a considerare l’immigrazione, e le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori immigrati, nel quadro della teoria dell’imperialismo al di fuori della quale le forme attuali dell’immigrazione resterebbero inintelligibili. La conoscenza concreta delle cause e degli effetti dell’immigrazione è, per converso, un filo che ci conduce verso la conoscenza dell’imperialismo, vale a dire del capitalismo nella sua fase attuale.
Jean Bruhat, citando Marx, mostra l’importanza della concorrenza tra gli stessi lavoratori fin dall’inizio del capitalismo industriale. Questa concorrenza non è un fenomeno passeggero o secondario, bensì la base stessa dei rapporti di produzione capitalistici che oppongono la massa dei lavoratori individuali, “liberi” venditori della propria forza-lavoro, ad un capitale sempre più concentrato, proprietario dei mezzi di produzione. La concorrenza tra lavoratori sta la base del lavoro salariato come [specifico] modo di sfruttamento della forza-lavoro e può scomparire solo con la scomparsa del capitale, nella misura in cui si sviluppano in modo rivoluzionario nuovi rapporti di produzione, [ovvero] rapporti di produzione comunisti.
È vero che le forme di questa concorrenza si trasformano storicamente: ma questa trasformazione non fa altro che sostituire semplici pratiche di assunzione periodica nei paesi limitrofi, dove il “tasso nazionale dei salari” è inferiore [4], con l’“organizzazione” più complessa del mercato del lavoro, realmente internazionale, che pone le une accanto alle altre, le une contro le altre, grandi masse di lavoratori diversamente qualificati, diseguali. Questa trasformazione non è altro che lo sviluppo stesso dei rapporti di produzione capitalistici.
Ed è vero anche che le lotte della classe operaia, il progresso della sua organizzazione, tendono a contrastare gli effetti della concorrenza e obbligano il capitale (di cui la borghesia non è che lo strumento) a cercare senza posa nuovi metodi di reclutamente, di selezione e di uso dei lavoratori, nuove fonti di forza-lavoro: ovvero, lo sviluppo dei rapporti di produzione capitalistici deriva [anche] da una quotidiana e ininterrotta lotta di classe.
Immigrazione e rivoluzione tecnologica
È necessario fare un passo ulteriore: come indica ancora Jean Bruhat, la lotta sul salario (comprimere gli stipendi per alcuni, difendere gli stipendi per altri) è il primo elemento. Ma non è tutto perché lo sviluppo dello sfruttamento capitalistico combina strettamente la pressione sui salari, l’allungamento dell’orario di lavoro e la trasformazione (tecnica) del modo di produzione stesso, che rende possibile aumentare tanto la produttività quanto l’intensità del lavoro. Stiamo toccando una delle questioni più scottanti dell’attualità che riguarda gli effetti dell’incessante “rivoluzione industriale” del capitalismo in particolare sui lavoratori semi-specializzati della grande industria meccanica, elettronica, ecc.
Ed ecco il punto importante: non bisogna analizzare separatamente, in modo eclettico, gli aspetti attuali dello sfruttamento che sono legati alla meccanizzazione, alla parcellizzazione del lavoro, alla sua intensificazione e quelli relativi alla concorrenza internazionale tra i lavoratori, all’immigrazione. Questi aspetti si condizionano l’uno con l’altro. Bisogna dunque, come mostrato da tante lotte recenti, riconoscerli come aspetti di un medesimo processo sovradeterminato.
Non è affatto una coincidenza che nella maggior parte dei principali paesi imperialisti la quota di lavoratori immigrati sia più alta sulle linee di produzione e di montaggio, nei grandi cantieri edili e nei lavori pubblici, dove la forza-lavoro è sottoposta ad uno sfruttamento intenso e viene usata con spaventosa rapidità, e dove si richiede il suo frequente rinnovamento.
Nella sua straordinaria inchiesta [5], Jacques Frémontier ha mostrato in modo eloquente (o piuttosto ha lasciato che fossero i lavoratori stessi a dimostrare) che la divisione tra operai “qualificati” e “semi-qualificati” è spesso molto sottile e artificiale dal punto di vista delle qualità professionali reali o anche delle stesse condizioni di lavoro, e trae la propria persistenza dal fatto che interseca massicciamente la divisione tra lavoratori “nazionali” e “stranieri” e comprende anche il gap politico e culturale che rinforzano e perpetuano questa divisione.
È quindi necessario partire da questo per comprendere come le caratteristiche dell’imperialismo, a livello dei rapporti internazionali di produzione, si riflettono necessariamente nel processo di produzione immediato, nelle forme in cui il capitalismo trasforma continuamente le forze produttive esistenti, nella complessa forma delle lotte di classe che sono iscritte nel cuore stesso della produzione.
I comunisti e l’immigrazione
Nonostante la brevità di queste indicazioni si può comprendere immediatamente l’estrema importanza politica del problema dell’immigrazione per il proletariato e le sue organizzazioni.
Nelle nuove condizioni della nostra epoca, la presenza di lavoratori immigrati e la loro lotta fanno dell’internazionalismo, più che mai, la condizione stessa della lotta per la liberazione dei lavoratori, come hanno sempre sostenuto e spiegato Marx e Lenin: [le nuove condizioni] richiedono che questo internazionalismo trovi modi sempre più concreti e organici di affermarsi. L’avvenire stesso dei lavoratori di ciascun paese dipende da questo perché essi non devono più combattere in parallelo e ciascuno per proprio conto lo stesso avversario, ma costituire ovunque “distaccamenti” di un’unica forza combinata e unita. Così, è lo sviluppo stesso dell’imperialismo che conduce ad una nuova forma superiore di internazionalismo in una nuova fase della storia del movimento operaio.
Inoltre, richiamando la nostra attenzione sulle forme successive che permettono al capitale, nonostante le lotte operaie, di sviluppare la concorrenza tra i lavoratori, che è la base del loro sfruttamento, la questione dell’immigrazione ci mostra di nuovo concretamente perché il movimento operaio deve condurre una lotta costante contro le insidie dell’economismo: lasciare alla lotta sindacale il suo giusto ruolo, insostituibile, ci mostra anche l’assoluta necessità della lotta politica unitaria dei lavoratori “nazionali” e “immigrati”, per la rivoluzione socialista, che sola permetterà di distruggere le basi dello sfruttamento.
Citerò un’ultima volta Lenin che nell’ottobre 1917 scriveva a proposito della revisione del programma del partito bolscevico:
“Terminando così l’esame del progetto del compagno S[okolnikov], dobbiamo notare soprattutto un’altra aggiunta molto preziosa, che egli propone e che, a mio parere, bisognerebbe accettare e perfino ampliare. E precisamente: egli propone di aggiungere nel paragrafo che parla del progresso tecnico e dell’incremento dell’impiego del lavoro delle donne e dei fanciulli: (impiegare) “parimenti il lavoro degli operai stranieri non qualificati, importati dai paesi arretrati”. È un’aggiunta preziosa e necessaria. È infatti proprio caratteristico in particolare dell’imperialismo questo sfruttamento del lavoro degli operai peggio pagati provenienti dai paesi arretrati. Proprio su di esso è fondato, in certa misura, il parassitismo dei paesi imperialisti ricchi, che corrompono anche una parte dei propri operai con una paga più alta, mentre sfruttano oltre misura e senza vergogna il lavoro degli operai stranieri “a buon mercato”. Alle parole “peggio pagati”, bisognerebbe aggiungere anche: “e spesso privi di diritti”, poiché gli sfruttatori dei paesi “civili” approfittano sempre del fatto che gli operai stranieri importati sono senza diritti. Ciò si osserva costantemente non solo in Germania nei confronti degli operai russi, cioè provenienti dalla Russia, ma anche in Svizzera nei confronti degli italiani, in Francia nei confronti degli spagnoli e degli italiani, ecc…” [6] [**] (Sottolineato da Lenin)
Come vediamo, secondo Lenin è in definitiva sul terreno della lotta e dell’organizzazione politica che i lavoratori di qualsiasi nazionalità possono forgiare la loro necessaria unità. Questa unità non si acquisisce spontaneamente ma deve essere conquistata contro i rapporti di sfruttamento sviluppati dall’imperialismo, a costo di una difficile lotta politica e ideologica. È, più che mai, l’obiettivo primario dei comunisti che, secondo la parola d’ordine di Marx,
“I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solamente per il fatto che da un lato, nelle varie lotte nazionali dei proletari, essi mettono in rilievo e fanno valere quegli interessi comuni dell’intiero proletariato che sono indipendenti dalla nazionalità; d’altro lato per il fatto che, nei vari stadi di sviluppo che la lotta tra proletariato e borghesia va attraversando, rappresentano sempre l’interesse del movimento complessivo” [7] [***]
Di fronte allo sviluppo delle lotte dei lavoratori immigrati e delle loro originali forme, delle loro difficoltà, l’opportunismo “di sinistra” vuol vedere nell’immigrazione il “vero” proletariato, la realizzazione di un’idea mitica di proletariato, esaltando le divisioni e rafforzandole, a beneficio del capitale. Da parte sua, l’opportunismo “di destra” nega la realtà di queste divisioni, delle contraddizioni sviluppate dall’imperialismo all’interno della stessa classe operaia, e finisce per abbandonare gli immigrati al proprio destino e poiché ritengono che questi pongano un semplice problema di disuguaglianza economica, legale e sociale, non chiedono che un [semplice] miglioramento per i più “svantaggiati”.
Quanto a noi, comunisti, dobbiamo guardare meglio in faccia queste contraddizioni per riconoscere le cause oggettive e i limiti che la nostra azione deve fronteggiare e superare. Sappiamo che [solo] l’intera classe operaia può sperare in quella formidabile liberazione di energia rivoluzionaria [che costituisce] il grande passo in avanti verso la sua emancipazione. [8]
Note
[*] Per le iniziali citazioni di Lenin abbiamo utilizzato la traduzione tratta da Lenin, Il capitalismo e l’immigrazione operaia, Opere, vol. XIX, pag. 420, pubblicato in Za Pravdu, n.22, 29 ottobre 1913.
https://www.marxists.org/italiano/lenin/lenin-opere/lenin_opere_22.pdf
[**] Qui abbiamo usato la traduzione tratta da Lenin, Per la revisione del programma del partito, Opere, vol. XXVI, pubblicato in Prosvestcenie, nn, 1-2, ottobre 1917.
[***] Qui abbiamo usato la traduzione tratta da K. Marx, F. Engels, Il manifesto del partito comunista, Editori Riuniti, Roma 1973, pp. 76-89.
[1] L’Humanité del 15 maggio 1973.
[2] Apparso in Za Pravdou ; cf. Œuvres complètes, tome XIX, p. 488-491.
[3] Œuvres complètes, tome XXII, p. 305.
[4] Cf. MARX, Le Capital, livre I, chap. 22.
[5] La Forteresse ouvrière, Fayard, 1971.
[6] Œuvres complètes, tome XXVI, p. 170.
[7] Manifeste communiste.
[8] Questo articolo è apparso su L’Humanite dell’8 giugno 1973.
Le parole tra parentesi quadre sono aggiunte dal traduttore per rendere più fruibile la lettura.
– Cfr Etienne Balibar, Cinq etudes du materialisme historique su Library Genesis
– Cfr. anche la traduzione inglese Lenin, Communists, and Immigration (1973) a cura di Patrick King