Antiper | Il feticismo degli algoritmi e il suo arcano
Il dibattito sull’influenza che gli algoritmi esercitano sulla nostra quotidianità non è un dibattito nuovo. Al contrario, possiamo pensare questo dibattito come la riproposizione in una nuova forma dell’antico dibattito sull’influenza che la cosiddetta Tecnica esercita nella nostra vita e che appassiona da lungo tempo gli studiosi, polarizzandoli soprattutto intorno a due posizioni che possiamo definire, per semplicità, apologetica e apocalittica.
In omaggio al bicentenario della nascita di uno dei padri delle scienze sociali – Karl Marx – e per uscire da una dicotomia in larga misura anti-dialettica possiamo provare a suggerire una lettura di questo tema incentrata sul concetto di feticismo.
Come noto, Karl Marx sviluppa il tema del feticismo nella sua opera più importante, Il Capitale [1]. Secondo Marx, il feticismo consiste nel fatto che il rapporto tra uomini e cose che si esprime attraverso le merci nasconde quello che è in realtà un rapporto tra uomini e uomini, ovvero un rapporto sociale e in particolare il rapporto tra chi detiene i mezzi di produzione (e può quindi mettere in moto il ciclo di accumulazione che ha la produzione di valori d’uso come mezzo e la produzione di plusvalore come fine) e chi, invece, possiede solo la propria capacità di lavorare e dunque sta nella produzione solo come “agente operativo” e non come “agente strategico” (per usare un’espressione di Gianfranco La Grassa).
Ora è del tutto evidente che quelli che noi chiamiamo “algoritmi” sono a tutti gli effetti delle merci ed anche solo per questo possiamo dire, marxianamente, che esiste un feticismo degli algoritmi che è espressione particolare del più generale feticismo delle merci.
E in cosa consiste questo feticismo degli algoritmi? Cosa nasconde il nostro rapporto con gli algoritmi? Nasconde, evidentemente, la dissimmetria strutturale – dunque non accidentale – che sussiste tra i soggetti sociali che agiscono in un mondo che, a prima vista, appare effettivamente governato da algoritmi ovvero da meccanismi impersonali ed automatici, ma che in realtà è governato da ben precisi rapporti sociali e culturali.
Come nel caso delle merci più in generale, anche nel caso degli algoritmi chi produce non è chi decide la produzione. Mark Zuckerberg e lo sviluppatore di Facebook non sono due soggetti egualmente influenzati dall’azione degli “algoritmi” (e ugualmente influenti sull’azione degli algoritmi). Dunque, porre la questione nei termini del dilemma “Algoritmi vs Umanità” (allo stesso modo in cui, per decenni, una certa filosofia e una certa letteratura hanno posto il dilemma “Tecnica vs Umanità”) significa nascondere ciò che si cela dietro il rapporto che ciascuno di noi, in qualità di membro della società, intrattiene con la tecnologia, la scienza, gli “algoritmi”…
Non si tratta di un approccio “riduzionistico”. L’odierna capacità di elaborazione dei “big data” è certamente straordinaria; l’intelligenza artificiale e il machine (self) learning cominciano a diventare realtà; i nuovi media favoriscono la produzione di masse sterminate di informazioni personali che vengono usate per promuovere il consumo delle merci e l’orientamento politico e culturale (come mostra il recente “caso Cambridge Analytica” o anche il più vecchio “caso NSA” portato alla luce da Edward Snowden).
E proprio qui si colloca una seconda domanda cruciale: perché centinaia di milioni di persone offrono spontaneamente sé stessi, i propri sentimenti, le proprie convinzioni, aspirazioni, desideri… alla rete? Perché la socialità virtuale “soppianta” la socialità reale? Cosa ci spinge nelle fauci degli algoritmi del capitale?
Note
[1] Karl Marx, Il Capitale, libro I, capitolo 1, paragrafo 4, Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano, Editori Riuniti, 1980.