Laboratorio Marxista | Introduzione a “Volante rossa” di Cesare Bermani (in Primo Maggio)
La nascita del PCd’I nel gennaio ’21 a Livorno arriva in ritardo, sia per tentare di orientare in senso rivoluzionario il movimento del “biennio rosso”, sia per impedire – o quantomeno ostacolare – l’affermazione del fascismo.
Per rispondere alla violenza fascista nasce all’inizio dell’estate 1921 il movimento anti-fascista degli “arditi del popolo” [4] che si svilupperà rapidamente grazie soprattutto all’apporto decisivo di comunisti ed anarchici per esaurirsi quasi completamente nell’autunno [5] dopo una breve vita di pochi mesi; questo movimento costituisce la prima vera esperienza di resistenza antifascista armata ed avrà un ruolo importante almeno fino allo sciopero insurrezionale del 1921 e alla marcia su Roma.
Da sottolineare il fatto che, tanto durante l’occupazione delle fabbriche nel ’20 quanto nel ’21 con gli “arditi del popolo” – seppure in forma e misura diversa – la parte più avanzata del proletariato avverte la necessità di organizzare la difesa armata contro la violenza dello stato prima e del fascismo poi e che, su questo terreno, settori delle masse popolari rivelano spesso una determinazione superiore a quella delle loro stesse direzioni politiche. Tanto è vero che, mentre nella lotta comunisti, anarchici e proletari non organizzati trovano un ampio terreno di unità di classe, prima il PSI (per consapevole scelta riformista) e poi il PCd’I (per dogmatismo settario) stentano a definire una linea politica adeguata al livello di scontro in atto.
La seconda fase principale delle lotte di classe in Italia è quella del periodo della Lotta di liberazione (1943-‘45) che rappresenta il culmine di una resistenza che era sopravvissuta al fascismo grazie soprattutto all’attività clandestina del partito comunista. Alla fase della Lotta di liberazione è utile aggiungere anche la fase successiva al 25 aprile 1945 per arrivare almeno fino all’attentato a Togliatti (14 luglio 1948) in modo da poter analizzare un periodo storico caratterizzato da una situazione profondamente contraddittoria con esperienze di lotta antifascista (come ad esempio quella della “Volante Rossa” a Milano o il “triangolo rosso” in Romagna) che la storiografia ufficiale (compresa quella del PCI) ha teso sistematicamente ad occultare.
La terza fase è quella che va dall’esplosione del movimento studentesco nel 1968 fino ai primi anni ‘80, passando per il “movimento del ‘77”.
Il ’68 nasce nei campus americani in un contesto internazionale caratterizzato da diversi elementi – dalla guerra nel sud-est asiatico alla Rivoluzione culturale e proletaria cinese – e arriva in Europa dove esplode prima in Francia con il “maggio” e poi in Italia; proprio in Italia, in collegamento con il movimento studentesco, si sviluppa la vasta mobilitazione operaia dell’“autunno caldo” 1969 e nasce un nuovo “movimento dei consigli” la cui lotta culminerà con la conquista dello Statuto dei Lavoratori nel 1970 (peraltro considerato, allora, una sorta di compromesso riformista rispetto alle potenzialità di sviluppo di una reale autonomia di classe).
Elemento significativo di questa fase è la crescita dell’autonomia politica della classe che si esprime sia negli aspetti rivendicativi di carattere sociale ed economico, sia negli aspetti politici e culturali di critica e per la trasformazione dello stato di cose esistente, in un quadro internazionale caratterizzato dalla crescita complessiva delle istanze di liberazione; a questa maggiore autonomia lo stato risponde con la “strategia della tensione” e la legislazione “d’emergenza” attraverso cui tenta di colpire sia le forme generali dell’opposizione di classe, sia alcune forme particolari (come la lotta armata, che in Italia, in alcune fasi, assume caratteristiche di relativo radicamento e diffusione politica e territoriale).
Questa fase – almeno in termini di conflitto diffuso e generalizzato – viene generalmente considerata conclusa nel 1980 con la sconfitta operaia alla Fiat che segna simbolicamente la fine di un ciclo di lotte durato oltre un decennio.
Alla sconfitta del movimento sociale nei paesi imperialisti (lotte operaie, lotte studentesche, lotte per la casa, lotte per i diritti, lotte delle donne…) e al progressivo attenuarsi del ciclo di lotte anti-coloniali e anti-imperialiste che avevano segnato interi continenti (dall’America Latina all’Africa, dal Medio Oriente al sud-est asiatico…) segue la disintegrazione del movimento politico il quale, anche a causa della mancanza di un partito comunista capace di ri-orientare i militanti nella nuova fase, si ritira “in ordine sparso” e si disarticola strategicamente e organizzativamente.
Naturalmente, ogni classificazione contiene in sé il pregio della semplicità e il difetto della semplificazione.
Ognuna delle fasi brevemente introdotte dovrebbe essere analizzata molto più in profondità nel suo contesto sociale, politico ed economico. Solo così è davvero possibile comprendere anche le trasformazioni molecolari attraverso le quali si determina il movimento di classe.
Nell’ambito di queste tre fasi principali riteniamo che quella della Lotta Partigiana sia stata il punto più alto raggiunto in Italia dal proletariato nella sua lotta per il potere. E’, questa, una tesi non nuova che noi consideriamo a grandi linee corretta per tutta una serie considerazioni che cercheremo di evidenziare nel seguito.
Intanto, raggiungere un punto avanzato nella lotta per il potere vuol dire imporre rapporti di forza favorevoli e poter contare su una situazione di ingovernabilità del sistema dominante in cui sia possibile affermare un reale contropotere delle classi popolari. Questa condizione c’è stata in Italia nel 1919-’20 e ancor più nel 1943-’45, ma non – ad esempio – negli anni ’70 (se non in forma puramente embrionale).
E’ chiaro che affermare un tale contropotere significa stabilire rapporti di forza favorevoli su ogni piano e dunque anche sul piano militare. E la Resistenza è stata il punto più alto raggiunto dal proletariato anche nella sua forza militare contro la borghesia [6]. Questo è vero indipendentemente dal fatto che certi rapporti di forza siano stati possibili grazie alla convergenza in funzione anti-nazista del blocco russo-anglo-americano e di questo con la Resistenza.
La Rivoluzione d’Ottobre si è determinata, in larga parte, nell’ambito del disfacimento dell’esercito zarista seguito alla Prima Guerra Mondiale e del conseguente ammutinamento (e passaggio nel campo rivoluzionario) di suoi larghi settori.
La stessa Resistenza Jugoslava, che è stato il solo esempio di liberazione autonoma dal nazismo in Europa ed elemento decisivo della vittoria antifascista nell’Europa centrale, sarebbe stata molto più difficile da condurre se i nazisti avessero potuto concentrarsi unicamente su quel fronte.
Senza poter contare sulla impossibilità da parte del sistema di potere di dispiegare completamente le proprie forze repressive, per le forze rivoluzionarie risulta sempre molto difficile prevalere.
La questione, tuttavia, non è solo di ordine militare: è, anzi, principalmente politica nel senso che nella lotta contro il nazi-fascismo sono maturati gli elementi di una possibile trasformazione in senso rivoluzionario della situazione politica nel nostro paese.
Diversamente da quanto hanno scritto anche molti dei protagonisti della Resistenza [7] le condizioni oggettive per questa trasformazione si erano in larga parte prodotte: ingovernabilità del sistema di potere esistente, disfacimento dell’esercito e delle forze repressive, armamento di ampi settori proletari, lotta accanita nello stesso campo della borghesia tra sostenitori del fascismo e antifascisti borghesi, quadro avanzato di lotta a livello internazionale…
Diversamente dal 1919-’20 ora il partito comunista esiste, ma invece di stimolare la lotta verso l’abbattimento del capitalismo abbraccia una concezione patriottica e democratico-gradualista che chiude ogni ipotesi di trasformazione della lotta di liberazione in lotta rivoluzionaria per il socialismo.
Questa scelta di campo del PCI – che è antecedente alla Liberazione [8] e, a dire il vero, anche alla cosiddetta “svolta di Salerno” del 1944 [9] – si sviluppa, paradossalmente, proprio nel quadro della lotta armata contro il fascismo e conduce il gruppo dirigente del PCI a maturare la definitiva rottura con una concezione anche solo formalmente rivoluzionaria per imboccare la strada della “via pacifica al socialismo” [10].
All’indomani della Liberazione, il PCI è ancora un partito-movimento in cui l’autonomia della base si fa sentire e il consenso (che è molto forte perché, dopotutto, il PCI aveva diretto e animato la Lotta di Liberazione e costruito la propria autorevolezza in decenni di repressione e di clandestinità) si combina anche con la disobbedienza alle direttive [11]. Il partito stesso adotta talvolta un atteggiamento “morbido” verso alcune espressioni di “disobbedienza”. Basti ricordare proprio la Volante Rossa che – malgrado la sua attività militare – nel 1947 viene riconosciuta di fatto dal partito che la chiama addirittura a formare il servizio d’ordine al VI congresso.
Per tenere conto del contesto storico, politico ed economico in cui si sono sviluppate le varie fasi di lotta a cui abbiamo accennato diciamo che, mentre le prime due si inseriscono in una fase di crisi generale del sistema capitalistico a livello internazionale, la terza si determina in un contesto di crisi incipiente che non mostra ancora i suoi effetti di medio-lungo periodo.
Nelle lotte degli anni 1919-’20 e del 1943-’45 è profonda l’influenza economica, sociale e politica della guerra, cioè esiste un substrato “oggettivo” molto importante per la mobilitazione contro le classi dominanti [12].
Le lotte degli “anni ‘70” sono più politiche di quanto non siano sociali, nel senso che più delle condizioni materiali è la coscienza politica che propone lo scenario di lotta e il movimento dei suoi protagonisti.
Qualcuno ha affermato che la stessa lotta armata e, più in generale, la lotta per il potere degli anni ‘70 nasce come sviluppo necessario, seppure di avanguardia e spesso di esigua avanguardia, di movimenti che avendo raggiunto il loro apice rivendicativo (il movimento operaio nell’“autunno caldo” del 1969 e il movimento studentesco nel “68”) devono generalizzarsi su ogni piano – politico e sociale – per non rifluire e perdere, assieme alle conquiste, anche la sua stessa capacità di prospettiva. Che poi questa generalizzazione si sia effettivamente prodotta oppure no fa parte di una riflessione che potrà essere ripresa in altro contesto.
Il “68” si determina in una fase che è ancora di boom economico e la crisi generale che comincia a manifestarsi nella prima metà degli anni ’70 farà sentire i suoi effetti di medio periodo solo verso la fine del decennio (e quelli di lungo periodo forse sono ancora da vedere); si comprende così la contraddizione tra il livello “avanzato” del programma di lotta delle organizzazioni rivoluzionarie e la relativamente ristretta “base oggettiva” di consenso su cui tale programma si è poi effettivamente poggiato.
Nelle analisi delle organizzazioni rivoluzionarie che hanno operato in Italia negli anni ’70 alla sottovalutazione della capacità di tenuta del capitalismo in una fase di non-crisi (o di crisi non dispiegata) e della sua capacità di “comprare” interi settori della classe attraverso concessioni economiche e sociali in cambio della rinuncia alla lotta per il potere si è sommata la sottovalutazione della capacità delle direzioni riformiste (PCI e CGIL) di schierare pienamente la classe a fianco della borghesia nella repressione delle istanze rivoluzionarie individuate come un pericolo non solo dalla DC, ma anche dai protagonisti “di sinistra” di quella gestione consociativa del potere ormai resasi possibile proprio in virtù della forza conquistata dalla classe nelle lotte più recenti.
Finalmente, dopo decenni, il PCI ha una forza elettorale ed associativa tale da imporre al potere democristiano alcune concessioni. Queste concessioni danno ai lavoratori l’illusione che sia possibile progredire gradualmente – ed elettoralmente – verso il potere. La classe – o, per meglio dire, quel limitato settore che aveva guardato alla proposta politica delle organizzazioni rivoluzionarie con relativo interesse – abbandona la costruzione del contropotere e con questa abbandona anche le organizzazioni rivoluzionarie che finiscono nel progressivo isolamento sociale e politico.
Anche alcuni eventi internazionali, come il golpe dei “colonnelli” in Grecia o quello di Pinochet e della CIA in Cile, vengono usati sia dal potere democristiano che dal PCI per spaventare i lavoratori e spingerli ad accettare la logica dei “compromessi storici” e quella che negli anni successivi diventerà la “politica dei redditi” e la “concertazione” (il cui preludio è la “svolta dell’EUR” nel 1978).
Un po’ per la paura di perdere il controllo della sua base, un po’ per il suo “essere Stato” ormai a tutti gli effetti, Il PCI diviene uno dei capisaldi della politica repressiva nel paese attraverso la schedatura della sinistra di classe nella fabbrica e sul territorio, per arrivare alla vera e propria delazione [13].
Ma non basta. I settori della magistratura diretti dal PCI (Vigna, Caselli) sono in prima linea nella lotta contro i “terroristi” e quando non hanno elementi giudiziari li inventano (come a Padova con il processo del “7 aprile” agli autonomi e il “teorema Calogero”). Il PCI si prepara sotto ogni profilo a sostituire la DC al governo del paese.
Come nei primi anni del secondo dopoguerra, nell’illusione della conquista “democratica” del potere, il PCI “si fa Stato” e si mette in prima linea nella repressione di ogni istanza che provenga dalla sua sinistra accettando “democraticamente” l’introduzione nell’ordinamento “democratico” di leggi speciali di stampo fascista, dal 270 bis all’art.90, dall’estensione della custodia cautelare all’introduzione dell’isolamento nei cosiddetti “braccetti della morte”.
Le cose però, come era inevitabile, andranno in altro modo.
Sul terreno della repressione di stato delle lotte è lo stato che vince e lo stato, malgrado tutto, non ha nessuna intenzione di affidarsi a partiti che si chiamano “comunisti” e in cui centinaia di migliaia di militanti inneggiano alla Resistenza, all’Urss e che sono convinti che le più abbiette scelte politiche del proprio gruppo dirigente siano solo manovre tattiche per non spaventare i moderati e per poter così raggiungere il potere e fare davvero gli interessi della classe operaia e delle masse popolari.
Dopo avere appoggiato monocolori DC guidati da Andreotti il PCI tornerà ad essere emarginato e verrà attuata quella “conventio ad escludendum” che finirà solo con il crollo del sistema di potere democristiano all’indomani di Tangentopoli (naturalmente non prima della morte del PCI e la nascita del PDS, con relativa scissione).
Se negli anni ’70 all’avanzata del proletariato possono ancora corrispondere una serie di cedimenti di carattere sociale ed economico da parte della borghesia, che li accetta parzialmente – e temporaneamente – soprattutto per disinnescare il potenziale anti-sistemico delle lotte, negli anni ’20, invece, a causa della profonda crisi economica e del “pericoloso” quadro internazionale segnato dalla rivoluzione d’Ottobre e dai tentativi insurrezionali e soviettisti (come in Germania o in Ungheria), la borghesia non risponde con alcun cedimento sociale o economico alle rivendicazioni operaie, ma imposta la soluzione reazionaria del fascismo.
Quando in Italia appare il fenomeno del fascismo il “biennio rosso” è ormai finito e anche nel resto dell’Europa occidentale il movimento comunista è già stato in larga parte sconfitto (come in Germania, dove i socialdemocratici fanno assassinare Karl Libchknecht e Rosa Luxemburg).
E’ dunque possibile per la borghesia impostare la mobilitazione reazionaria delle masse popolari che porterà, nell’arco di alcuni anni, all’instaurazione di regimi fascisti in larga parte dell’Europa. Da una diffusa situazione rivoluzionaria si passa dunque ad una diffusa situazione reazionaria, a conferma del fatto che rivoluzione e reazione sono spesso dialetticamente correlati nel senso che ciascuna ipotesi contiene in sé anche la sua negazione.
Tutta l’esperienza di lotta del ‘900 evidenzia che le condizioni per la conquista del potere si determinano solo per una breve fase in cui l’avversario è debole e non può dispiegare integralmente tutti i mezzi di cui dispone (e che sono sempre notevolmente superiori a quelli del proletariato).
Se non viene colta l’opportunità che si presenta in quella fase si apre la fase della sconfitta e del riflusso. In questo senso, la vicenda successiva alla Liberazione è analoga a quella successiva alle altre due fasi che abbiamo indicato. Dopo i primi anni ’20 si rafforza il potere del fascismo che durerà circa un ventennio; dopo la fine degli “anni ’70” comincia la lunga fase di crisi del movimento rivoluzionario che si protrae ancora oggi [14].
Il dualismo di poteri che si è manifestato dal ’43 al ’45 costituisce un dato oggettivo necessario per qualunque ipotesi di trasformazione rivoluzionaria. E’ cioè una condizione necessaria per tale trasformazione. Ma una condizione altrettanto necessaria è l’esistenza di una organizzazione rivoluzionaria al tempo stesso avanguardia e direzione delle lotte di classe, una organizzazione che intenda puntare sempre a conquistare il miglior risultato possibile per la classe che rappresenta in termini di progetto di trasformazione sociale.
Non dobbiamo sottovalutare i risultati concreti che sono stati ottenuti grazie ai rapporti di forza stabiliti con la lotta partigiana: la Costituzione, la Repubblica, il voto alle donne, l’estensione di alcune importanti libertà democratiche… sono tutte conquiste che sono costate enormi sacrifici e che, aldilà del loro contenuto di classe, dovrebbero essere difese dall’attacco che ad esse viene portato per restringerle o eliminarle.
Le rivendicazioni di carattere “democratico” non definiscono il patrimonio programmatico del partito comunista (che in quanto espressione politica della classe non può che avere un programma di classe (cioè non interclassista); tuttavia i comunisti non possono essere indifferenti rispetto al “quadro democratico” in cui sviluppano la propria iniziativa politica.
E’ molto difficile impostare il problema dell’attacco senza avere risolto quello della difesa. Spesso è proprio nelle lotte di difesa che – dialetticamente – maturano le condizioni sociali e politiche per impostare una ipotesi di trasformazione in senso rivoluzionario (questo, naturalmente, a patto che esista una soggettività politica in grado di stimolare questa maturazione). Inoltre, seguendo Lenin, in un sistema “democratico” è più chiaro alla classe che i suoi problemi non derivano dall’autoritarismo, ma dal capitalismo.
Non possiamo, tuttavia, non tenere conto che se le conquiste formali che la Resistenza ha raggiunto non si sono realizzate concretamente nella fase successiva questo è avvenuto a causa del cambiamento dei rapporti di forza e dello scioglimento del “dualismo di poteri” del ’43-’45 a favore della borghesia che attraverso un blocco sociale clericale-fascista e l’appoggio militare ed economico degli Usa hanno potuto riprendere saldamente il potere nelle proprie mani.
La Costituzione, ad esempio, considerata dai partigiani il risultato più alto conseguito dalla Lotta di Liberazione (ovviamente dopo la Liberazione medesima), è stata sistematicamente disattesa: alla Costituzione “formale” elaborata nel 1946 si è progressivamente sostituita una Costituzione “materiale” imposta dalle classi dominanti attraverso l’esercizio del proprio potere.
Del resto, non era sul terreno elettorale-istituzionale che il proletariato poteva costruire la propria egemonia. Ogni classe ha un terreno più favorevole su cui costruire rapporti di forza a suo vantaggio: la borghesia ha le istituzioni, i lavoratori hanno le lotte. La borghesia ha sempre preteso insegnarci che il suo terreno è quello “democratico” mentre il nostro è quello della “violenza” anche se, per mantenere il suo potere “democratico”, la borghesia non esita a scatenare guerre che per i proletari hanno sempre significato fame, miseria, morte.
Per convincere a votare DC masse popolari ridotte alla fame non bastava la sola “arte oratoria”. Serviva un incentivo un po’ più concreto: nasce così il “piano Marshall” che, agitato in modo ricattatorio in una situazione economica disastrosa, ha consentito alla DC di raccogliere quasi la maggioranza assoluta dei voti alle elezioni politiche del 18 aprile ‘48 [15].
Eppure, questo dato elettorale, che è sempre stato considerato una disastrosa sconfitta, poteva anche essere letto in altro modo ed avrebbe potuto lasciare spazio ad interpretazioni parzialmente diverse. In fondo, anche sul piano elettorale, si era manifestato un ampio consenso alle forze antifasciste e in particolare al partito comunista. Questo consenso era più che sufficiente su impostare un terreno di lotta rivoluzionaria. Non era invece sufficiente, evidentemente, per un terreno di lotta istituzionale. Quello che veniva battuto il 18 aprile 1948 era dunque il disegno riformista di Togliatti, non l’ipotesi dell’alternativa rivoluzionaria nel paese.
Infatti, ben altro che il voto del 18 aprile ci volle per normalizzare la esplosiva situazione politica e sociale che il nuovo potere riceveva in eredità dalla Lotta di Liberazione.
Dal 1945 fino al 1950 comincia una nuova fase dello scontro di classe, una fase in cui lo stato esercita pienamente la sua funzione repressiva contro i movimenti di lotta, inizialmente con l’appoggio dei comunisti e di Togliatti in persona che scarcera i fascisti (molti dei quali si danno peraltro alla lotta armata contro gli antifascisti) e disarma (o perlomeno cerca di disarmare) i partigiani.
Mentre al sud gli agrari si accordano con la mafia per sedare le lotte contadine per la terra [16], nel resto del paese il nuovo ministro degli Interni, Scelba, scaglia la nuova milizia speciale della polizia (la “celere”), armata fino ai denti in funzione anti-manifestazione, contro operai, contadini, lavoratori… con un bilancio in 5 anni di 75 morti e migliaia di feriti [17].
La sconfitta elettorale e la progressiva emarginazione dei partigiani creano una situazione di grande tensione che esplode il 14 luglio 1948 con l’attentato a Togliatti. In mezza Italia centinaia di migliaia di lavoratori insorgono spontaneamente e procedono all’occupazione di fabbriche e al sequestro di mezzi.
Ma la “rivolta” popolare seguita all’attentato è ormai l’ultima occasione per impostare in senso rivoluzionario la situazione. Lo stesso PCI si adopera per frenare la lotta che terminerà infine con la resa e con la somministrazione di pene durissime [18].
Se la Resistenza poté raggiungere rapidamente un alto livello di organizzazione fu grazie all’esperienza che i comunisti avevano maturato durante il fascismo e all’autorevolezza che ne avevano ricavato [19]. La clandestinità, il carcere e la stessa esperienza della Guerra di Spagna (in cui confluirono centinaia dei processati dal Tribunale Speciale fascista) furono elementi decisivi per la capacità del partito di dirigere nel modo migliore (rispetto alle condizioni date) la lotta armata contro il fascismo.
Questa lotta si sviluppò secondo modalità diverse a seconda delle diverse situazioni mostrando così la capacità del partito comunista di adattare le sue tecniche di lotta alle concrete condizioni in cui tale lotta doveva svilupparsi.
Vi furono così le brigate Garibaldi operanti principalmente sulle montagne o nelle valli; ma vi furono anche le SAP, formate nelle fabbriche con il compito di condurre azioni di sabotaggio o di supporto; vi furono i Gruppi di Difesa delle Donne e le staffette che supportavano le formazioni combattenti e il Fronte della Gioventù che organizzava i giovani comunisti.
E vi furono i GAP che operavano nelle città e in cui erano inquadrati elementi che conducevano una doppia vita legale/clandestina e che dettero un apporto decisivo nella lotta dall’interno [20]. L’opera dei GAP fu molto importante non solo in termini militari, ma anche perché i gappisti, con le loro azioni incutevano terrore ai nemici e infondevano fiducia nelle popolazioni delle città che sapevano di poter avere una qualche forma di giustizia rispetto ai soprusi subiti quotidianamente.
In molti casi, grazie all’attività interna di GAP, SAP, GDD… la liberazione delle città si determinò attraverso l’insurrezione popolare combinata con l’azione dalle brigate d’assalto garibaldine e dell’esercito anglo-americano che peraltro, non va dimenticato, per subire le minori perdite possibili, usò per molti mesi la “tattica” del bombardamento indiscriminato delle città esponendo la popolazione alla morte e alla fame.
La ricostruzione di una liberazione realizzatasi solo grazie all’intervento anglo-americano non solo non corrisponde minimamente alla verità (tanto è vero che numerose città si liberarono prima dell’arrivo degli “alleati”), ma è anzi è una delle principali opere di falsificazione storica che tendono a cancellare il ruolo del proletariato italiano (e dei comunisti) nella liberazione stessa e che “fa il paio” con l’affermazione secondo cui la Resistenza l’avrebbero fatta un po’ tutti.
Un dato che sarebbe interessante analizzare è quello della composizione di classe della Resistenza, non tanto per mostrare la “purezza proletaria” di tale composizione (che in vasto movimento popolare di resistenza antifascista, in generale, potrebbe essere persino una limitazione rispetto alla possibilità di costruzione di una reale egemonia e direzione anche su settori sociali esterni alla classe), quanto ad esempio per mostrare lo scarto (quello sì preoccupante) tra la composizione di classe della Resistenza e la composizione di classe della sua direzione politica.
Senza pretendere di esaurire la questione, che meriterebbe ben altro spazio, possiamo ricordare alcuni elementi, il primo dei quali è proprio la mancanza di una statistica completa [21].
Dei 5.619 imputati dal Tribunale Speciale fascista (di cui 4.596 condannati), 3.899 furono operai e artigiani, 546 contadini [22].
Senza contare studenti o casalinghe o impiegati di bassa qualifica si può comunque dire che almeno l’80% dei processati dal TSF furono proletari.
I primi scioperi contro il regime fascista (ancora in piena guerra, cioè in regime di corte marziale) furono quelli del marzo 1943 in alcune fabbriche del Nord come l’Alfa Romeo o le officine di Sesto San Giovanni. E anche gli scioperi del marzo 1944 nelle fabbriche del Nord-Italia (che rientravano nel territorio della Repubblica di Salò) furono decisivi per dare la spallata finale al regime; anzi, furono “la scintilla” della rivolta popolare contro il fascismo [23].
In definitiva, la Resistenza fu una lotta condotta principalmente dal proletariato – e in particolare da operai e contadini – che dal fascismo e dalla guerra aveva ricavato i maggiori “danni” e che dall’abbattimento del fascismo aveva più da guadagnare di quanto non avesse la borghesia [24].
Naturalmente la proporzione tra i vari strati sociali cambiava da zona a zona, in corrispondenza della composizione di classe di ognuna di queste [25].
Sempre ragionando in termini di composizione di classe alcuni compagni sostengono l’esperienza degli “arditi del popolo” in contrapposizione a quella della Resistenza 1943-’45 affermando che alla natura quasi esclusivamente proletaria dell’una fa da contrasto la natura sostanzialmente interclassista dell’altra.
Ma quella dell’interclassismo non è una questione che si possa risolvere in maniera puramente sociologica; è invece una questione squisitamente politicaanche perché la direzione politica degli “arditi del popolo” (Argo Secondari, ad esempio) era improntata soprattutto alla difesa dell’ordine “democratico” dalla violenza eversiva dei fascisti. Il PCd’I sostenne correttamente che se fossero stati i comunisti ad attaccare in modo rivoluzionario l’ordinamento “democratico” – cosa che era nel loro programma politico – Argo Secondari avrebbe probabilmente organizzato gli “arditi” contro i comunisti, ma trasse la conclusione errata che i comunisti non dovessero partecipare a quella esperienza per organizzare proprie formazioni combattenti ottenendo il risultato di indebolire un movimento che si stava sviluppando rapidamente in tutta l’Italia – e a cui la stessa Internazionale Comunista guardava con interesse -, di non riuscire a costruire le proprie formazioni e di perdere capacità di direzione alla base, visto che migliaia di comunisti, indipendentemente dalle risoluzioni del partito, parteciparono comunque all’esperienza degli “arditi”.
In ogni caso, moltissimi dei protagonisti di quella lotta, anarchici, socialisti e proletari non organizzati passarono successivamente nel partito comunista, mostrando di avere tratto, anche dalla sconfitta, il giusto insegnamento che senza una organizzazione rivoluzionaria anche la più generosa iniziativa spontanea è inevitabilmente destinata alla sconfitta.
La questione del rapporto tra programma comunista e alleanze è una questione che si è riproposta anche nella Lotta di Liberazione con la costituzione dei Comitati di Liberazione Nazionale (CLN).
La questione dei CLN merita una riflessione particolare che deve essere basata sull’analisi del quadro storico e politico di quegli anni per non scadere in un astratta contrapposizione pro/contro.
Sicuramente i CLN rappresentano un investimento che il partito comunista compie in una fase in cui è concreto il tentativo di isolarli dalla Lotta di Liberazione. E’ chiaro che anche senza i comunisti sarebbe sorto un organismo come il CLN che avrebbe goduto (certamente in misura molto maggiore di quanto avvenuto) dell’appoggio economico, politico e militare degli “alleati”.
Lanciando con forza la lotta armata immediatamente dopo l’8 settembre ed entrando a far parte dei CLN – anzi, facendosi promotore della loro costituzione e del loro radicamento (può apparire paradossale, ma in maniera ancora più ampia di quanto non facesse lo stesso partito socialista) – il partito comunista riesce a battere il tentativo di isolarlo e diviene il principale protagonista della lotta di Liberazione.
Ciò non toglie che i CLN abbiano sviluppato una agitazione di carattere patriottico protesa alla sola liberazione dal nazi-fascismo e che le istanze rivoluzionarie fossero di fatto bandite; questo ha, da un lato, allargato lo spettro della partecipazione alla lotta di Liberazione, ma, dall’altro, ne ha attenuato il potenziale rivoluzionario e anticapitalista.
Ma lo stesso PCI, con la “svolta di Salerno” ed ancor più con la successiva enunciazione della “via pacifica al socialismo”, ha usato il prestigio conquistato nella lotta armata contro il fascismo per avanzare e consolidare una proposta politica orientata allo sviluppo in senso pacifico e istituzionale della sua attività negando ogni istanza che si ponesse sul terreno della trasformazione rivoluzionaria dei rapporti (capitalistici) di produzione vigenti nel paese.
E’ stato oggetto di molte discussioni il fatto che la scelta democratico-istituzionale del PCI fosse il prodotto di una concreta analisi dei rapporti di forza tra le classi (e dunque un ripiegamento tattico in attesa di una congiuntura politica più favorevole allo sbocco rivoluzionario) oppure la definitiva sanzione di un processo involutivo maturato proprio nella fase della Resistenza. Diciamo che se la prima ipotesi era prevalente nella base del partito, la seconda lo era nel suo gruppo dirigente.
La subalternità del PCI ai CLN non era dunque solo un atteggiamento tattico, ma anche la manifestazione del definitivo abbandono della rivoluzione in Italia e dell’abbraccio a quella che negli anni successivi verrà definita “via italiana al socialismo”.
Sarà solo con la fine degli anni ’60 e soprattutto con gli anni ’70 che in Italia verrà reintrodotta concretamente e in modo ampio la tematica della rottura rivoluzionaria come passaggio inevitabile del processo di trasformazione sociale verso il socialismo e, non a caso, alcune delle principali organizzazioni rivoluzionarie di quegli anni, tanto nella loro denominazione quanto nel loro patrimonio storico e politico, si pongono in dialettica/continuità con la Resistenza, nell’ambito di una rottura verticale con il revisionismo (storico e ideologico).
Con le considerazioni svolte nelle pagine precedenti abbiamo cercato di evidenziare alcuni degli elementi che consideriamo ancora attuali del patrimonio resistenziale. La pubblicazione stessa dell’articolo sulla Volante Rossa che presentiamo in questo libretto assolve al compito di rafforzare un percorso di recupero delle esperienze di lotta del ‘900 nel nostro paese per mostrare la ricchezza di un patrimonio che va ben oltre la storiografia ufficiale (di regime o meno) e che resta fonte inesauribile di insegnamenti.
Questa pubblicazione ci offre l’occasione per sviluppare il nostro punto di vista su alcune questioni che consideriamo attuali e vuole essere un piccolissimo contributo nel recupero di una memoria che sempre di più va perdendosi, specie nelle giovani generazioni che vengono così private degli strumenti per esprimere un giudizio fondato su cosa sia stato il fascismo e su quanto sacrificio sia costata la lotta per la Liberazione.
Grazie a questa perdita della memoria, che le classi dominanti hanno sistematicamente attuato attraverso l’occultamento della verità, i giovani possono finire ammaliati dalla demagogia neo-fascista (grazie anche al fatto che la destra si presenta come antitesi ad una “sinistra” che in questi anni ha governato il paese attaccando in ogni modo le condizioni di vita e di lavoro delle masse e prefigurando – proprio per i giovani – un futuro fatto di precarietà, flessibilità, educazione asservita agli interessi politici ed economici dominanti).
Spesso si è parlato e si parla di “neofascismo”, di “fascistizzazione”, di “crisi della democrazia” in relazione all’inasprimento delle norme e dei comportamenti repressivi dello stato [26].
In realtà, anche da un punto di vista normativo, l’Italia non è mai retrocessa da leggi elaborate dal fascismo per colpire l’opposizione di classe.
Basti pensare al Codice penale – ancora vigente – elaborato da Alfredo Rocco nel 1930 e all’articolo 270 introdotto – come si legge esplicitamente nella relazione di accompagnamento del Codice – per colpire i “bolscevichi” e la cui formulazione è tale da ipotizzare l’arresto legale per chiunque si definisca marxista.
Anzi, la successiva legislazione “di emergenza” della fine degli anni ’70 e quella recente (estensione dei termini di custodia cautelare per le ipotesi di reato di cui all’articolo 27 bis, introduzione della normativa “anti-terrorismo” con l’estensione del 270 al 270 ter e quater, estensione del “carcere duro” – 41bis – ai reati di “terrorismo”) suggeriscono un rafforzamento, in funzione repressiva e preventiva al tempo stesso, della legislazione politica orientata a colpire ogni opposizione di classe, il tutto in un quadro internazionale caratterizzato dalla guerra imperialista come dato semi-permanente e dalla stesura di “liste nere” che bandiscono le organizzazioni rivoluzionarie di tutto il mondo.
Ma sarebbe un errore ritenere che la “fascistizzazione” sia la semplice espressione di un maggiore autoritarismo legislativo.
In realtà, e di questo c’è stata spesso un diffusa incomprensione, il fascismo non fu solo la “dittatura reazionaria della borghesia”, ma anche e soprattutto lamobilitazione reazionaria delle masse; non si potrebbe spiegare, diversamente, come il fascismo sia riuscito a calmierare larga parte dell’opposizione di classe con una attività repressiva poi non così imponente (in ogni caso molto più modesta da quella esercitata dalla borghesia in altri contesti storici e geografici).
In realtà il fascismo e le altre espressioni di mobilitazione reazionaria delle masse (come il nazismo) dimostrano che buona parte delle masse possono anche essere portatrici in talune circostanze storiche di istanze reazionarie quando vengono dirette dalla borghesia imperialista e che esprimono il loro potenziale rivoluzionario solo quando vengono dirette dalle forze rivoluzionarie.
Dalla “perfida Albione” di dannunziana memoria e dalla persecuzione nazi-fascista degli ebrei (con la complicità della chiesa cattolica) la mobilitazione reazionaria delle masse è passata oggi alla guerra contro gli immigrati che pur essendo sfruttati per gli interessi dei capitalisti vengono indicati come i responsabili di tutti i mali; in tutta l’Europa crescono le pulsioni razziste e xenofobe che le classi dominanti cercano di usare per orientare il diffuso senso di disorientamento e di insicurezza sociale delle masse.
A questa mobilitazione reazionaria dobbiamo rispondere cercando di convogliare il malcontento popolare nella giusta direzione, cioè contro le classi dominanti. Non è la “guerra tra poveri” che migliorerà la vita dei “poveri”.
Solo la lotta rivoluzionaria per una società basata sul potere dei lavoratori, una società in cui – come sosteneva Marx – sia “abolito lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e lo sfruttamento dell’uomo sulla natura” può garantire il progresso dell’umanità e impedire il suo procedere verso la barbarie.
La Nuova Resistenza che siamo chiamati a sviluppare oggi è la lotta senza quartiere contro l’imperialismo, cioè contro il capitalismo della fase matura, che devasta la vita della gran parte dell’umanità costringendola alla morte per fame, guerre, malattie, inquinamento.
Ma – come non è accaduto in altre epoche – la lotta non deve limitarsi all’obbiettivo di eliminare le forme più efferate di sfruttamento, bensì orientarsi all’eliminazione di qualsiasi forma di sfruttamento.
Non solo lotta contro il capitalismo “neo-liberista”, dunque, ma lotta contro ogni forma capitalismo.
E non solo lotta contro il capitalismo, ma soprattutto lotta per il comunismo.
(Settembre 2002)
LABORATORIO MARXISTA
Pietrasanta, Viareggio, Massa
ASSOCIAZIONE CULTURALE “1° MAGGIO”
Vicenza
Note
[1] Nato dalla lotta per trasformare le Commissioni Interne (i CdF di allora) in organi eletti dai lavoratori – e non designati dai padroni – capaci di esprimere una direzione di classe all’interno della fabbrica secondo quanto suggerito dal gruppo dell’Ordine Nuovo nel testo “Ai Commissari di reparto della officine Fiat-Centro e Brevetti” del 13 settembre 1919 (cfr. L’Ordine nuovo. 1919-1920, Einaudi).
[2] Organizzata attorno all’area torinese dell’Ordine Nuovo di Gramsci, Terracini, Togliatti e a quella del Soviet di Bordiga.
[3] cfr. Renzo Del Carria, Proletari senza rivoluzione, vol. II., pag.99. “L’occupazione delle fabbriche e il problema del partito rivoluzionario”.
[4] Fondato da Argo Secondari attraverso una scissione dell’Associazione “Arditi d’Italia”, associazione combattentistica di reduci della prima guerra mondiale. crf. Eros Francescangeli,Argo Secondari e gli Arditi del Popolo, ed Odradek.
[5] Eccezion fatta per l’importante episodio delle cosiddette “barricate di Parma” del ’22 in cui i quartieri della città resistettero al tentativo di occupazione da parte delle truppe fasciste di Italo Balbo e da parte dell’esercito che le spalleggiava.
[6] Nel ‘44 intere zone del paese erano di fatto sotto il controllo delle brigate partigiane. Si trattava soprattutto di zone non metropolitane, ma – a parte la liberazione di Napoli e Firenze – avvenute prima delle altre – con il ’45 arrivano anche le insurrezioni popolari delle grandi città del nord.
[7] Pietro Secchia, Aldo dice: 26 x 1, p.155, Feltrinelli. “Nessun dirigente politico o militare responsabile dell’antifascismo militante avanzò mai neppure l’ipotesi di tentare un movimento insurrezionale contro le truppe alleate o di spezzare le barriere che le forze occupanti ponevano all’avanzata della democrazia, con dei colpi di forza. Un movimento insurrezionale in quelle condizioni, data la superiorità schiacciante delle forze anglo-americane e la disposizione dei ceti medi e degli schieramenti politici nel Paese, avrebbe significato battere la testa contro il muro, voler far affogare nel sangue una vittoria e un movimento che rappresentava il vero Risorgimento dell’Italia. Non esisteva alcuna possibilità di prendere quella strada. Anche un ragazzino lo avrebbe compreso. Un problema di tale genere non è mai esistito”. E più avanti, nell’ambito di una certa autocritica ai partiti antifascisti per non aver saputo mantenere certe posizioni Secchia continua: “Si tratta di esaminare se con opera più decisa e più ampie lotte unitarie delle masse lavoratrici non era possibile impedire quella che poi si è chiamata la ‘restaurazione del capitalismo’, il ritorno al regime dei monopoli, se non era possibile un’azione unitaria più decisa e conseguente per portare avanti il rinnovamento economico e sociale del paese, per riformare le sue strutture e realizzare un regime di vera democrazia”. Insomma, Secchia pretendeva di creare una “vera democrazia”, di impedire la “restaurazione del capitalismo” e il “ritorno dei monopoli” attraverso la scarcerazione dei fascisti, il disarmo dei partigiani e la resa di fronte agli americani i quali venivano in Italia proprio per restaurare il capitalismo e i monopoli, per impedire qualsiasi (comunque illusoria) democratizzazione delle strutture dello stato e che per ottenere questo obbiettivo promossero e sostennero in ogni modo l’alleanza tra ex-fascisti, neo-fascisti, monarchici, Vaticano, mafia e, sé stessi, cioè gli USA.
[8] cfr l’articolo di Cesare Bermani riportato in questo stesso opuscolo.
[9] Con la “svolta di Salerno” Togliatti lancia la teoria della “democrazia progressiva” che verrà ulteriormente perfezionata all’VIII Congresso del PCI nel 1958 (sulla scia del XX congresso del PCUS del 1956 in cui viene formulata la teoria della “competizione pacifica” tra campo socialista e campo capitalista). Una immediata ricaduta politica della “svolta di Salerno” sarà il sostegno al governo Badoglio.
[10] Come detto, la svolta del PCI troverà piena definizione nell’arco di pochi anni, ma già da subito Togliatti comincia ad assimilare le forze che intendono continuare la lotta partigiana a veri e propri provocatori (“come nel ’19-‘20”, implicitamente sconfessando, quindi, la stessa esperienza di lotta del “biennio rosso” e sposando – anche sul piano storico – il riformismo vigliacco e traditore dei Turati o dei D’Aragona).
[11] Basti pensare all’esperienza della “Stella Rossa” di Torino, un’area dissidente del PCI che era arrivata a contare fino a 2.000 iscritti.
[12] Si pensi, ad esempio, al fenomeno della diserzione. Molti giovani proletari divennero partigiani, più che per ragioni politiche, per non andare in guerra. In un istante dovevano decidere se rischiare la vita per il re e Mussolini uccidendo altri proletari oppure rischiarla per sé stessi uccidendo i propri oppressori. Ma pensiamo anche alla estrema povertà per le masse popolari che ogni guerra porta sempre con sé. Anche questo è un elemento decisivo del malcontento.
[13] Svolgendo così un ruolo decisivo nella sconfitta militare della guerriglia perché nelle istituzioni forse solo il PCI e la CGIL erano davvero in grado di individuare “simpatie”, “sintonie”, relazioni in realtà che lo Stato e le sue espressioni politiche conoscevano spesso poco e superficialmente.
[14] E che comunque deve essere compresa in un quadro internazionale caratterizzato anche da altri fattori come il riflusso dei movimenti di liberazione, la definitiva crisi dell’Unione Sovietica e la riconquista in Cina del potere da parte dei revisionisti.
[15] Con un travaso di voti notevole anche dai partiti del Fronte Popolare, almeno guardando i risultati delle precedenti elezioni per l’Assemblea Costituente.
[16] Ad esempio, il 2 maggio 1947, a Portella delle Ginestre, in occasione della Festa del Primo Maggio, la banda mafiosa di Salvatore Giuliano – assoldato per l’occasione dalla DC (come si è evidenziato in seguito) – sparò su un migliaio di contadini disarmati uccidendone 7.
[17] cfr Renzo Del Carria, Proletari senza rivoluzione, ed. Oriente. Questo dato è stato successivamente integrato da Cesare Bermani in Il nemico interno, ed. Odradek che parla di 200 morti negli anni che vanno dal 1945 al 1980.
[18] cfr. G.B. Lazagna (Carlo), Ponte rotto, Sapere edizioni (Edizione a cura di Soccorso Rosso): «Delusa con la elezione del 18 aprile 1948 la speranza di una affermazione elettorale del Fronte Popolare, la collera dei comunisti, degli operai e dei partigiani esplose il 14 luglio 1948 in occasione dell’attentato a Togliatti nel quale le masse popolari individuarono giustamente il tentativo di schiacciare definitivamente il movimento operaio. Fu proclamato lo sciopero generale e gli operai, i partigiani, i comunisti scesero immediatamente nelle piazze: tutta l’Italia del nord fu, nel giro di poche ore, nella mani del popolo insorto che costruiva ovunque barricate. A Genova i portuali disarmati si impadronirono di cinque autoblindo della polizia intatte che furono poste a difesa degli insorti. I dirigenti politici dei partiti operai si adoperano per ristabilire la calma, argomentando così: “Gli americani sono ancora in Italia, sbarcheranno altre truppe. Il Sud non segue il movimento, rischiamo la guerra civile, il massacro”. Gli insorti tornarono dopo qualche giorno alle loro case e si scatenò una repressione inaudita: secoli di galera furono distribuiti generosamente».
[19] cfr. G.B. Lazagna (Carlo), Ponte rotto, Sapere edizioni (Edizione a cura di Soccorso Rosso): «Il partito comunista che conobbi, come ‘candidato’ alla iscrizione, nell’autunno del 1942, era una organizzazione rigidamente clandestina composta da poco più di un migliaio di militanti in tutta Italia, formatisi nella durissima lotta cospirativa, nelle galere fasciste, al confino, nell’emigrazione, nella guerra di Spagna, nella resistenza francese». I comunisti che prima del 25 luglio ’43, cioè prima della caduta di Mussolini, erano pochissime migliaia, nel giro di qualche mese diventano diverse centinaia di migliaia, ciò che pone non solo problemi di ordine politico, ma anche problemi di ordine organizzativo molto rilevanti.
[20] Giovanni Pesce, Senza tregua, Feltrinelli.
[21] Renzo Del Carria, Proletari senza rivoluzione, vol. II, p.353, La guerra di liberazione come esempio di rivoluzione interrotta. «Circa la composizione sociale degli appartenenti alle formazioni partigiane non possediamo alcun dato completo; del resto questa lacuna ci sembra significativa di una storiografia tutta tesa a sottolineare il carattere “unitario” e genericamente patriottico della resistenza».
[22] AA.VV., Aula IV – Tutti i processi del tribunale speciale fascista, La Pietra, Milano, 1976
[24] Pietro Secchia, Aldo dice: 26 x 1, p.155, Feltrinelli. «Gli operai erano almeno il 30-35% e altrettanto il numero dei contadini lavoratori: braccianti, salariati, mezzadri, piccoli proprietari. Gli intellettuali, i professionisti, gli studenti, non superavano il 15-20% e questa cifra è di già notevole in rapporto alla percentuale di queste categorie sul totale della popolazione»
[25] Renzo Del Carria, Proletari senza rivoluzione, vol. II, p.353, La guerra di liberazione come esempio di rivoluzione interrotta. «Da dati parziali sulla composizione sociale delle sole formazioni G.L. in Piemonte ricaviamo come il 30% fossero operai, il 20% contadini e l’11,7% artigiani (e cioè complessivamente il 61,7%), mentre l’11% erano studenti e il 15,3% impiegati e professionisti. Nel vercellese, in Valsesia e nell’Ossola le formazioni partigiane “erano composte per il 44,3% di operai, del 32,1% di braccianti, salariati agricoli e contadini poveri, dell’8,3% di artigiani, del 12,1% di studenti, impiegati, tecnici, professionisti e del 3,2% di benestanti. Nelle formazioni partigiane del biellese la percentuale di operai era ancora più alta, superava il 60%” (Moscatelli e Secchia). Nel ravennate, secondo le ricerche del Casali, i contadini erano il 42%, i braccianti il 31%, gli operai il 12%, gli studenti il 3% e tutti gli altri l’11%».
[26] Per stare alla fase più recente si può pensare, ad esempio, a molte delle analisi sviluppate a seguito della repressione scatenata dallo stato a Napoli nel marzo 2001 e a Genova nel luglio 2001 contro il movimento anti-WTO e anti-G8.