Andrea Russo | Terrore, terrorismo, rivoluzione
Una recensione al nuovo libro di Donatella Di Cesare – Terrorismo e modernità – pubblicata nel n.4 di Qui e ora. Si tratta di un testo, quello di Donatella Di Cesare, molto interessante che pone il problema del rapporto tra terrorismo e Stato.
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Rispetto all’ormai sterminata bibliografia sull’argomento, il libro di Donatella Di Cesare merita di essere letto, studiato e discusso, soprattutto da chi nutre velleità rivoluzionarie. La tesi di fondo è la seguente: il terrorismo non è un “mostro”, un flagello che si abbatte dall’esterno sulla nostra società, ma parte integrante della storia del moderno Stato democratico. Il merito di questo libro è mettere allo scoperto il tabù che lo Stato moderno cela dentro di sé.
«Terrorismo» è un termine di cui lo Stato ha il monopolio, così come ha il monopolio della violenza. Scrive Di Cesare, «Solo lo Stato esercita il potere di qualificare, definire, nominare. Solo lo Stato può dire ad altri “terrorista” E, per converso, nessuno può applicare allo Stato questo nome, a meno di non dichiararne apertamente l’illegittimità e comprometterne la sovranità».
Nell’ottica statuale, il terrorismo verrebbe solo dal basso. Insomma, per lo Stato non ci sono dubbi: il terrorismo è quello di ribelli, anarchici, autonomi, brigatisti, e poi oggi quello di islamisti e jihadisti. D’altra parte, è pur vero che oggi nessun rivoluzionario si definirebbe mai “terrorista”. Non è un caso, quindi, che siano soprattutto gli Stati a usare il termine nella retorica del discorso pubblico, revisionando di continuo la definizione a seconda dei gruppi che intendono squalificare.
L’acribia con cui la razionalità politica statuale si dedica a rappresentare il terrorismo come forma assoluta del Male contemporaneo è, in realtà, indice del tentativo, mai del tutto riuscito, di occultare quel quantum di terrore che resta inscritto nel cuore dello Stato moderno. Ora, per chiunque volesse comprendere la relazione originaria che sussiste tra Stato e terrore, c’è un nome in cui ci si imbatte subito: è quello di Hobbes. Nel Leviatano, è la sequenza paura, sovranità, terrore a costituire la genesi dell’ordinamento politico.
Tuttavia, nella modernità, il terrore diventa pienamente protagonista della scena politica solo a partire dalla rivoluzione. La parte del libro dedicata a questo tema è cruciale, in quanto viene dimostrato che «Il Terrore rivoluzionario non è Terrorismo». Il Terrore, come nuovo inizio, è la rivoluzione a teorizzarlo, le parole «terrorismo» e «terrorista» è invece la controrivoluzione a coniarle.
Queste due parole appaiono per la prima volta in Francia e sono invenzione della propaganda termidoriana.
Quando la rivoluzione del 1789 è sconfitta e Robespierre viene ghigliottinato, i vinti della storia vengono immediatamente stigmatizzati come terroristi. Donne e uomini della rivoluzione vengono dipinti come creature mostruose, immorali, criminali. A partire da questo preciso momento storico, scrive Di Cesare, «”terrorista” è il nome di una delegittimazione perpetua, è il marchio di un discredito gettato non solo sul rivoluzionario, che una volta vinto è bandito dall’ambito politico, ma anche in retrospettiva sulla rivoluzione». In sostanza, «dal Terrore scaturirebbe necessariamente il terrorismo. (…). Non sorprende, poi, che l’equazione venga ampliata. Rivoluzione = Terrore = Nichilismo = totalitarismo = barbarie. Così ha funzionato, e così funziona tuttora, un aritmetica elementare che è alla base, sia delle ricostruzioni storiche del terrorismo, sia delle analisi politiche».
Inoltre, a partire dalla seconda metà del Novecento si è affermato un modello ideale di democrazia fondato sul pacifismo, che tende a rimuovere la violenza dal politico. Secondo questa ideologia molto diffusa, la rivoluzione è l’altro della democrazia e non la sua matrice. Archetipo di una violenza indiscriminata, la rivoluzione è così condannata a rientrare nella categoria sempre più ampia di «totalitarismo».
Tuttavia, come ha sostenuto di recente il Comitato invisibile, questa ideologia democratica altera la verità, «facendo della discussione pubblica e dell’assemblea il modello compiuto del politico». Questo modello che si vuole fondato sulla democrazia della Grecia classica risulta essere menzognero, poiché «gli antichi greci hanno inventato fin da subito la politica come continuazione della guerra con altri mezzi». È il detto eracliteo «Polemos è il padre di tutte le cose (…)» a fondare la democrazia della Grecia classica. Anche la politica assembleare per la quale simpatizza il pacifista democratico proviene direttamente dalla pratica dell’assemblea dei guerrieri. «La democrazia ateniese è una democrazia oplitica. L’uguaglianza nella parola deriva da quella davanti alla morte. Si è cittadini perché si è soldati (…). (…) Ma soprattutto, i greci antichi hanno concepito in un solo gesto la democrazia assembleare e la guerra come massacro organizzato, l’una come garante dell’altra». D’altronde anche Foucault pensava che la guerra fosse l’ordito di ogni esistenza politica. «La guerra civile – scrive, infatti, il filosofo francese – è la matrice di tutte le lotte di potere, di tutte le strategie di potere e, di conseguenza, è anche la matrice di tutte le lotte a proposito del, e contro, il potere. (…). La guerra civile, non solo mette in scena degli elementi collettivi, ma li costituisce. Lungi dall’essere il processo attraverso il quale si discende dalla repubblica all’individuo, dal sovrano allo stato di natura, dall’ordine collettivo alla guerra di tutti contro tutti, la guerra civile è il processo attraverso e per il quale si costituiscono un certo numero di nuove collettività che fino a quel momento non avevano visto ancora la luce». Ci sono poi altre storici e filosofi, come Fustel de Coulanges, Jean-Pierre Vernant, Giorgio Agamben, ad aver sottolineato l’importanza della stasis nella polis greca.
La rivoluzione francese, come d’altronde quella russa, non è dunque mai stata terroristica. Nel libro si legge: «Al contrario di quel che in genere si crede, l’impresa del Terrore ha evitato il peggio, perché ha permesso di frenare la violenza legittima del popolo, ha consentito di arginarne la vendetta». A ragione Donatella di Cesare sottolinea invece che «il Terrore denuda la sovranità, la espone a cielo aperto». Nella modernità, infatti, la violenza rivoluzionaria è quella particolare forma di violenza sovrana creatrice di nuove forme di diritto. Ma la rivoluzione che si risolve in una riaffermazione della sovranità, non finisce per avvolgersi in un circolo vizioso?
Una risposta a questa domanda è forse contenuta nel dibattito tenuto da Michel Foucault con i maoisti francesi, intitolato sulla Giustizia popolare. Nel 1971, il filosofo francese si confronta con alcuni militanti sul progetto di istituire un tribunale popolare per giudicare la polizia. La sua ipotesi è «che il tribunale non sia l’espressione naturale della giustizia popolare, ma ch’abbia piuttosto la funzione storica di recuperarla, controllarla, strozzarla, reiscrivendola all’interno d’istituzioni tipiche dell’apparato di Stato». L’esempio che Foucault fa è un momento particolare della rivoluzione francese, lo stesso che viene citato da Di Cesare. Siamo nel 1792, la Francia viene attaccata. Si chiede al proletariato di partire per il fronte. La risposta è che non si andrà a combattere contro i nemici esterni senza essersi prima sbarazzati dei nemici interni. Hanno inizio le esecuzioni di settembre. Ora, le esecuzioni erano appena cominciate, quando gli uomini al governo nella municipalità di Parigi intervengono organizzando la messa in scena del tribunale: giudici seduti dietro a un tavolo, rappresentanti una istanza terza fra il popolo che esige vendetta e gli accusati che sono colpevoli o innocenti, interrogatori per stabilire la verità o strappare la confessione. Non si vede qui riapparire in filigrana l’embrione d’un apparato di Stato? «Stabilire un’istanza neutra – si domanda Foucault – fra il popolo e i suoi nemici, suscettibile di definire la distinzione fra il vero e il falso, il colpevole e l’innocente, il giusto e l’ingiusto, non è una maniera d’opporsi alla giustizia popolare? Una maniera di disarmarla nella sua lotta reale a profitto di un arbitraggio ideale?». Inoltre Foucault ha cura di specificare che l’istanza terza che il tribunale rivoluzionario pone in essere non è teorica, formale, ma socialmente determinata. Chi gestisce i tribunali è una frangia della piccola borghesia (artigiani, piccoli commercianti) che si situano a livello intermedio fra la borghesia al potere e la plebe. Questi tribunali non hanno condannato solo i preti refrattari, ma hanno ucciso detenuti condannati dall’Ancien Régime. In Francia, con i tribunali rivoluzionari nasce la giustizia penale, una delle invenzioni più nefaste del potere costituente.
Per Foucault invece l’atto di giustizia popolare è profondamente antigiudiziario e antitetico alla forma del tribunale. La sua ipotesi è che un certo numero di vecchi riti appartenenti alla giustizia «pregiudiziaria» si sono conservati nelle pratiche di giustizia popolare. La burocrazia e il potere giudiziario devono essere il bersaglio privilegiato della lotta del proletariato. «Come non ci deve essere burocrazia, così non deve esserci il tribunale; il tribunale è la burocrazia della giustizia. Se si burocratizza la giustizia popolare le si dà la forma del tribunale».
Chi dice tribunale, chi dice potere costituente, chi dice nuove elezioni, dice che la lotta fra le forze presenti in una data situazione è, volente o nolente, sospesa e che in ogni caso la decisione presa non sarà il risultato di questa lotta.
Negli anni successivi al 1792 la democrazia nata dalla rivoluzione francese comincerà ad utilizzare la guerra imperialista per imporsi al mondo. Nel libro l’evento inaugurale di ciò che oggi viene definito Jihadismo viene fatto risalire al luglio del 1798, quando le truppe di Napoleone sbarcano ad Alessandria d’Egitto. Insieme ai cannoni, dall’arsenale dell’Illuminismo, Napoleone scarica due concetti, quello di civiltà e quello di nazione. Per Di Cesare, «è il primo faccia a faccia tra l’Occidente, che si vuole progredito, e l’Oriente che si suppone dispotico. Molti altri confronti seguiranno, fino all’epoca delle lotte anticoloniali. Se dapprima si afferma l’idea della nazione, in seguito il mondo mussulmano insorge, anche per via della disgregazione della umma». Di Cesare sostiene quindi che l’«islamismo» è la risposta mussulmana alla modernità occidentale e che esso è inimmaginabile senza le categorie della modernità con cui, pur rifiutandole, si confronta e in parte si articola.
Storicamente, però, ci vorranno due secoli, per realizzare questo «passaggio a Occidente». Sarà, infatti, il generale turco Kemal Atatürk a fondare il primo Stato laico, accogliendo il principio occidentale della nazione. La fondazione del primo Stato-nazione nel mondo mussulmano, è un evento traumatico, in quanto prova che l’ordine politico può fare a meno della sharia ed esautora Dio dalla funzione pubblica. La cesura commenta di Cesare «è profonda, perché l’islam subisce la separazione della sovranità politica dalla comunità dei credenti – senza che l’Occidente riesca a intuirne la gravità. Anche in seguito, durante le lotte anticolonialiste, resterà sempre la tensione tra cittadinanza nazionale e fratellanza mussulmana. Non si comprenderebbero i movimenti islamisti di oggi, senza considerare questa ferita ancora aperta».
Oggi i terroristi vengono etichettati come fanatici. In questa accusa si condensano tutto il disgusto e l’orrore che pervadono gli occidentali del terzo millennio di fronte al perturbante ritorno della religione nella sfera politica. Un’aberrazione! Il diritto pubblico europeo sorto sulle ceneri delle guerre di religioni, sancendo il principio del cujus regio ejus religio, non aveva estromesso una volta per sempre la religione dalla sfera pubblica? Il risaldarsi del nesso fra teologia e politica non è il segno di un inaccettabile e paradossale rigurgito della storia?
Oggi si parla spesso di «islam politico», intendendo l’ingresso della religione islamica sulla scena politica, come un fatto recente. Tuttavia, come viene dimostrato con perizia da Donatella di Cesare, nel mondo mussulmano la politica non è mai stata separata dalla religione. «Fondamento imprescindibile e vincolante delle leggi, della sharia, la religione si è rimessa per la sua realizzazione al potere temporale e a chi di volta in volta, lo deteneva, cioè al califfo, al malik, al sultano all’emiro».
Delle brume che avvolgono il mondo arabo è responsabile anche l’ambito delle ricerche teologico-politiche. Queste per lo più tracciano una genealogia della politica a partire dalla teologia, nel senso della secolarizzazione, ma per Di Cesare, «si resta rigidamente all’interno del cristianesimo (…). Ebraismo e Islam vengono ignorati». Il rischio è che così si scivoli nell’idea che in occidente la religione vera sia il cristianesimo. In tal senso, il modo di intendere la teologia-politica è quello introdotto da Agostino, cioè: la separazione tra «Città Terrena» e «Città di Dio». Questa separazione tra teologia e politica deriva dal fatto che il cristianesimo, già a partire da Costantino, si è sottomesso al potere politico, riconoscendone la sovranità. La separazione tra teologia e politica si fissa nell’immagine del cives che si inginocchia al cospetto del potere sovrano e del fedele che attende giustizia nell’al di là.
Per comprendere la peculiarità di altre tradizioni religiose, ma anche per intravederne le diverse fasi e i temi che sono all’ordine del giorno è necessario mettere tra parentesi la concezione cristiana moderna della separazione tra teologia e politica. In tal senso, questa ricerca ci aiuta a capire in profondità qual è stato e qual è oggi il rapporto tra teologia e politica nell’Islam e la lunga storia e le teorie teocratiche che sono alla base del neocaliffato. Tutto quello che sembra inedito, un nuovo inizio, in fondo, è nient’altro che il ritorno di qualcosa del passato che il tempo aveva cancellato.
Dicevamo in apertura che questo libro deve essere studiato e discusso soprattutto da chi oggi nutre velleità rivoluzionarie. La sete di Armageddeon da cui l’epoca è attraversata, non deve essere sottovalutata dai rivoluzionari. Restare arroccati nel vecchio topos della vulgata marxista della religione come oppio dei popoli è insulso. Vedere nella religione solo ed esclusivamente la volontà di domino clericale e non il potere di rivolta che la religione contiene è pura ignoranza. Dato che i testi di Marx sono ormai poco conosciuti, converrà a ciascuno rileggere per intero il passo contenuto nel saggio Per la critica della filosofia del diritto di Hegel da cui quella formula è stata estratta. Con l’aggiunta del paragrafo 4 del primo capitolo del primo libro del Il capitale, intitolato: Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano e con in più la lettura del frammento benjaminiano Capitalimo come religione.
Gli obbiettivi scelti dai terroristi, per esempio negli attentati di Parigi del 13 novembre 2015, considerati soft targets, quindi a basso indice di pericolosità dall’antiterrorismo, in realtà sono i luoghi di culto della religione capitalista nei quali si consuma il rito perennemente dispiegato del consumo. Gli attentati di Parigi sono di fatto un attacco contro l’insulso edonismo della forma di vita occidentale. A questa nullità etica della religione capitalista si oppongono le forti prescrizioni etiche su cui si articola l’ideologia teologica politica degli islamisti. Ed è proprio questa inclinazione etica, a fronte della piattezza disperante della forma di vita media occidentale, che garantisce una massiccia e continua adesione al “jihad”, anche da parte di giovanissimi cittadini francesi o belgi, quali erano alcuni dei nichilisti che hanno compiuto gli attentati di Parigi.
La verità è che gli attentati mettono a nudo un governo che è apocalittico e cibernetico allo stesso tempo. Oggi ciò che si governa realmente non sono le cause ma gli effetti. Prevenire le cause è più complicato e dispendioso, governare gli effetti, invece, più utile e vantaggioso. Se le cause richiedono di essere conosciute, pensate e affrontate prima che diventino una valanga inarrestabile, gli effetti possono solo essere verificati, controllati e indirizzati. Questo è il paradigma del governo neoliberale, un paradigma securitario che non agisce tramite la prevenzione dei problemi ma con l’abilità di governarli, dirigerli nella giusta direzione una volta avvenuti.
Le misure adottate dal governo per la protezione di tutti i cittadini dagli innumerevoli pericoli che incombono, non servono ad altro in realtà che a infondere un certo stato di terrore e paralisi diffusa, una condizione di destabilizzazione interiore deprimente che consente di fare di tutti esattamente ciò che si vuole.
La vera questione sta nel fatto che questi tragici eventi ci fanno comprendere fino in fondo la nostra inadeguatezza e la nostra impotenza. Qual’ è la nostra verità etica? Quale vita possiamo opporre a quella che ci fanno vivere? Quali comportamenti antieconomici, antispettacolari e antinichilisti possiamo pensare e praticare? Delle forme di vita orribili e tristi come quelle del Califfato o dell’Occidente, se non quella fascista in ultima istanza, saranno sempre preferite se noi non riusciamo ad immaginare ed opporgli una forma-di-vita che sia realmente desiderabile.