Spartaco A. Puttini | Lo spettro del populismo tra le rovine della democrazia
Uno spettro si aggira per l’Europa (e non solo): è lo spettro del populismo. Tutti i potenti d’Europa si alleano per dare spietatamente caccia a questo spettro. Qual è il partito di opposizione che i suoi avversari al potere non abbiano colpito con la nota ingiuriosa di “populista”? E qual è il partito di opposizione che a sua volta non abbia ricambiata l’accusa, respingendo l’infamante designazione di populismo, o sugli elementi più avanzati dell’opposizione stessa, o sugli avversari apertamente reazionari?
Il Manifesto del 1848 di Marx non iniziava proprio così, ma iniziava in modo molto simile.
Il termine di populismo è tornato prepotentemente di moda ed è divenuto un elemento consueto del dibattito politico. Tuttavia l’accusa di essere populista viene impugnata quasi unicamente per intento polemico e denigratorio, come improprio sinonimo di demagogia. A ben guardare sotto questa etichetta vengono accomunati i movimenti più disparati per collocazione spazio-temporale e per colore politico.
Si dice populismo e si fa riferimento a tutto e al suo contrario nello stesso tempo, o quasi. All’ombra del populismo vengono catalogati fenomeni ed esponenti politici diversi per provenienza, cultura politica, propositi. La cannibalizzazione di un fenomeno così complesso in un dibattito semplificatorio ha provocato senza dubbio confusione. Tanto che qualcuno, non distinguendo chi fosse populista o chi non lo fosse (a destra come a sinistra, all’opposizione come al governo) si è chiesto se la definizione avesse ancora senso.
La definizione di “populismo” non è scontata nemmeno a livello accademico e la letteratura sul fenomeno è oramai sterminata [1]. In essa stanno fianco a fianco saggi di approfondimento su fenomeni storici ormai remoti (Herzen e il populismo russo; il populismo nordamericano che per una stagione ha sfidato i grandi partiti egemonici nella politica statunitense; i variegati fenomeni latinoamericani: peronismo, getulismo etc.; le esperienze del Terzo mondo sul versante progressista e quelle dell’Occidente sul versante reazionario); opere di inquadramento teorico del problema; studi di caso che cercano di individuare a partire dal basso il bandolo di un’intricata matassa.
Nella maggior parte dei casi le definizioni finiscono per dover ammettere un numero talmente rilevante di eccezioni alla propria griglia di classificazione da venire messe duramente alla prova. Chi vede nel populismo un fenomeno legato alla comparsa di un determinato gruppo sociale (la piccola proprietà contadina ad es.) deve prendere in considerazione la presenza dello stesso fenomeno in contesti di urbanizzazione e industrializzazione intensiva. Chi ne vede un prodromo dei regimi autoritari deve confrontarsi con la realtà di teorie tradizionaliste ed elitiste che ispirano regimi autoritari che si basano non solo sull’oppressione delle classi popolari, ma sulla loro vera e propria passivizzazione e deve prendersi carico di spiegare il comparire e il permanere di fenomeni e movimenti populisti in un contesto democratico e pluralista, quando non un loro ruolo significativo negli stessi processi di democratizzazione di processi e istituzioni politiche. Chi li vede come movimenti di opposizione all’establishment non può ignorarne il ruolo che in alcuni casi possono giocare nell’istituire nuove articolazioni di potere, né il fatto che sempre più spesso siano gli stessi leader di forze politiche tradizionali a scimmiottare strategie del consenso e retoriche populiste. Ci sono studiosi che riducono il fenomeno a uno stile, a un’inclinazione discorsiva che semplifica la complessità del dibattito politico per parlare alla pancia dell’elettorato. Anche se è la stessa dicotomia tra pancia e testa, tra istinto e ragione che forse andrebbe chiamata in causa. Quando gli operai del Novecento, a partire dai propri bisogni, maturavano una coscienza di classe stavano orientandosi con la pancia o con il cervello? Chi guarda ai movimenti populisti come a fenomeni esclusivi di una realtà geografica li vedrà comparire all’altro capo del mondo. Chi vede nel populismo il rigurgito di un mondo arcaico, premoderno e antilluminista deve fare i conti con il fatto che anche il populismo, come la democrazia, affonda le sue radici nella convinzione che la sovranità appartiene al popolo. C’è qualcosa di più moderno? Oppure con il fatto che sembra godere di ottima salute non solo nelle periferie (latine e non) dell’Occidente ma anche nella culla del pensiero razionalista e illuminista. Come per ogni fenomeno politico, tanto più in questo caso, è necessario analizzare contestualizzando e storicizzando. Tuttavia il termine ha una sua indubbia fortuna e persistenza. Indica movimenti che si rifanno al popolo come unico depositario della sovranità da cui è stato espropriato e che deve essere riscattato da un presente di tradimento e oppressione. Il fatto che sotto il mantello del “popolo” e dietro il telo dell’”oppressione” sia possibile giocare con un’ampia gamma di valori e suggestioni spiega come mai lo spettro dei fenomeni populisti sia ampio, diversificato e confondente. L’idea di popolo (come l’idea di nazione del resto) può avere diverse connotazioni. Il popolo dei populisti non è sempre lo stesso. Né sono gli stessi i suoi nemici. Per tutti i populisti il popolo è la fonte di autorità che si trova tartassata ed espropriata, “il sovrano prigioniero” di una democrazia rappresentativa che non lo rappresenta, inserito ed asservito ad un sistema che ne deturpa i valori e lo porta fuori strada. Detto questo ci si trova ad avere a che fare con fenomeni completamenti diversi se il popolo in questione viene immaginato sulla base di una presunta omogeneità etnica finendo con l’escludere su questa base oppure se viene immaginato come l’insieme delle classi diseredate della società. Il populismo è forse “una cosmologia, una visione del mondo per lo più implicita ma dalla straordinaria forza evocativa, dalle radici antiche e che trova la sua espressione più coerente nell’epoca della società di massa e della democrazia […] Il populismo, infatti, è un immaginario che con diverse forme e intensità suole permeare molteplici attori di una determinata società in particolari scorci storici” [2].
Pur senza essere un’ideologia strutturata il populismo ha un suo baricentro attorno al quale ruotano galassie di movimenti e istanze diverse, di segno anche opposto. Fortunatamente, almeno a livello scientifico, sembra finita l’era in cui l’etichetta populista veniva utilizzata per connotare unicamente il maquillage di gruppuscoli della destra radicale. C’è stato ad esempio chi, senza trasvolare l’Atlantico, ha sottolineato come la “rappresentazione idealizzata di un popolo sfruttato ma unito, laborioso, e collettivamente produttivo, profondamente giusto e buono, virtuoso e invincibile” abbia rappresentato un elemento ricorrente nella sinistra francese [3]. Certamente il popolo dei populisti è sempre raffigurato come un blocco compatto, senza incrinature. Ma anche questo non dovrebbe impressionare più di tanto: quando si cerca di costruire un fronte politico è inevitabile che gli elementi di differenza all’interno del blocco che si cerca di costruire vengano tenuti sotto traccia rispetto alla contraddizione che oppone al blocco antagonista, che viene invece drammatizzata. Anche la riduzione del fenomeno all’apoteosi del legame tra il leader e le masse, per quanto rappresenti spesso un elemento ricorrente, se non il vero e proprio momento di sublimazione della raffigurazione della volontà unitaria del popolo, non andrebbe forse inseguita con eccessivo entusiasmo come pista classificatrice. Nel corso delle democrazie moderne vi sono state spesso leadership forti che non hanno tracimato dal sentiero democratico costituzionale: Roosevelt, De Gaulle, per non fare che alcuni esempi. Ai giorni nostri, senza voler fare accostamenti stridenti o irrispettosi, il processo di affermazione e costruzione mediatica delle leadership non è certo prerogativa esclusiva dei populisti, veri o presunti che siano. Anzi, il processo di personalizzazione della politica o i rigurgiti di bonapartismo postmoderno [4] non sono altro che la manifestazione più eclatante della fine del sistema della democrazia moderna basata sull’intermediazione dei partiti di massa e sul confronto tra valori-programmi per la gestione degli affari della comunità.
Il momento populista
I fenomeni populisti hanno un loro momento di fortuna: il momento in cui sono più stridenti le promesse non mantenute della democrazia, in cui per un complesso di questioni sociali, economiche e politiche gli equilibri consueti di una comunità vengono scossi fino alle fondamenta. Allora diviene sempre più senso comune la percezione della distanza che passa tra i valori e le garanzie che una comunità dovrebbe garantire e quello che il patto sociale non riesce più a mantenere. In questo iato si materializza insoddisfazione e estraneità. Il popolo sovrano appare così come il sovrano prigioniero. Il paradosso della democrazia moderna, per cui la sovranità risiede nel popolo ma il popolo può esercitarla solo tramite l’intermediazione della rappresentanza diviene stridente nel momento in cui i processi consueti della rappresentanza entrano in crisi e i soggetti che dovrebbero veicolare le istanze dal basso verso le istituzioni perdono il loro smalto e la loro legittimità. E’ allora che i movimenti populisti hanno il loro momento di fortuna, come ha sottolineato nei suoi studi Ernesto Laclau. Quello che stiamo vivendo, con tutta evidenza, è uno di quei momenti.
Le righe che seguono non vogliono avere la pretesa di illustrare un fenomeno su cui ben altri hanno indagato nel corso di un numero rilevante di anni e di studi. Vuole essere più semplicemente un sasso nello stagno volto a contestualizzare il fenomeno e a porlo all’attenzione della sinistra di classe sottraendolo ai pregiudizi e alle incomprensioni che spesso lo circondano. Essendo una realtà la sinistra di classe deve poterlo leggere, analizzare e discutere a modo suo, con i suoi occhi, non con quelli necessariamente diversi di altri punti di osservazione.
I populisti sono spesso dipinti come il pericolo delle democrazie, anche se nel loro riferimento alla volontà popolare si cela una parentela prossima con la democrazia, alle cui forme storiche concrete viene “semplicemente” imputato di non mantenere le promesse che ha fatto. Più opportuno sarebbe dire che sono antitetici alla visione liberale della democrazia. Allora è più che opportuno chiedersi, quale sia questa visione e soprattutto in fatto di democrazia a che punto siamo. La visione liberale della democrazia è una visione riduttiva e per tutto il corso dell’Ottocento e del Novecento liberalismo e democrazia si sono scontrati duramente [5] prima di trovare una fragile sintesi sotto la pressione delle masse lavoratrici risvegliate dal socialismo. Inutile sottolineare che la sintesi è durata quanto è durata la sfida del socialismo. Tramontato il sole dell’avvenire, a farla da padrona ovunque in Occidente è stata una reazione liberale che ha scardinato, dall’economia al welfare, alla politica i puntelli avanzati conquistati dalle classi popolari nel corso di una durissima lotta per l’affermazione dei propri diritti. E’ al solo scopo di incardinare i nuovi rapporti di forza favorevoli al capitalismo globalizzato che sono state attuate tutte le controriforme degli ultimi 30 anni. Veri e propri passi indietro camuffati da novità e da scelte tecniche e sapienti al solo scopo di darsi quella patente di oggettività buona solo a costruire un consenso per far accettare la sconfitta e la reazione. Il ruolo subalterno avuto in questo dalle forze di riferimento tradizionali del movimento operaio spiega in gran parte la crisi di legittimità attraversata dagli strumenti tradizionali dell’articolazione democratica e il vuoto dal quale sono sorte e possono sorgere le sfide populiste. Sfide che irrompono dunque su un terreno dal quale la democrazia moderna è già stata espulsa di fatto e costretta in un angolo dalla reazione liberale. E’ contro tale stato di cose (e grazie a tale stato di cose) che avanza il populismo, certo non sempre con l’intenzione di costruire una nuova dialettica più democratica o con la volontà di riscattare una classe operaia che andrebbe comunque ridefinita.
Non può pertanto stupire il sorgere, in questo contesto, di appelli sempre più frequenti, provenienti da realtà e personalità diverse per vissuto e percorso, a valutare l’ipotesi di un populismo democratico e progressista, per non lasciare ancora orfane le classi popolari di una proposta politica che intercetti i loro bisogni, per non lasciare ulteriore terreno alla demagogia di forze reazionarie di destra. Se in America Latina per le forze progressiste la declinazione a sinistra del populismo sfonda una porta aperta (da una costola del movimento peronista a Hugo Chavez) e se in Europa la questione inizia ad essere posta (in Spagna da Podemos e in Francia da Mélanchon), l’Italia resta un passo indietro. In questa arretratezza fa presa (fino a un certo punto) il Movimento 5 Stelle, con tutte le sue irrisolte ambiguità. Le due proposte che al momento paiono più strutturate per interrogare su questo terreno quella che un tempo veniva definita la “sinistra” (prima che questo termine indicasse un lato del bipolarismo del sistema liberale della Seconda repubblica, i D’Alema, i Renzi, etc…) sono il saggio di Carlo Fomenti, La variante populista e il manifesto per un populismo democratico Senso comune. Due proposte in sintonia con la necessità di superare i pregiudizi su euroscetticismo e questione nazionale.
Rileggere Laclau
Ernesto Laclau è senza dubbio colui i cui studi hanno influenzato maggiormente la proposta di una strategia populista per il rilancio di una politica progressista e antagonistica. Militante della sinistra peronista (un’esperienza cardinale che spiega parecchio della sua elaborazione), Laclau vede nel populismo un momento che partendo da un contesto di crisi cerca di articolare in un fronte popolare le diverse domande sociali provenienti dal basso che non trovano ascolto e non vengono recepite dalla dimensione politica ufficiale. Il populismo di Laclau è la strategia di costruzione di un immaginario comune tra le domande irrisolte che sappia articolare il confronto politico polarizzando in due campi la società. Sulla base di una narrazione (vero e proprio surrogato dell’ideologia) che stabilisce delle relazioni di equivalenza all’interno del campo popolare la strategia populista viene intesa come strategia egemonica per la costruzione di un blocco che sappia connettere le domande popolari eterogenee per metterle in marcia sulla base di un’identità comune. Dall’altra parte la stessa narrazione esalta le differenze con i soggetti (oligarchici) contro cui dirige la sua sfida. Il discorso populista di Laclau è un progetto egemonico esplicitammente debitore del pensiero di Antonio Gramsci [6]. Il populismo per Laclau è “una dimensione costante dell’azione politica”, è il confronto tra due chiavi di lettura della società, tra tentativi egemonici attuati da soggetti antagonisti tra loro. Per chi scrive, il tentativo di egemonia descritto da Laclau si articola in almeno due sensi, o a due livelli. Un primo livello, nel quale si tenta di riunire attorno a una narrazione un blocco sociale (il popolo inteso come plebe, proletariato in senso lato, se si vuole) che riesce ad esercitare la propria egemonia su tutte le domande sociali che possono entrare nella propria orbita equivalenziale e che, a partire da qui, si candida a scardinare i vecchi equilibri favorevoli ai poteri forti (definite oligarchie) per guidare l’intera comunità (secondo livello di egemonia). Il popolo del populismo è una sineddoche, è sempre una parte della comunità che si candida ad essere tutto. Molti noteranno che in questa elaborazione vi è lo studio di fenomeni storici e politici famigliari. Quando all’alba della rivoluzione francese Sieyès scrive Che cos’è il Terzo Stato? per sostenere le ambizioni della borghesia e delle masse diseredate da lei egemonizzate non fa altro che sottolineare che il Terzo stato era tutto (cioè tutta la nazione). Con tale mossa legittimava le richieste della borghesia e delegittimava l’Ancien Régime degli ordini privilegiati. Quando all’interno della socialdemocrazia si pone la questione del rapporto tra movimento operaio e masse contadine, specie in paesi a non diffusa industrializzazione, le risposte di Lenin e più tardi dei comunisti sono già indirizzate nel senso di tentare la costruzione di una strategia egemonica che riunisca in un solo fronte le classi popolari e lavoratrici. Spesso il movimento comunista ha adottato in passato la definizione di fronte popolare, blocco del popolo, fronte nazionale. Così come ha svolto nel corso del Novecento (cosa piuttosto evidente se si guarda al caso italiano e francese) il ruolo di metabolizzare, catalizzare ed anche sollecitare domande provenienti dalla società che oggi definiremmo come populiste. Persino nello stile comunicativo: chi non ricorda la campagna contro il regime centrista “dei forchettoni” che si mangiavano il paese? C’è poco da stupirsi in realtà, del resto il grande successo attraversato oggi dai populismi di ogni colore si deve proprio al rinsecchirsi dell’immaginario progressista cui si è assistito negli ultimi tre decenni, forse più. Le socialdemocrazie si sono convertite al liberismo e i movimenti comunisti nella gran parte dei casi (almeno in Europa occidentale) non hanno nemmeno tentato di ammodernare il loro patrimonio di interpretazione della realtà alla nuova fase ma si sono frettolosamente abbandonati a facili conversioni o in senso riformista (seguendo e anticipando persino l’involuzione a destra della socialdemocrazia) o in senso massimalista. La sinistra radicale nostrana ha discusso spesso di abbandonare i vecchi simboli e sputare sulla sua storia per abbracciare un confuso eclettismo incapace di cogliere le contraddizioni principali della realtà oppure ha ostentato la necessità di omaggiare il proprio passato e le proprie bandiere, ma senza mettere davvero alla prova il proprio patrimonio interpretativo e venendo spesso a patti col diavolo in materia di principi e compromessi.
L’originalità e l’interesse di Laclau consiste principalmente nel partire dal presupposto che non vi sono identità date a priori dalla realtà, dai rapporti materiali di produzione. A questa considerazione, discutibile in linea teorica, il pensatore argentino arriva tramite una parabola che attraversa il post-marxismo e il postmodernismo. Tuttavia la questione ci pare pertinente perché, al di là del fatto che la realtà materiale dei rapporti di produzione e di sfruttamento delimita i profili delle classi, la costruzione di identità collettive poggia necessariamente sulla coscienza di questa realtà, di questi rapporti, su quella che veniva chiamata “coscienza di classe”, appunto.
In un contesto profondamente mutato, dove sono cambiati sia gli attori, che i rapporti di forza ma anche lo scenario e dove si affacciano generazioni che non hanno che una vaghissima idea del passato recente e delle sue tenzoni è evidente che si è persa la trasmissione di un patrimonio costruito faticosamente nel corso degli ultimi due secoli. Il punto concreto in cui ci si trova disegna di fatto un campo di battaglia nel quale non è scontato che la società e le sue fratture si possano leggere secondo le chiavi interpretative classiche, semplicemente perché i soggetti sociali che agiscono sulla scena si percepiscono in modo diverso, quando si percepiscono. Ecco allora che ogni identità e blocco di identità (catene di equivalenze) si basano sull’individuazione di possibili alleanze e contrapposizioni, per cui la battaglia politica tra progetti diversi è sempre uno scontro tra tentativi egemonici contrapposti, per imporre chiavi di lettura, senso comune, e dettare di conseguenza l’agenda politica per portare avanti le proprie istanze. Qui risiede l’aspetto interessante dell’elaborazione di Laclau. Facciamo qui allusione all’opera più matura del suo pensiero, La ragione populista permettendoci di ignorare arbitrariamente le precedenti fasi della sua parabola interpretativa. Perché ciò che interessa, come nei buffet, è prendere ciò che può essere utile alla sinistra di classe.
L’aspetto interessante di questa particolare e problematica [7] lettura del populismo risiede anche nella sua contrapposizione alle teorie della moltitudine, che nella sinistra radicale italiana hanno esercitato una certa influenza. Influenza nefasta, ci permettiamo di aggiungere. La ragione populista coglie infatti la necessità che le diverse domande che sorgono dal corpo della società e che non possono essere metabolizzate dal sistema di potere oligarchico-liberale necessitano non solo di articolarsi tra loro in un fronte comune ma anche e soprattutto di cristallizzarsi sulla base di una comune identità, costruita su una narrazione condivisa. Nel corso del Novecento “classe operaia” era divenuto un termine che indicava al tempo stesso una porzione specifica della società e tutto il campo su cui questa porzione, con la sua lettura della lotta di classe, esercitava una egemonia. In questo risiedeva la sua forza. La moltitudine è solo innocua e rumorosa debolezza. Funzionale come tale alla riproduzione del sistema di potere e alla minorità delle sfide antagoniste. Sono i discorsi sulla moltitudine e su presunti imperi i veri figli del postmodernismo, le presenze ancillari del pensiero unico neoliberista.
Il filo rosso
Il filo rosso della coscienza di classe costruito pazientemente dal movimento anarchico e dal movimento socialista, che era riuscito ad attraversare persino il ventennio fascista come un fiume carsico, pare ormai spezzato. Non è riconosciuto né dalle nuove generazioni e dalle nuove professioni, né dai settori tradizionali del movimento operaio. Per favorire l’affermarsi di un progetto di riscatto del popolo occorre riuscire ad intercettarne i bisogni, a costruire una proposta politica e un fronte politico a partire da lì. Occorre una proposta politica dotata di fiato lungo, di una strategia egemonica che parli di popolo, tra le macerie della democrazia, per evitare che il vuoto venga riempito da spettri poco rassicuranti. Perché il terreno della contesa, il campo su cui si confrontano i diversi progetti di costruzione dell’immaginario popolare non può restare vuoto. In politica il vuoto non esiste.
Il cuore del ragionamento di Lalclau si presta come un ponte per consentire di ricalibrare le strategie e le modalità che sono state proprie della cultura politica della tradizione migliore del movimento operaio in un contesto fluido e mutato. Paradossalmente, contrariamente a quanto riteneva lo stesso Laclau, sono probabilmente coloro che si rifanno all’ortodossia quelli che potrebbero avere maggiori chance di dare un contributo per recuperare il senso delle masse. Forse.
Forse è venuto il momento di dire che occorre abbandonare un linguaggio che non parla più proprio a quel popolo che si cerca di rappresentare. Ma che non si può cedere un centimetro in fatto di principi, perché non c’è più spazio per arretrare ancora e perché vi è la necessità di rilanciare un progetto, di ridare una speranza. In questo contesto si possono anche chiamare con nuovi nomi, più comprensibili ai più, le forme contemporanee assunte da vecchi fenomeni e nuovi soggetti. Parlare di popolo, avendo e trasmettendo una certa idea di popolo (la classe e i gruppi sociali del suo blocco), avendo e trasmettendo una certa idea di nazione e di comunità sarebbe già un inizio per contendere il campo alla reazione, che riesce a camuffarsi benissimo senza toccare il sancta sanctorum del liberismo. Dietro i termini rassicuranti di identità, nazione, comunità possono avanzare diversi e opposti messaggi. Spetta alla sinistra di classe inseguire queste opzioni. Opzioni che consentono di parlare potenzialmente a un pubblico più vasto e trasversale rispetto alle tradizionali appartenenze sulla base della capacità di intercettarne i bisogni. Un modo per andare quindi ben oltre i consueti steccati di riferimento, sempre più costretti alle dimensioni di riserve indiane. Perché un conto è dire “noi siamo la sinistra”, termine ormai screditato e un conto è dire “noi siamo il popolo”, sfruttando tutta la rassicurante capacità di penetrazione trasversale del termine.
Per affrontare la sfida populista non serve però solo lucidità e tanta azione, ma serve prima ancora la comprensione di come si articola oggi la società, leggere la configurazione del mondo del lavoro, definito da una molteplicità di figure e da un’articolazione complessa di soggetti. E occorre la volontà di ingaggiare la battaglia per la sovranità nazionale e popolare, che è oggi quella centrale insieme alla questione capitale-lavoro. Il populismo è la sfida su cui misurare la propria capacità di avere ancora qualcosa da dire, per la sinistra di classe.
In Italia, lo sappiamo, c’è un vuoto di proposta politica. Soprattutto per le classi popolari e per i giovani, che si rifugiano sempre più nell’astensione. La finalità del presente testo è quella di sottolineare come, a parere di chi scrive, non saranno le sommatorie di sigle politiche decotte a rimettere in circuito una proposta politica alternativa all’altezza della sfida. Ma suggerire che potrebbe essere interessante metabolizzare all’interno del proprio patrimonio il nucleo centrale di una strategia populista per accettare la sfida della contemporaneità. Come ha scritto qualcuno che se ne intende: “per ora non si scorgono [alfieri credibili di un populismo di sinistra] ma la politica, si sa, non sopporta vuoti. E le sorprese sono sempre in agguato” [8].
Note
[1] Tra le opere considerate generalmente di riferimento per lo studio del tema ricordiamo: M. Canovan, Populism; London, Junction Book 1981; G. Germani, Torcuato S. Di Tella, Octavio Ianni, Populismo y contradicciones de clase en Latinoamérica; México, Era 1973; Y. Mény, Y. Surel, Populismo e democrazia; Bologna, Il Mulino 2001; P. A. Taggart, Il populismo; Troina, Città aperta 2002; F. Chiapponi, Il populismo nella prospettiva della scienza politica; Genova, Erga 2014; S. Gentile, Populismi contemporanei. XIX-XXI secolo; Milano, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli 2015; AA.VV. (a cura di M. Baldassari e D. Melegari), Populismo e democrazia radicale; Verona, Ombre corte 2012.
[2] L. Zanatta, Il populismo; Roma, Carocci 2013, pp. 9-10
[3] M. Lazar, Populisme et communisme: le cas français; in: P.-A. Taguieff, Le retour du populisme. Un défi pour les démocratie européennes; Paris, Universalis 2004.
[4] Su questo aspetto si veda: S. Azzarà, Democrazia cercasi. Dalla caduta del Muro a Renzi: sconfitta e mutazione della sinistra, bonapartismo postmoderno e impotenza della filosofia in Italia; Reggio Emilia, Imprimatur 2015.
[5] Si veda in proposito la lezione di R. Rémond, Introduzione alla storia contemporanea. Il XIX secolo (1815-1914); Milano, Rizzoli 1997.
[6] E. Laclau, La ragione populista; Roma Bari, Laterza, 2008.
[7] Sulle criticità di alcuni passaggi della ragione populista si veda B. Arditi, Il populismo come egemonia e come politica? La teoria del populismo di Ernesto Laclau; in: “Il Ponte”, nn. 8-9, 2016.
[8] M. Tarchi, L’Italia, terra promessa del populismo?; in: “Il Ponte”, nn. 8-9, 2016.
* L’articolo è apparso in “Gramsci oggi” rivista on line, dicembre 2016