Antiper | I movimenti delle donne nel mondo contemporaneo. Dalla rivoluzione sessuale alla deriva post-moderna del femminismo
Quelli che seguono sono gli appunti per la relazione introduttiva su cui è stato realizzato il terzo incontro di approfondimento storico-politico (IASP) del Ciclo di incontri sui movimenti delle donne di domenica 13 novembre dal titolo I movimenti delle donne nel mondo contemporaneo. Dalla rivoluzione sessuale alla deriva post-moderna del femminismo introdotto da Giulia | A4 | PDF | 17 pagine.
Il primo incontro si intitolava Le donne tra due rivoluzioni. Dalla Rivoluzione francese alla rivoluzione d’Ottobre. Siamo partiti dalla Rivoluzione francese perché prima di essa le donne erano apparse sempre e solo protagoniste passive degli eventi
“[…] la storia è stata solo storia al maschile e per lunghi secoli le donne non sono state raccontate; per meglio dire, non hanno potuto raccontarsi” [1]
Per la prima volta la Rivoluzione francese porta le donne alla ribalta sociale anche se le contraddizioni restano profondissime
“Nella Francia rivoluzionaria infatti andavano via via instaurandosi dei veri e propri Club femministi con posizioni anche molto differenti tra di loro […] L’impegno delle donne fu comunque vano in quanto esse non ottennero nessuno dei diritti rivendicati e fu persino negato loro il diritto di associazione: tutti i Club femminili furono sciolti.
La cosa che colpisce è che questa chiusura avviene proprio all’epoca della Convenzione guidata dai Giacobini, il che mostra la permanenza di grandi limiti sul tema delle donne anche nella borghesia rivoluzionaria” [2]
Con la Rivoluzione industriale di fine ‘700 – inizio ‘800 e la conseguente massiccia introduzione di macchine, donne e fanciulli cominciano a seguire gli uomini nelle fabbriche
“Questo potente surrogato del lavoro e degli operai si è così trasformato subito in un mezzo per aumentare il numero degli operai salariati irreggimentando sotto l’imperio immediato del capitale tutti i membri della famiglia operaia, senza differenza di sesso e di età” [3]
Non è dunque a caso che proprio con la Rivoluzione industriale nasca un femminismo socialista in contrapposizione al femminismo liberalex
“Il primo ha come obbiettivo la liberazione della donna attraverso la trasformazione della società mentre il secondo, in sostanza, chiede eguali diritti per uomini e donne ma nel quadro del mantenimento della società esistente” [4]
Anche nella Comune di Parigi (1871) le donne svolgono un ruolo fondamentale
“Le rivendicazioni di questo primo femminismo socialista (voto, divorzio, rivendicazioni salariali e sociali…) trovano collocazione nel 1871, con il programma della Comune di Parigi” [5]
“Le comunarde furono molto impegnate nelle lotte per le conquiste sociali e per l’emancipazione femminile. Esse rivendicavano la piena uguaglianza dei sessi:
«Qualsiasi diseguaglianza e qualsiasi antagonismo tra i sessi costituisce una delle basi del potere delle classi dominanti […] Uguaglianza dei salari, diritto al divorzio per le donne, diritto all’istruzione laica ed alla formazione professionale per le ragazze».
Molte di loro furono arrestate, processate e detenute nelle prigioni francesi” [6]
Nel 1872, sull’altra riva della Manica, nasce il movimento delle suffragette che rivendica il diritto di voto per le donne, riuscendo ad ottenerlo nel 1918 (per inciso, un anno dopo della Russia rivoluzionaria e certamente sotto la straordinaria spinta di tale evento). Con la Rivoluzione d’Ottobre del 1917 è infatti avvenuto un cambiamento radicale all’interno della società russa ed europea, un cambiamento che si estende anche al ruolo e alla condizione delle donne
“Dopo la Rivoluzione di Ottobre – avvenuta nel 1917 – le donne russe ottennero conquiste che le donne del resto del mondo avrebbero ottenuto solo molti anni dopo: per fare alcuni esempi, la prima donna ministra al mondo è stata Aleksandra Kollontaj all’indomani della rivoluzione, mentre in Italia le donne hanno ottenuto il diritto di voto solo nel 1947, dopo la Resistenza; in Russia le donne ottennero il divorzio nel 1917 e l’aborto nel 1920; in Italia dovremo attendere gli anni ’70-’80” [7]
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Il secondo incontro si intitolava Le donne tra due guerre. Dalla prima alla seconda guerra mondiale. Le donne sotto il fascismo e nella Resistenza.
Con la Grande Guerra le donne acquisiscono un ruolo crescente sul piano sociale e lavorativo soprattutto perché devono sostituire gli uomini inviati al fronte e così sopperire alla mancanza di manodopera. Ma anche se sono le donne a portare a casa la “pagnotta” il modello famigliare resta di stampo patriarcale
“Con la fine della guerra gli uomini rientrano e le donne perdono gradualmente il lavoro (comprese le vedove di guerra). Il fascismo svilupperà addirittura una campagna per il “ritorno a casa” delle donne basata su quelle che vengono indicate come loro “inclinazioni naturali”” [8]
Se la guerra aveva portato le donne fuori di casa, con la pace e il fascismo le donne vengono di nuovo segregate e ricollocate nel ruolo di madri, mogli, figlie, sorelle di qualcuno.
“Se da un lato il fascismo vuole costringere le donne ad occuparsi solo della famiglia, dall’altro lato lo Stato ha la necessità di coinvolgere (o per meglio dire utilizzare) le donne anche nella sfera pubblica. Nascono così le associazioni femminili fasciste (i Fasci femminili, le Massaie rurali, le Giovani fasciste…) che sembrano testimoniare un certo grado di coinvolgimento nella vita pubblica e politica, ma di fatto sono usate per educare altre donne ad una vita vincolata al ruolo di madre e moglie. Alle donne è chiesto, ad esempio, “di partire per le colonie in Africa con lo scopo di popolarle di bambini italiani”. Non solo, dunque, il regime illude le donne facendo credere loro di partecipare attivamente alla vita e allo sviluppo del Paese, ma cerca addirittura di usare il loro corpo per portare avanti il piano coloniale e imperiale del fascismo.” [9]
In epoca fascista le donne che lavorano (e non sono molte) hanno comunque uno stipendio pari alla metà di quello degli uomini.
Le donne hanno un ruolo fondamentale nelle lotte contro il regime.
“Molto importante fu anche l’impegno delle donne nelle attività di propaganda politica e di controinformazione condotta attraverso i giornali femminili. Fu importante, ad esempio, il contributo di Teresa Noce e Xenia Silberberg (quest’ultima di origine russa) che nel 1937 fondano la pubblicazione – inizialmente clandestina – Noi donne” [10]
Molte donne combattono nella Resistenza assieme agli uomini, con la consapevolezza che la propria liberazione in quanto donne può realizzarsi solo nel quadro di una liberazione sociale e politica più ampia. Ed infatti, solo con la caduta del fascismo e con la nuova Costituzione, le donne italiane ottengono alcuni diritti, a partire dal suffragio.
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Capita spesso che il ‘68 venga indicato come l’inizio del movimento femminista contemporaneo, talvolta anche definito neo-femminismo. Ad esempio, la storica Anna Rossi-Doria periodizza il femminismo italiano degli anni ‘70 in 4 fasi: la nascita dei primi gruppi (1968-1972), la formazione dei collettivi (1972-1974), il movimento di massa (1975-1976) e infine la crisi (1977-1979).
Ovviamente è impossibile “datare” in modo preciso movimenti che spesso emergono alla superficie solo dopo aver scavato per lungo tempo. Ma se vogliamo scegliere un punto di avvio del nostro pur breve percorso nella storia dei movimenti delle donne dell’epoca contemporanea possiamo optare per il periodo che si colloca a cavallo tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70 e con quella che comunemente è stata chiamata la Rivoluzione sessuale. Si tratta, è bene precisarlo subito, di una rivoluzione in senso borghese che produce sì una certa discontinuità con la fase precedente, nella quale le donne vivono la condizione di una diffusa repressione e auto-repressione della propria sessualità, ma pur sempre dentro una continuità che non mette mai davvero in discussione la condizione sociale delle donne e la struttura generale della società.
Uno degli elementi che ha reso la “rivoluzione sessuale” un passaggio così significativo del secolo scorso è stato probabilmente anche il fatto di aver concorso a sancire la fine di una lunga fase in cui il disagio psichico femminile era stato o negato o ricondotto alla sola sfera della sessualità (e in particolare ad una sessualità insoddisfacente): era la fase dell’isteria, la “patologia omnibus” che aveva dominato la scena per quasi due millenni e che avrebbe fatto la sua scomparsa ufficiale solo con il Manuale dei disturbi psichici del 1980 (DSM-III).
La sessualità della donna è da sempre oggetto di “attenzione” politica, sociale, culturale, lo sappiamo. L’isteria è infatti documentata sin dall’antichità e già la medicina egiziana la interpreta come
“…derivata da problematiche d’organo, in questo caso l’utero, concepito, alla stregua di altri organi, quasi come animato e dotato di propria volontà. Tale utero, se inquieto, tenderebbe a spostarsi e a vagare nel corpo, alla ricerca di quiete, abbandonando la propria sede naturale.” [11]
Il rimedio alla “mobilità dell’utero” consiste nel far odorare alla donna sostanze “bene” o “male” odoranti in modo da provocare il “ritorno in sede” (ovviamente, le sostanze ben odoranti servono per attirare l’utero, mentre le sostanze male odoranti servono per allontanarlo).
Anche l’idea di una forma di “follia femminile” legata alla mancanza di una normale vita sessuale è molto antica se è vero che è stata fatta propria anche da Platone, Aristotele e Ippocrate. Non appare dunque strano che Galeno, il famoso medico greco del II secolo d.C., raccomandasse la “titillatio clitoridis” per provocare l’orgasmo della donna e la conseguente espulsione degli umori deteriorati per colpa dell’accumulazione.
“La terapia era quindi la titillatio: la mano del novello Dioniso annullava il potere malefico insito negli umori ristagnanti nel clitoride. Non tutti i medici dell’antichità erano così tolleranti: Ippocrate, Sorano di Efeso e Aetio di Amida proponevano più brutalmente la clitoridectomia” [12]
Una pratica che veniva utilizzata ancora nel ‘700 [13]. In definitiva tutto questo ricondurre alla sfera sessuale il disagio psichico della donna conserva traccia, ancora oggi, nel senso comune, quando sentiamo frasi del tipo “quella donna è isterica: avrebbe bisogno di un po’ di cazzo”. Una frase prettamente maschile, ma usata spesso anche dalle donne.
Da un certo punto in poi, l’isteria viene considerata malattia sine materia, ovvero senza “causa materiale” (come poteva essere il presunto spostamento dell’utero) e si presenta con sintomi ricorrenti che, nei casi più gravi, possono addirittura assomigliare agli spasmi epilettici (si ricordino gli “arc de circle” di Charcot).
Nel Medioevo le donne identificate come “isteriche” non vengono più inviate dal medico per essere “titillate”, ma direttamente dall’esorcista e dall’inquisitore per essere torturate e purificate prima di “presentarsi a Dio”.
Michel Foucault, nel suo Storia della follia nell’età classica, ricorda che nel XVII secolo le donne isteriche e le donne povere vengono internate in asili (il più famoso sarà il Salpêtrière, che rinchiudeva fino a sei/sette mila persone). Foucault fa anche notare che la “pazzia femminile” viene sempre strettamente collegata con l’appartenenza di classe e che solo con la Rivoluzione francese povere e folli vengono “separate”. Non c’è bisogno di dire che sono le folli e le povere ad essere internate perché costituiscono gli elementi sociali più “impresentabili” dalla città.
“Il 27 aprile 1656, Luigi XVI fonda a Parigi l’Hôpital Général: si tratta di una riforma, di una riorganizzazione amministrativa che riunisce sotto un unico nucleo istituzioni già esistenti come la Salpetrière, Bicêtre e molti altri edifici destinati a scopi diversi.
Foucault dimostra come questo avvenimento non sia semplicemente un mutamento dell’organizzazione di queste strutture ma, più in profondità, un evento che raccoglie in sé la specificità dell’esperienza classica della follia: il grande internamento.
Infatti a questa riforma sottende una trasformazione fondamentale: il problema della follia si lega per sempre, attraverso l’esperienza della miseria, alla ragione e alla morale.
Nelle case di internamento – spesso gli antichi lebbrosari – che dappertutto in Europa cominciano ad essere istituite, vengono rinchiusi assieme condannati, giovani senza casa, poveri, ammalati ed insensati. Una massa, inizialmente indistinta, che viene percepita come una minaccia all’ordine sociale e che pertanto deve essere sottoposta ad un regime assistenziale e repressivo.
L’Hôpital Général non è un’istituzione medica ma, piuttosto, una struttura semi-giuridica che decide, giudica ed esegue; essa funge allo stesso tempo da luogo di assistenza e di repressione. In ragione di questa duplice funzione in queste istituzioni si mescolano, spesso in maniera conflittuale
“i vecchi privilegi della Chiesa in materia d’assistenza ai poveri e di riti dell’ospitalità, e la preoccupazione borghese di mettere ordine nel mondo della miseria; il desiderio di assistere e il bisogno di reprimere; il dovere di carità e la volontà di punire” [14]” [15]
“Sovranità quasi assoluta, giurisdizione senza appello, diritto esecutivo contro il quale niente può prevalere: l’Hôpital général è uno strano potere che il re crea tra la polizia e la giustizia, ai limiti della legge: il terzo stato della repressione. A questo mondo apparterranno gli alienati trovati da Pinel a Bicêtre e alla Salpêtrière&rdquo [16]
Ovviamente, le donne ricche non vengono internate. La loro isteria non crea repulsione, nonostante le drammatizzazioni, perché si svolge in salotti confortevoli (della paziente o del medico) e in una situazione ambientale positiva (comprensione, ascolto, attenzione…). E questo non è che un esempio di come una stessa “patologia” venga trattata in modo completamente diverso a seconda della classe sociale entro cui si manifesta.
Verso la seconda metà dell’800 si consolida un’evidenza: anche le prostitute soffrono di “isteria”. Questa constatazione fa saltare in aria tutte le teorie, sostenute in vario modo fin dall’antichità, che avevano fatto coincidere l’isteria con la semplice mancanza di rapporti sessuali. Di certo alle prostitute isteriche non manca la sessualità, sia pure mercenaria: a questo punto, si comincia a far strada l’idea che questa malattia non sia di ordine fisico-sessuale, ma psichico.
Con gli anni si verrà affermando una concezione dell’isteria come (anche) di un modo di comunicare qualcosa che la morale non ammette possa essere comunicato ovvero il desiderio femminile. Il desiderio femminile c’è, le donne lo sanno, ma non si può dire. Questa “indicibilità” riguarda soprattutto le donne borghesi o aristocratiche, mentre riguarda un po’ meno le donne proletarie che hanno un rapporto più naturale con la propria sessualità e con il proprio desiderio e che comunque non frequentano il salotto dello psicanalista (anche perché non posso certo permettersi le sue costose attenzioni).
In questa concezione l’isteria non è che la drammatizzazione della stasi, ovvero della paralisi psicologica che deriva dal conflitto tra due tendenze: desiderio sessuale (con la richiesta sentimentale che ovviamente non scompare) e repressione in conformità alle “norme morali” (il ruolo della donna è solo quello di procreatrice; la donna che gode è una poco di buono).
Alla fine l’isteria come tale scompare e si forma una famiglia di patologie più specifiche (disturbo borderline, narcisismo…) che adottano gruppi di sintomi che erano propri della patologia isterica e in cui la sessualità c’entra solo in modo relativo.
La Rivoluzione sessuale è importante perché scardina definitivamente il tabù del piacere sessuale femminile. Sia pure, in larga misura, ancora solo formalmente. Ed allo stesso tempo la contraddizione tra desiderio e repressione del desiderio viene letta più in generale come metafora della contraddizione tra ciò che le donne volevano essere e ciò che le donne erano tenute ad essere.
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La rivoluzione sessuale ed altri fattori (da esempio, una seconda fase di ingresso massiccio di donne nella produzione industriale e nel mondo del lavoro extra casalingo) fanno maturare una posizione neo-femminista che viene a collocarsi criticamente rispetto al femminismo storico che si era sviluppato tra la fine dell’800 e il secondo dopoguerra del ‘900 (diciamo, per semplificare, quel femminismo che si era diviso tra un approccio liberale e un approccio socialista). La nascita di questo “nuovo femminismo”, che varie studiose tendono a collocare negli Stati Uniti, soprattutto con il ‘68, costituisce nell’immediato anche una risposta al diffuso maschilismo del movimento studentesco, caratterizzato da forme di leaderismo maschile che vengono percepite da molte donne come autoritarie. Le donne decidono di allontanarsi e di fondare un proprio movimento.
Il neo-femminismo critica l’impostazione emancipazionista del femminismo storico che viene letta, sì, come “parità con l’uomo”, ma in una logica di assimilazione e di subalternità ai modelli maschili (“avere gli stessi diritti degli uomini”, “essere come gli uomini”). Il discorso neo-femminista intende invece stimolare la nascita di modelli culturali e politici specificamente femminili; per questa ragione diventerà inevitabile la nascita del “pensiero della differenza di genere” che viene teorizzato per la prima volta da una psicanalista “eretica”, Luce Irigaray.
Via via che le donne cominciano ad attivarsi sempre più diffusamente nell’ambito politico, via via che si legano a partiti e organizzazioni, che scendono in piazza come studentesse o come lavoratrici… emerge il problema del loro rapporto con gli attivisti maschi. Pur facendo parte di movimenti o partiti che si definiscono “di avanguardia”, vengono spesso impiegate in attività tecnico-burocratiche e collocate in ruoli subalterni. Questa situazione spinge molte donne ad assumere un atteggiamento “separatista”
“C’è stata una forte discussione, ed il dibattito è tutt’oggi aperto, sulla derivazione del neo-femminismo dal movimento degli studenti o sulla autonomia e discontinuità con questa esperienza.
Le due cose, in realtà, sono meno contrastanti di quanto non appaiano, proprio a causa della molecolarità del neo-femminismo italiano. Se da un lato è vero che i primi collettivi anticiparono le grandi mobilitazioni studentesche, è vero anche che il movimento studentesco per molte donne rappresentò l’inizio e il luogo privilegiato di una riflessione sui rapporti di potere tra i sessi che le avrebbe poi condotte al femminismo. Nella rivolta degli studenti esse ravvisarono, da un lato, la propria condizione di subalternità rispetto all’uomo e, dall’altro, la necessità di cambiare i rapporti fra i sessi. La presa di coscienza così definita si tradusse nella separazione dei collettivi femministi dal resto del movimento. Le donne espressero così l’esigenza di riunirsi tra di loro per sovvertire quello che agli inizi degli anni Settanta era il perno della struttura su cui poggiava l’intera società: visto che il valore di una donna si definiva in relazione ad un uomo, era necessario dare valore alla donna tra le donne” [17]
Inizialmente le donne si riuniscono in piccoli gruppi di auto-coscienza dove potersi confrontare liberamente sui diversi problemi, superando i propri tabù. I maschi, tranne per un brevissimo periodo iniziale, non sono ammessi. Successivamente i gruppi si diversificano: non si sviluppa alcuna direzione centrale e unitaria, ma piuttosto un movimento diffuso.
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Il modello della “differenza di genere” si afferma progressivamente perché rompe con la tradizione marxista (ed anzi strizza l’occhio alle filosofie di Nietzsche e Heidegger) e sembra presentarsi come più “pratico” in quanto richiama al “qui ed ora” delle rivendicazioni dichiarando il conflitto di classe una scusa degli uomini per ritardare la liberazione delle donne. È dunque inevitabile che con la sconfitta dei movimenti rivoluzionari e il riflusso degli anni ‘80 il modello “differenzialista” finisca per diventare, direttamente o indirettamente, il pensiero femminista egemone, molto aldilà della percezione stessa che ne hanno le attiviste femministe.
Ma il differenzialismo non sfonda solo nel movimento femminista; al contrario, dilaga in tutto il movimento la cui critica non è più caratterizzata da una visione anti-capitalista globale, ma da una progressiva frammentazionein tante dimensioni particolari, spesso contraddittorie le une con le altre: questione ecologica, questione di genere, questione sociale, questione morale, questione militare, questione razziale… non sono più terreni diversi di un’unica lotta, ma vere e proprie lotte diverse.
Per fare un esempio del posizionamento politico di una delle esponenti più influenti del neo-femminismo italiano basti pensare a Carla Lonzi che nel suo famoso testo Sputiamo su Hegel dichiara
“Le donne stesse accettano di considerarsi “seconde” se chi le convince sembra loro meritare la stima del genere umano: Marx, Lenin, Freud e tutti gli altri […] Sputiamo su Hegel l’ho scritto perché ero rimasta molto turbata constatando che quasi la totalità delle femministe italiane dava più credito alla lotta di classe che alla loro stessa oppressione […]” [18]
E’ del tutto evidente che, nonostante il titolo, Carla Lonzi è molto più interessata a sputare su Marx che non su Hegel e che il suo obbiettivo è quello di rovesciare il rapporto di priorità tra lotta di classe e lotta di genere: contro la lotta di classe, che era considerata prioritaria dai movimenti di ispirazione socialista e marxista, il neo-femminismo impugna la bandiera della lotta delle donne contro gli uomini.
“Il marxismo-leninismo ha bisogno di equiparare i due sessi, ma la regolazione di conti tra collettivi di uomini non può che produrre una elargizione paternalistica dei propri valori alla donna. E si chiede il suo aiuto più di quanto si è disposti ad aiutarla” [19]
Qui, addirittura, la lotta di classe è dichiarata una “regolazione di conti tra collettivi di uomini” e la liberazione della donna derivante dalla rivoluzione socialista una “elargizione paternalistica” di valori maschili. Si tratta di una posizione disastrosa che nuoce profondamente alla prospettiva della liberazione di classe e non ha favorito per nulla la prospettiva della liberazione di genere.
Per alimentare lo scontro con il maschio Carla Lonzi suggerisce una lettura truffaldina della stessa lotta di classe che sarebbe solo una sorta di “escamotage” maschile per rimandare sine die il confronto con i problemi di genere e con l’oppressione delle donne
“L’uomo ha sempre rimandato ogni soluzione a un futuro ideale dell’umanità, ma non esiste, possiamo però rivelare l’umanità presente, cioè noi stesse.” [20]
Ovviamente a questa “inversione” si può applicare l’identico schema logico applicato da Carla Lonzi. L’“hic et nunc femminista”, irrisolvibile in una società in cui i ruoli sociali tendono a riprodursi automaticamente, non è che un escamotage per rimandare sine die il confronto con i problemi dell’oppressione e della liberazione politica e sociale tout court. Non a caso questo approccio dilaga con la sconfitta dei movimenti rivoluzionari, con la loro parabola discendente, e con la riconquista, da parte del potere capitalistico, delle posizioni perse nella fase di lotte precedente.
Carla Lonzi, sia pure argomentando in modo del tutto sbagliato, ha ragione però su un punto: non si può istituire un prima e un dopo tra conflitto di classe e contraddizione di genere. La contraddizione di genere deve essere affrontata contestualmente al conflitto di classe. Di più: è proprio nel quadro dello sviluppo della lotta di classe che le istanze delle donne lavoratrici riescono a produrre enormi passi in avanti, non solo per le donne, ma per tutti; ce lo dimostra tutto il percorso che abbiamo provato a delineare, a partire dalla Rivoluzione francese.
Come avrebbe affermato Angela Davis
“Il femminismo nero è emerso come uno sforzo teorico e pratico per dimostrare che razza, genere e classe sono inseparabili nei mondi sociali che abitiamo” [21]
Ma Carla Lonzi non dialoga di certo con il femminismo nero poiché dichiara
“L’uomo nero è uguale all’uomo bianco, la donna nera è uguale alla donna bianca” [22]
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Diversamente da Carla Lonzi, Herbert Marcuse non prende le distanze da Marx e dal socialismo. Nei due brani seguenti – tratti rispettivamente da La liberazione della donna in una società repressiva. Una conversazione tra Herbert Marcuse e Peter Furth e da Marxismo e femminismo –Marcuse afferma la sostanziale impossibilità di una vera liberazione della donna all’interno di una società repressiva come quella capitalista: in questo tipo di società la donna si libera solo in quanto forza lavoro, non in quanto donna
“[…] se l’emancipazione consistesse solo o principalmente in una più ampia partecipazione della donna al sistema lavorativo socialmente costituito, alla divisione del lavoro socialmente data, ciò significherebbe solamente che essa partecipa in ugual misura anche della repressione che si esprime in tale divisione sociale del lavoro. Allora la donna si sarebbe emancipata solamente in quanto esposta alla medesima repressione in precedenza subita dall’uomo come lavoratore. In questo senso non si può parlare di una reale emancipazione della donna in una società ancora repressiva, poiché qui l’emancipazione non supera mai i confini della repressione sociale […] Emancipandosi nell’attività lavorativa, infatti, la donna non si emancipa in quanto donna, ma si trasforma in uno strumento di lavoro. Una simile emancipazione rimane all’interno dei confini della società esistente, senza trascenderli.”
“[…] il movimento è legato alla lotta politica per la rivoluzione, per la libertà degli uomini e delle donne. Al di là, infatti, della dicotomia maschio-femmina, c’è l’essere umano, ciò che è comune al maschio e alla femmina, l’essere umano la cui liberazione, la cui realizzazione costituisce ancora la posta in gioco […] Il capitalismo avanzato, tuttavia, ha creato gradualmente le condizioni materiali per la traduzione dell’ideologia delle caratteristiche femminili in realtà, le condizioni oggettive per capovolgere la fragilità a quelle associata, in forza, l’oggetto sessuale in soggetto, per fare del femminismo una forza politica nella lotta contro il capitalismo, contro il principio di prestazione” [24]
Il pensiero della differenza di genere pone anche questioni rilevanti, sia pure in modo sbagliato. Che senso ha, ad esempio, rivendicare una generica uguaglianza di fronte una specifica differenza? Che senso ha per un maschio rivendicare il congedo per maternità come diritto contrattuale… se non può essere madre?
“JUDITH: Io sono convinta, Reg, che un gruppo anti-imperialista come il nostro debba rispecchiare una divergenza di interessi all’interno della base di potere.
REG: Sono d’accordo. Francis?
FRANCIS: Puntodivistamente parlando, quello che dice Judith è valido, purché il movimento non dimentichi mai che è un diritto inalienabile di ogni uomo…
STAN: O donna.
FRANCIS: …o donna, di affrontare se stesso…
STAN: O se stessa.
FRANCIS: …o se stessa…
REG: Giusto.
FRANCIS: Grazie, fratello.
FRANCIS: O sorella.
FRANCIS: O sorella… Dov’ero rimasto?
REG: Avevi finito.
FRANCIS: Oh. Ah.
REG: Per concludere, è un diritto naturale di ogni uomo…
STAN: O donna.
REG: Perché non la pianti con queste donne? Ci confondi le idee, basta.
STAN: Perché le donne hanno il sacrosanto diritto di svolgere un ruolo nel movimento.
FRANCIS: Perché continui a tirare in ballo le donne?
STAN: Voglio essere donna.
REG: Cosa?
STAN: Voglio essere donna. E d’ora in poi, voglio che mi chiamiate Loretta.
REG: Come?
LORETTA: È un mio diritto di uomo.
JUDITH: Scusa, ma perché vuoi essere Loretta, Stan?
LORETTA: Voglio avere dei bambini.
REG: Vuoi avere dei… bambini?
LORETTA: È un diritto di ogni uomo averne, se li vuole.
REG: Eh… ma tu non puoi avere dei bambini!
LORETTA: Uff, ma non mi opprimere!
REG: Non ti sto opprimendo! È che tu non hai… l’utero! Dove si dovrebbe sviluppare il feto? Lo vuoi tenere in un barattolo?
LORETTA: Uh…
JUDITH: Sentite, guardiamo in faccia la realtà. Supponiamo di stabilire che lui non possa avere bambini perché non ha l’utero, il che non è colpa di nessuno, semmai dei Romani. Ma comunque il diritto di avere dei bambini ce l’ha.
FRANCIS: Concettualmente parlando, sì. Combatteremo gli oppressori per il tuo diritto ad avere bambini, fratella. Sorello. Loretta.
REG: Ma che senso ha?
FRANCIS: Cosa?
REG: Che senso ha combattere per il suo diritto ad avere bambini se… se non può avere bambini?
FRANCIS: Eh… simbolicamente parlando, è la nostra lotta contro l’oppressione.
REG: Simbolicamente parlando è la sua lotta contro la realtà” [25]
La questione del linguaggio sessuato – su cui ironizzano i Monty Python – può essere un problema molto serio: dipende dal modo in cui viene affrontato. Per capirlo basta fare un esempio. Esiste in Italia un gruppo di attiviste che si definisce Coordinamenta femminista e lesbica. Siccome sono femmine il nome del gruppo è “coordinamenta”, al femminile, e non coordinamento, al maschile. Un po’ come se un gruppo di calciatori maschi si definisse uno squadro di calcio o come se un uomo passeggiasse su uno strado o una donna andasse in motorina. Questo è il modo sbagliato di porre la questione.
D’altra parte, di fronte ad una platea composta di uomini e donne non si dovrebbe dire “cari amici…” bensì “cari amici e care amiche” perché esiste il plurale sia di “amico” sia di “amica”. Qui, l’abbreviazione “amici” non è neutra e il fatto che in ogni contesto di questo tipo l’abbreviazione sia sempre “al maschile” è il segno del carattere sessuato del linguaggio, un carattere che deve essere criticato perché diventa anche modo di pensare (come mette in evidenza Luce Irigaray quando parla di “fallogocrazia” ovvero, diciamo, di potere del pensare (e parlare) al maschile.
Un discorso analogo vale per la questione della differenza in generale. C’è modo e modo di porre il problema della differenza. Se partiamo dalla constatazione che uguaglianza non vuol dire equità ovvero che avere gli stessi diritti e gli stessi doveri non è necessariamente equo allora poniamo un problema reale. Non a caso Marx [26] pensa il comunismo come una società nella quale ciascuno da’ secondo le proprie possibilità (che sono diverse) e riceve in base ai propri bisogni (che sono anch’essi diversi): dunque, è solo tenendo conto della differenza che è possibile promuovere l’equità nella comunità.
Ma ci sono modi di proporre la differenza che sono invece da rigettare integralmente. È evidente, ad esempio, che “trattare diversamente i diversi” potrebbe essere un principio accolto favorevolmente anche da chi ritiene che sussista una gerarchia dentro la differenza: “trattiamo i negri diversamente da noi semplicemente perché non sono come noi” potrebbe dire un membro del Ku Klux Klan; il che è astrattamente vero (se si resta al semplice colore della pelle), ma è denso di sottintesi (bianco è meglio di nero).
Ad una presunta “differenza culturale” si ispirano anche coloro che cercano di giustificare l’uso di pratiche come l’infibulazione (la cauterizzazione genitale femminile che non molto tempo fa veniva praticata anche nella civilissima Europa) che diventano, in nome del dilagante relativismo e della differenza culturale e religiosa, qualcosa che non può neppure essere criticata per non apparire “colonialisti”.
Salvo poi utilizzare i “diritti delle donne” per giustificare gli interventi imperialisti. Chi sono gli islamici? Gente che impone il velo alle donne e che impedisce loro di rifarsi seno, labbra, seni… E dunque, proprio in nome dei diritti delle donne e della superiore civiltà occidentale (che è superiore proprio perché garantisce tali diritti alle donne), ogni intervento contro i nuovi barbari è legittimato. Che poi i nuovi barbari siano quasi sempre armati e foraggiati proprio dall’Occidente non è cosa che merita di essere ricordata. Questa è la nuova frontiera di un certo femminismo borghese che, sempre più soddisfatto per le quote rosa e per la crescente integrazione delle donne nei luoghi del potere capitalistico, si adopera ora per l’integrazione anche delle donne che vivono nei paesi “incivili” (soprattutto islamici).
Il sottinteso che la differenza sia strutturalmente assiologica, cioè che contenga una gerarchia valoriale, è sempre pericoloso. Quante volte abbiamo ascoltato un’affermazione del tipo “se fossero le donne a comandare le cose andrebbero meglio…”? Si tratta di una “frase femminile” innocua che sembra controbilanciare ironicamente “frasi maschili” come “donna al volante pericolo costante”. Eppure, traslata nella dottrina differenzialista, assume un carattere del tutto particolare. Uno dei pilastri del pensiero della differenza sessuale è infatti che nella diversità di genere è contenuta una diversità ontologica e una diversa concezione del mondo. Le donne sono diverse dagli uomini non solo biologicamente (e questo lo sanno anche gli uomini), ma hanno anche una differente concezione del mondo che deriva da questa differente biologia. Da qui il rifiuto del concetto di “genere umano” (che è un concetto unificante) e la proposta di due generi diversi e in conflitto: maschile e femminile.
Come detto, il differenzialismo conferisce grande importanza alla differenza biologica e, segnatamente, alla possibilità della donna di essere madre [27]. La maternità e il legame che in questa esperienza si instaura con i figli e le figlie starebbe, secondo il discorso differenzialista, alla base di una concezione del mondo fondamentalmente non violenta, pacifica, orientata al dialogo e alla comprensione reciproca; il tutto, ovviamente, in antagonismo alla concezione del mondo maschile fatta di violenza, scontro, guerra.
La donna sarebbe “naturalmente” ostile alla guerra perché la guerra uccide i suoi figli (maschi). Dunque, per il fatto di poter essere madre, la donna tende alla pace mentre l’uomo tende alla guerra. Se il mondo fosse governato dalle donne sarebbe dominato dalla pace e non dalla guerra come è oggi. Dunque, donna è meglio.
Ora, non è chiaro perché le donne-madri dei soldati dovrebbero essere pacifiste mentre gli uomini-soldati che muoiono in guerra non possono esserlo (il che è poi storicamente falso). Ed è inoltre ben singolare che un movimento neo-femminista basi in modo così profondo la propria “concezione del mondo” soprattutto sulla dimensione biologica e sull’esperienza della maternità che in genere è proprio ciò che il patriarcato ha usato per re-legarla al ruolo di “angelo del focolare”. Questo è singolare, ma comprensibile perché la maternità sembra essere, in definitiva, l’unico punto di appoggio “naturale” per la giustificazione della differenza ontologica.
Un’obiezione che si potrebbe fare all’ontologia differenzialista è questa: la Gran Bretagna è governata da Theresa May, la Germania da Angela Merkel, negli Stati Uniti per un pelo c’era Hillary Clinton. E anche nella politica italiana ci sono moltissime donne. Eppure, non si può certo dire che oggi viviamo in un mondo migliore, in un mondo dove non ci sono guerre e non c’è violenza. Le femministe differenzialiste replicherebbero a questa accusa che “donne si diventa” e che le donne che non hanno ancora preso coscienza di far parte di un genere diverso rispetto a quello maschile, attuano dei comportamenti che sono maschili, che emulano il maschio. Le donne che non sono ancora diventate donne sono ancora “maschi”. Donna è bene, maschio è male.
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Differenza ed uguaglianza dovrebbero invece combinarsi in modo dialettico. Ad esempio, nei luoghi di lavoro uomini e donne dovrebbero avere eguali diritti sindacali, eguali trattamenti salariali… e nello stesso tempo la loro differenza biologica o di altra natura dovrebbe essere trattata adeguatamente. Invece, l’apparente paradosso della differenza di genere è che non differenzia per nulla (oltre il genere) e mette sullo stesso piano la donna oppressa e la donna che opprime, l’uomo sfruttato e l’uomo che sfrutta [28]. Non appaiono per nulla strane, di conseguenza, le “profession de foi” anti-marxiste di queste teorie [29].
Con la sua esasperazione della lotta contro il maschile il differenzialismo conduce le donne proletarie all’abbraccio mortale con il borghese o addirittura con il post-borghese. E conduce necessariamente le donne lavoratrici sfruttate e sottopagate degli Stati Uniti a sperare nella vittoria del campione dell’oligarchia finanziaria, militare, industriale USA… quella Hillary Clinton che, in qualità di Segretario di Stato, è stata co-responsabile di tutte le scelte politiche e militari che negli ultimi anni hanno causato la morte di centinaia di migliaia di persone in Siria [30], Ucraina, Libia… Se per la prima volta una donna fosse diventata Presidente degli Stati Uniti questa non sarebbe stata per le donne una vittoria, ma una sconfitta, come una sconfitta delle donne sono state la nomina di Angela Merkel alla Cancelleria tedesca o di Teresa May a quella britannica. La realtà, come sappiamo, è andata nella direzione opposta a quella auspicata dalle intellettuali femministe radical-chic e dalle dive dello “star system” [31], perché le donne hanno votato in massa anche Trump, seguendo priorità del tutto diverse da quelle di genere (e peraltro comunque del tutto sbagliate).
Infine, niente mostra la natura politica del neo-femminismo borghese come il fatto di aver appoggiato Hillary Clinton “dimenticando” che alle elezioni c’era un’altra candidata donna, Jill Stein, ambientalista, che però aveva il difetto di non poter vincere. Le neo-femministe non hanno scelto una buona candidata donna, ma una candidata donna pessima, una donna-maschio, che potesse conquistare il potere. Era il potere e non il genere a guidare la scelta.
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Contro l’impostazione differenzialista sorgono voci critiche
“I Women’s Studies ampliano il concetto di gender: oltre alla differenza tra uomini e donne vengono prese in considerazione altre differenze, come quelle culturali, sociali e razziali: la posizione di una donna immigrata e povera è diversa da quella di una cittadina benestante; ed è diversa quindi la sua prospettiva sul mondo. Si ritiene dunque che tali differenze rendano più complesse le forme che assume l‘oppressione e più impellente il bisogno di dare voce alle diverse donne” [32]
Ma è ovvio che, nella misura in cui la differenza di classe o di accesso alla cultura e alla cittadinanza tornano protagoniste il principio differenzialista della supremazia del genere viene meno.
D’altra parte, come abbiamo detto, anche le differenze culturali possono diventare il pretesto per l’affermazione di una pretesa supremazia e dunque per la guerra ai diversi-inferiori, sia pure solo “culturalmente”, come suggerisce uno degli allievi dell’etologo nazista Konrad Lorentz, Irenäus Eibl-Eibensfeld [33], con la sua nozione di pseudo-specificazione
“Il presupposto teorico è anche in questo caso post-darwiniano: come esistono delle leggi funzionali dell’evoluzione filogenetica, così, sostiene Eibl-Eibesfeldt, esiste l’“evoluzione culturale”. Sotto l’influenza di pressioni selettive analoghe a quelle dell’evoluzione biologica, i gruppi umani di cultura diversa si separano gli uni dagli altri come se fossero specie diverse e quindi si insediano in aree territoriali diverse e rigidamente separate. Da qui deriva appunto la nozione di “pseudospeciazione” con riferimento a gruppi umani differenziati – con lingue, consuetudini, credenze religiose, abitudini sessuali e tradizioni profondamente diverse – che si separano gli uni dagli altri come se fossero realmente specie diverse.
L’identità non solo culturale ma anche antropologica di ciascun gruppo si fonda sulla tendenza innata dell’homo sapiens a delimitare il proprio territorio e a difenderlo collettivamente contro gli stranieri, considerandoli come non-uomini o come uomini inferiori. È dunque l’aggressività fra i diversi gruppi culturalmente differenziati e fra loro tendenzialmente nemici che secondo Eibl-Eibesfeldt si traduce in guerra guerreggiata, pesantemente distruttiva” [34]
A questo punto la “guerra delle razze” può svilupparsi su ogni terreno, ben oltre quello semplicemente biologico. Anzi, dal momento che non vi sono i presupposti per affermare la differenza biologica tra “razza bianca” e “razza nera” si può traslare lo scontro dal piano delle “diverse” razze a quello delle diverse culture. A quel punto, il nord americano o l’europeo può sentirsi superiore all’asiatico o all’africano senza scomodare teorie razziste, ma riferendosi esclusivamente al piano del diverso livello di sviluppo culturale e politico-sociale. O ai differenti diritti delle donne.
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La previsione di Marcuse sul femminismo come “forza politica nella lotta contro il capitalismo” si è verificata solo in parte perché il femminismo anti-capitalista è rifluito come tutti gli altri movimenti anti-capitalisti ed oggi il femminismo che domina la scena è un femminismo quasi integralmente borghese, tanto nella versione emancipazionista-liberale che in quella differenzialista.
E se è deprecabile la smania di integrazione tipica del femminismo liberale è altrettanto discutibile la smania di separazione che sembra animare il femminismo differenzialista. Finché saranno le differenze a prevalere, finché le donne si uniranno con le donne, i gay con i gay, i neri con i neri… le forze del cambiamento resteranno disperse e subalterne al potere dominante.
La “differenza” di classe tra capitale e lavoro resta la contraddizione fondamentale perché costituisce il pilastro su cui si regge il funzionamento del sistema politico-sociale in cui le donne e gli uomini vivono e che trasforma ogni differenza in rapporto di potere (degli uomini sulle donne, dei bianchi sui neri, dei ricchi sui poveri, dei colti sugli ignoranti…). Invece, le altre contraddizioni, pur importanti, non sono altrettanto decisive e la loro esaltazione finisce solo per creare una condizione hobbesiana di guerra tutti contro tutti (che è poi ciò che permette al potere di divideree imperare).
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L’Italia è stata ed è uno dei paesi più arretrati dal punto di vista dei movimenti delle donne. Il fascismo e l’influenza della Chiesa Cattolica hanno rallentato la conquista di molti diritti. Fino al 1971 è reato propagandare ed usare contraccettivi; la legge sul divorzio [35] viene approvata nel 1970 (nel 1974 c’è il referendum abrogativo voluto dal Papa e guidato alla sconfitta dalla DC di Fanfani); fino al 1978 l’interruzione volontaria di gravidanza è regolata dal Codice Penale ed è quindi considerata a tutti gli effetti un reato (l’aborto diventa legale solo con la legge 194/78 che sarà peraltro sistematicamente boicottata dai cattolici fino all’estremo di negare la vita ad una madre per garantire quella di un feto di pochi mesi [36]); fino al 1996 lo stupro viene considerato reato contro la morale (e non contro la persona); fino al 1963 molti lavori sono ancora preclusi alle donne (durante il fascismo le donne non potevano lavorare affatto); fino al 1981 il Codice Penale ammette il “delitto di onore” e il cosiddetto “matrimonio riparatore”; la riforma del Diritto di famiglia (che consente il passaggio dalla potestà maritale all’eguaglianza fra coniugi) è solo del 1975; nel 1977 è approvata le legge sulla parità di trattamento fra uomini e donne in materia di lavoro…
La gran parte delle conquiste delle donne avvengono in un periodo (la fine degli anni ‘60, il decennio degli anni ‘70) caratterizzato da larghe e diffuse lotte del movimento dei lavoratori e dei movimenti politici anti-capitalisti. Non è un caso: nelle fasi di sviluppo dei movimenti di lotta (e a maggior ragione nelle fasi rivoluzionarie) si formano le condizioni anche per l’affermazione dei diritti civili, mentre quando il movimento generale rifluisce, rifluiscono anche i movimenti particolari, fatta eccezione per quelli che sono del tutto compatibili con il riflusso (come i movimenti delle donne caratterizzati da approcci “intimistici”, familistici, reazionari…).
Il “riflusso” porta alla luce i limiti profondi del femminismo auto-segregazionista e differenzialista. E il più grande di tali limiti è certamente quello di aver prodotto una relazione intra genere altrettanto oppressiva di quella inter genere.
Per comprendere questo tipo di esito si può far riferimento alle considerazioni dell’attivista femminista Juliet Mitchell che fa derivare il disagio femminile non solo dalla relazione verticale con il padre-patriarca o con la madre-rivale (secondo gli schemi più consueti), ma anche dallo “spodestamento” che deriva dal conflitto inter pares tra fratelli e sorelle
“La relazione tra fratelli è importante perché, a differenza di quella con i genitori, è la nostra prima relazione sociale… Con l’arrivo di un fratello più piccolo, o la consapevolezza della diversità di un fratello (o di un suo sostituto) più grande, il soggetto si trova spodestato, senza più il posto che prima gli apparteneva: egli/ella dovrà trasformarsi totalmente, nel rapporto sia con la famiglia sia con il mondo esterno” [37]
Si tratta quindi di una situazione di conflitto che non è strettamente legata alla sessualità e che ha origine piuttosto dalla frustrazione per il mancato riconoscimento genitoriale. La sofferenza per questa frustrazione è più diffusa tra le figlie femmine perché nella tradizionale famiglia patriarcale i figli maschi vengono spesso privilegiati, in quanto destinati ad ereditare le attività economiche o i titoli familiari. Non a caso, quando si parla di trasmissione ereditaria, si dice “di padre in figlio…”.
Si tratta di una situazione che il capitalismo stesso viene superando. Il post-patriarcato attuale, infatti, oltre ad avere sostanzialmente eliminato i residui delle “società di rango”, tenta di integrare le donne all’interno dei propri meccanismi di potere (si pensi ad esempio alle “quote rosa” nei consigli di amministrazione delle imprese [38]).
Può sembrare strano, seguendo il filo del discorso neo-femminista, che nell’ambito del piccolo gruppo di auto-coscienza si ripresentino gli stessi problemi relazionali che le femministe avevano criticato alla società maschilista come, ad esempio, quello della leadership interna, esercitata in modo esclusivo da alcune donne che impongono al resto del gruppo regole vincolanti; e la prima regola che questi gruppi impongono è quella di isolare, in modo estremamente aggressivo, ogni donna che osi avere una qualche forma di “mediazione” con l’elemento maschile; ogni tentativo di questo tipo viene letto immediatamente come disponibilità alla subalternità al maschio e come tradimento.
Si produce quella che Sartre chiama “fraternità-terrore”.
“L’idea dello spodestamento risulta congrua anche per riflettere sulle derive dello stesso movimento femminista degli anni settanta, incapace di elaborare la tematica della differenza all’interno del genere e prigioniero della forbice tra difesa del diritto di ciascuna realizzazione di sé e tentazione di lasciare fuori dalla gruppalità femminile ogni possibile fonte di competizione e conflitto in nome di una battaglia comune e di un condiviso orizzonte di utopia. Orizzonte che da sempre sembra precludere possibili percorsi di mediazione individuale con la dimensione del maschile, in una sorta di patto da «fraternità-terrore», secondo la terminologia sartriana o, nell’ottica di uno studioso assai distante dal primo, Bion, a causa di un gruppo tenuto insieme da assunti di base di carattere emozionale e patologico.&rdquo [39]
L’“amore del gruppo femminista”, con il suo bisogno di “prossimità fisica”, soffoca la persona e finisce, paradossalmente, per assomigliare al rapporto narcisistico e simbiotico della famiglia tradizionale, tanto criticato proprio dal femminismo.
E, ulteriore paradosso, la libertà sessuale, che era stata all’origine del neo-femminismo (quantomeno cronologicamente) viene ora negata e condannata come espressione di subalternità al maschio, di bisogno del maschio. La donna deve invece essere clitoridea (dunque sessualmente indipendente) e non vaginale (ovvero dipendente dall’elemento maschile). La libertà sessuale diventa a questo punto auto-referenzialità frustrante e tutto ricomincia: oppressione del gruppo-famiglia e mortificazione del desiderio sessuale.
Note
[1] Antiper, Ciclo di Incontri di approfondimento storico e politico (IASP). La rivoluzione delle donne, Le donne tra due rivoluzioni. Dalla Rivoluzione francese alla rivoluzione d’Ottobre, Sabato 29 novembre 2014, Appunti per la relazione introduttiva
http://www.antiper.org/archive/formazione/iasp/rivoluzionedonne/appunti-iasp-donne-1.pdf
[2] Ibidem.
[3] Karl Marx, Il Capitale, Libro primo, Editori Riuniti, 1980, pag. 438.
[4] Antiper, ibidem.
[5] Ibidem.
[6] Anarchopedia, La comune di Parigi (1871), Il ruolo delle donne
http://ita.anarchopedia.org/La_Comune_di_Parigi_(1871)#Il_ruolo_femminile:_l.27Unione_delle_donne
[7] Antiper, Introduzione a AA.VV. – La rivoluzione delle donne, eBook, PDF, A5, 32 pagine, Nuova edizione 2011.
[8] Antiper, Le donne tra le due guerre (in corso di pubblicazione).
[9] Ibidem.
[10] Ibidem.
[11] Maria Antonella Galanti, Sofferenza psichica e pedagogia, Carocci editore, p. 17.
[12] F.J. Scarsi, D. Lagorio, Contro la “par condicio”: isteria, anoressia, tossicomania Against the “par condicio”: hysteria, anorexia, drug addiction, Dipartimento di Scienze Psichiatriche, Università di Genova, Journal of Psychopathology.
[13] http://www.psychiatryonline.it/node/1045
[14] M. Foucault, Raison et déraison. Historie de la folie à l’age classique, Plon, Paris 1961; nuova ediz. Histoire de la folie à l’age classique, Gallimard Paris 1972, trad. it. a cura di F. Ferrucci, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano, 1976, 2001.
[15] Sara Crocco, Follia e potere psichiatrico, Tesi di laurea, Fondazione Mario Tommasini.
[16] M. Foucault, ibidem.
[17] We dwell in possibility, Il femminismo italiano dai ’70 ai ’90: appunti per una storia
http://wedwellinpossibility.blogspot.it/2012/04/il-femminismo-italiano-dai-70-ai-90.html
[18] Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, La donna clitoridea e la donna vaginale, e altri scritti, Scritti di rivolta femminile 1,2,3, Prefazione.
[19] Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel.
http://femrad.blogspot.it/2014/01/sputiamo-su-hegel.html
[20] Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, La donna clitoridea e la donna vaginale, e altri scritti, Scritti di rivolta femminile 1,2,3, Prefazione.
[21] Intervista ad Angela Davis: l’individualismo anti-capitalista, lainfo.es, Información desde América Latina
http://lainfo.es/it/2014/09/29/intervista-ad-angela-davis-lindividualismo-anti-capitalista/
[22] Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel.
[23] Herbert Marcuse, La liberazione della donna in una società repressiva. Una conversazione tra Herbert Marcuse e Peter Furth, in Marxismo e nuova sinistra
[24] Herbert Marcuse, Marxismo e femminismo, in Marxismo e nuova sinistra
[25] Monty Python, Brian di Nazareth, Regia di Terry Jones.
https://www.youtube.com/watch?v=Sz9rJowh0pY
[26] Cfr. Karl Marx, Critica del programma di Gotha.
[27] Carla Lonzi dichiara:“La trasmissione della vita, il rispetto della vita, il senso della vita sono esperienza intensa della donna e valori che lei rivendica”. Cfr, Manifesto di rivolta femminile.
[28] Carla Lonzi, Manifesto di rivolta femminile, “Le donne saranno sempre divise le une dalle altre? Non formeranno mai un corpo unico? (Olympe de Gouges, 1791)”.
[29] Carla Lonzi, Manifesto di rivolta femminile, “il marxismo ci ha vendute alla rivoluzione ipotetica”.
[30] Cfr. Wikileaks, Hillary Clinton Email Archive, New Iran and Syria2.doc
https://wikileaks.org/clinton-emails/emailid/18328#efmADMAFf
[31] Trump presidente, la voce delle donne: “Vediamo sfumare qualcosa per cui abbiamo lottato tutta la vita”, Parla Ellen Schrecker, docente di storia e femminista, La Repubblica, 9 novembre 2016.
Rosi Braidotti, Do not agonize: Organize!, Il Manifesto, 11 novembre 2016: “Bisogna sempre pensare contro il proprio tempo, soprattutto ora che ci troviamo a raccogliere i pezzi di un sogno infranto: la prima donna eletta alla presidenza degli Stati Uniti”.
La miliardaria Lady Gaga, uno dei prodotti più eminenti dello show business di infima qualità che domina la scena, dichiara: “Una donna presidente, non l’avrei mai creduto”, La Repubblica, 8 novembre 2016. Infatti, non era da credere.
[32] Monica M. Pasquino, Identità e differenze. Introduzione agli studi delle donne e di genere, Capitolo 8, I femminismi dagli anni Ottanta al XXI secolo, a cura di M.S. Sapegno, Mondadori Edizioni Sapienza 2011, Roma, pp. 179-210
[33] I. Eibl-Eibensfeld, The biology of peace and war.
[34] Danilo Zolo, Sulla paura. Fragilità, aggressività, potere, Feltrinelli, pag. 48
[35] Si osservi che Carla Lonzi nel suo Manifesto di Rivolta Femminile scrive, a proposito del divorzio: “Il divorzio e’ un innesto di matrimoni da cui l’istituzione esce rafforzata”. L’istituzione è, ovviamente, il matrimonio.
[36] Catania, 32enne muore in ospedale con i due gemelli dopo aborto: aperta inchiesta. Parenti: “Medico obiettore, non interveniva”, Il fatto quotidiano
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/10/19/catania-32enne-incinta-muore-con-i-due-gemelli-in-ospedale-aperta-linchiesta/3108718/
[37] Juliet Mitchell, cit. in Maria Stella Conte, Aiuto, mi sta per nascere un fratello, La Repubblica, 19 gennaio 2004
[38] Quote rosa nei consigli di amministrazione, Servizio Affari Internazionali, Ufficio dei rapporti con le Istituzioni dell’Unione Europea, Senato della Repubblica Italiana
https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/00737502.pdf
[39] Antonella Galanti, Ibidem, p. 27.