Giorgio Cesarale | Il secondo Lukács: l’ontologia dell’essere sociale nell’epoca della manipolazione
[par. 2 del cap. 4 “Filosofia e marxismo nell’Europa della Guerra fredda”, in a c. di S. Petrucciani, Storia del marxismo. II Comunismi e teorie critiche nel secondo Novecento, Carocci, Roma 2015]
La partecipazione attiva di Lukács alla battaglia politica interna al movimento operaio termina nel 1928-29 con la sconfitta delle “Tesi di Blum”, da lui stilate, e il conseguente scioglimento della frazione del Partito comunista ungherese alla quale egli apparteneva, e cioè la frazione di Landler, diretta oppositrice di quella di Béla Kun. L’importanza strettamente politica delle “Tesi di Blum” è nota: contro la strategia allora dominante nella Terza Internazionale ruotante attorno alle parole d’ordine della “classe contro classe” e del “socialfascismo”, esse avanzano la proposta, di sapore leniniano, dell’alleanza “democratica” degli operai e dei contadini e anticipano quindi la linea del “Fronte popolare”, che sarà assunta dalla Terza Internazionale dopo il 1935. Tuttavia, la loro importanza è ancora più vasta: con esse Lukács comincia a prendere atto della trasformazione che investe lo Stato borghese di fronte all’emergere di potenti spinte democratiche e al mutamento di forma del processo di accumulazione, dominato ora dal plusvalore relativo e dall’intervento diretto dello Stato stesso (Lukács, 1972, pp. 317-21). L’integrazione del proletariato dentro il sistema, che qui Lukács, ben prima dei francofortesi, vede profilarsi all’orizzonte, richiede perciò alle organizzazioni del movimento operaio un cambio di strategia, fondato soprattutto su una diversa valutazione del rapporto fra democrazia e socialismo (ivi, pp. 313-5). Tra le due non vi è, come dirà nella sua autobiografia, Pensiero vissuto, una “muraglia cinese” (Lukács, 1981, trad. it. p. 104), non solo perché la rivoluzione democratico-borghese, se è “reale” rivoluzione, si prolunga inevitabilmente in rivoluzione proletaria, ma anche perché è solo attraverso la democratizzazione della vita quotidiana dei lavoratori, del loro rapporto con la sfera della produzione, che le speranze di successo del socialismo possono sensibilmente aumentare.
È, quest’ultimo, un tema che ritornerà prepotentemente in campo nell’ultimo Lukács, entro il contesto della discussione intorno alla riforma del “socialismo reale” (Lukács, 1985, trad. it. pp. 66-7). Ma la sua scaturigine è leniniana: esso fa infatti parte di quel blocco di elementi del pensiero e della prassi del rivoluzionario russo su cui Lukács inizierà a riflettere con insistenza dalla pubblicazione del suo Lenin (1924) in poi, e che lo aiuteranno a bruciare le scorie messianico-settarie di Storia e coscienza di classe. Ma Lenin per Lukács non è solo il geniale stratega della rivoluzione russa o l’esemplare di un tipo nuovo di uomo (Lukács, 1923, Prefazione, 1967, trad. it. pp. XXXV-XXXVI); egli è anche fonte di decisive lezioni filosofiche. Quando, infatti, e giustamente, gli interpreti parlano di una “svolta” del 1930 intervenuta a modificare il suo precedente assetto teorico (Oldrini, 2009, pp. 131-69), è anche alla crescita dell’influenza filosofica di Lenin che bisogna pensare: la lettura, subito dopo la loro pubblicazione postuma (tra il 1929 e il 1930), dei Quaderni filosofici induce Lukács a una generale riconsiderazione degli assunti “materialistici” dell’autonomia dell’essere rispetto al pensiero e della conoscenza come fedele rispecchiamento dell’essere.
Ma la crisi dell’impianto idealistico del Lukács degli anni venti è anche generata da una coppia di altri fattori: la lettura nel 1930 a Mosca degli ancora inediti Manoscritti economico-filosofici di Marx e il tentativo, intrapreso con Michail Lifšic sempre negli anni trenta, di dare vita a un’estetica marxista. La lettura dei Manoscritti economico-filosofici ha rappresentato per Lukács, per sua esplicita ammissione, un vero e proprio shock (Lukács, 1913, Prefazione, 1967, trad. it. p. XL): la differenziazione marxiana fra alienazione e oggettivazione – per la quale fa parte del corredo delle potenzialità dell’uomo quella di plasmare un’oggettività che pure rimane in ultima istanza indipendente da esso (l’oggettivazione), senza che ciò implichi che tale oggettività signoreggi e frustri le facoltà umane (il che accade nell’alienazione) – batte in breccia, infatti, uno dei presupposti di fondo di Storia e coscienza di classe, e cioè il rapporto inversamente proporzionale fra il principio dell’oggettivazione e quello dell’unità fra soggetto e oggetto. Si apre così la strada per la rivalutazione, che sarà del tardo Lukács, del ruolo della natura, come datità geneticamente indipendente dall’uomo, e del principio del lavoro, inteso come processo di oggettivazione in cui si attua un ricambio organico con la natura.
Se il marxismo non è semplicemente, come era in Storia e coscienza di classe, dialettica della storia e della società, ma anche teoria in grado di fissare le coordinate generali del rapporto con la natura, esso acquista una più ampia universalità. Il marxismo potrà perciò divenire finalmente quello che solo con difficoltà riesce ad essere, e cioè filosofia, un’ontologia allo stesso tempo unitaria e riccamente differenziata al proprio interno. Universalità, tuttavia, vuol dire anche capacità di esplorare la peculiarità di tutte le forme di riproduzione della realtà. Ne segue che poiché quest’ultima non è solo scientifica o filosofica, ma anche artistica, il marxismo non potrà affatto disinteressarsi di estetica. Anzi, a guardar bene, in Marx ed Engels, dice Lukács, vi sono già i germi di una compiuta estetica, autonoma rispetto a tutte le correnti idealistiche che hanno permeato e continuano a permeare l’indagine estetica. Si tratta di una estetica “realista”, ma non “naturalista”, attenta alla specificità dell’arte, ma senza slegarla dal più ampio accadere della totalità storico-sociale, volta a rilevare il significato universale contenuto in ogni autentica opera d’arte, ma sapendo che questa universalità l’arte può solo “intuirla” e concretizzarla in “tipi” (figure particolari in cui si compendiano universalità e singolarità), e non dimostrarla, descriverla o peggio renderla parte della propaganda ideologica o politica.
In un certo senso si può dire che l’intensa indagine “estetica” che Lukács svolge a muovere dagli anni trenta e fa culminare nella ponderosa Estetica – indagine che produce un’imponente messe di ricerche, sul contenuto delle quali non è possibile qui intervenire – rappresenta una sorta di Wiederholung, di “ripetizione”, in senso materialistico delle perlustrazioni estetiche di gioventù, quelle di L’anima e le forme o dell’Estetica di Heidelberg. Quando insomma Lukács rompe con l’idealismo si pone per lui la necessità di rompere anche con l’idealismo “estetico” che aveva preceduto Storia e coscienza di classe e ne aveva condizionato il pensiero. Un processo analogo investe il rapporto con Hegel, di cui conosciamo la centralità in Storia e coscienza di classe. Negli anni trenta infatti, oltre a rinnovare in senso materialistico la sua estetica, Lukács si reimmerge nello studio di Hegel, e in particolare dello Hegel giovane, e ne ricava come risultato Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica [1], libro nel quale tenta di offrire una ricostruzione dell’evoluzione del pensiero hegeliano fino alla Fenomenologia dello spirito alternativa a quella allora corrente grazie ai lavori di Haym, Dilthey e Häring. Qui Hegel non è più il pensatore della identità fra soggettività e oggettività, ma il teorico delle rivoluzioni moderne (economica e politica) (Lukács, 1948, trad. it. p. 21), colui che prova a scoprirne l’intima dialettica attraverso una nuova logica del rapporto fra particolare e universale (ivi, pp. 113-4). Gli stessi passaggi da una fase all’altra (per esempio da quella bernese a quella francofortese) sono governati dall’approfondirsi della comprensione della realtà economica e politica più che dalla semplice adesione a nuovi canoni filosofici (ivi, pp. 147-63). Questo implica che, lungi dal prodursi come pura risposta alle aporie della gnoseologia kantiana, come era ancora in Storia e coscienza di classe, la dialettica nasce come strumento per trascrivere a livello teorico le novità costituite dal sistema capitalistico e dallo Stato liberal-costituzionale.
Tale lettura di Hegel, sebbene di taglio più “materialistico” rispetto a quella esibita in Storia e coscienza di classe, è tuttavia, come è facile capire, quasi antitetica a quella coltivata in ambito staliniano. Non si deve dimenticare, infatti, che oltre alla compressione del ruolo da esso giocato nella fondazione della dialettica materialistica, operata dallo stesso Stalin nel quarto capitolo della Storia del partito comunista dell’Unione Sovietica, il contributo di Hegel riusciva notevolmente sfigurato dalla posizione di Ždanov, per il quale nella figura di Hegel occorreva intravedere quella di un ideologo della reazione feudale contro la rivoluzione francese. Non solo: la secca alternativa, dal punto di vista storico-filosofico, fra idealismo e materialismo, che allora Stalin e Ždanov cercavano di promuovere, impediva di riconoscere che era esistito nella storia della filosofia un idealismo, per dirla con Lenin, più intelligente del più rozzo materialismo. Hegel, insomma, complicava la semplicità dello schema, perché testimoniava dell’esistenza di un razionalismo borghese che, sebbene idealistico, aveva avuto un enorme significato “progressivo” (Lukács, 1981, trad. it. p. 132).
La Distruzione della ragione (1954), storia della filosofia nel periodo “imperialistico”, dal secondo Schelling fino al neopositivismo e all’esistenzialismo, è precisamente costruita intorno al rifiuto della polarità idealismo/materialismo, a favore di quella razionalità/irrazionalità. L’irrazionalismo, che rappresenta per Lukács il brodo di coltura del fascismo europeo, nasce anzitutto come risposta ai progressi del pensiero dialettico, compiuti con Hegel (Lukács, 1954, trad. it. p. 101); in seguito, invece, si struttura per arginare gli avanzamenti del marxismo e del proletariato internazionale. Da questo punto di vista, gli effetti della lotta di classe penetrano profondamente nel campo della discussione filosofica, rendendo ogni filosofia, volente o nolente, sempre già schierata da un lato o dall’altro del conflitto fra borghesia e proletariato. Nietzsche riflette bene per Lukács questa situazione: egli non conosce il socialismo e tantomeno il marxismo e sembra per di più avere altri obiettivi filosofici; tuttavia la sua intera filosofia è puntata contro il socialismo (ivi, p. 312). L’ignoranza dell’avversario conduce però a un abbassamento complessivo di qualità filosofica (ivi, p. 311). Mentre, infatti, Schelling e Kierkegaard nella loro lotta contro la dialettica hegeliana si sono mostrati talvolta capaci di indicarne i difetti, le cose cambiano quando l’avversario è il marxismo (ibid.). È, questo, uno dei segni di quella decadenza, della quale Nietzsche stesso è riuscito a esprimere gli atteggiamenti emotivi fondamentali, in qualche modo validi per tutto il periodo imperialistico (ivi, p. 318).
Nietzsche è tuttavia figura cruciale anche per un’altra ragione, vale a dire per il suo agnosticismo in gnoseologia, o, meglio ancora, per la sua capacità di trasformare la gnoseologia in mito, che per Lukács funge, nell’epoca dell’imperialismo, da suo surrogato (ivi, p. 389). La verità diventa la posta in palio della lotta fra signori e servi, qualcosa che scolora inesorabilmente verso l’utilità (ivi, pp. 395-7). Si annuncia così la tendenza fondamentale di tutta la filosofia del Novecento, e in particolare delle due correnti filosofiche più importanti del secondo dopoguerra (il neopositivismo e l’esistenzialismo), e cioè la vanificazione della realtà oggettiva (ivi, pp. 786, 804-5). Sebbene all’altezza della Distruzione della ragione Lukács non avesse ancora chiaramente formulato il programma di una critica ontologica alla filosofia contemporanea, le sue premesse sono già poste in questo testo. Non è un caso perciò che Per l’ontologia dell’essere sociale, il testo filosofico princeps della tarda maturità di Lukács, prenda l’abbrivio proprio da un’aspra critica del neopositivismo e dell’esistenzialismo.
La vanificazione della realtà oggettiva come tendenza fondamentale di tutta la filosofia del Novecento nasce sulla base dell’atteggiamento spirituale della borghesia verso le grandi acquisizioni della scienza moderna. La scienza, infatti, con l’incremento delle conoscenze che essa reca con sé, offre il terreno per una nuova immagine del mondo, materialistica e aliena da pregiudizi religiosi. Tuttavia, la rottura completa con l’immagine religiosa del mondo, dice Lukács, esporrebbe la borghesia a grandi rischi, e in special modo al rischio di agevolare la crescita di energia politica e culturale del rappresentante del materialismo moderno, e cioè il proletariato. Per questo, ciò che si persegue è un compromesso, analogo a quello promosso dal cardinal Bellarmino nella contesa con Galilei: la scienza potrà così continuare a svolgere in piena libertà il suo ufficio conoscitivo; l’unica cosa che non potrà pretendere di aver conseguito è la verità circa la realtà obiettiva delle cose. Le conoscenze dovranno risultare utili, pragmaticamente utili, piuttosto che vere, e allo stesso tempo incapaci di aiutare l’uomo a stabilire un nuovo e più coerente rapporto fra sé stesso e il mondo. A regolare il rapporto fra bisogni e desideri dell’uomo e totalità dell’accadere naturale e sociale dovrà perciò rimanere la religione, alla quale bisognerà solo vietare di intervenire per illustrare agli uomini come il mondo stesso è ontologicamente configurato (Lukács, 1976-81, vol. I, pp. 16-7, vol. II,t.1, pp. 68-70).
Tuttavia, è soprattutto la mentalità neopositivistica – che è qualcosa di ancora più ampio della semplice filosofia neopositivistica e pervade per Lukács le classi dirigenti di tutti i paesi capitalistici all’indomani della fine della seconda guerra mondiale – ad accogliere e rinnovare i termini del compromesso bellarminiano. Essa lascia alla religione la cura dell’anima, e affida alla scienza il compito di accrescere i poteri dell’uomo sulla natura. Questi poteri, peraltro, sono particolarmente efficaci anche sotto il profilo dello sviluppo delle tecniche di ciò che questo Lukács chiama “manipolazione”. Una volta “scomparsa”, infatti, la realtà oggettiva, si apre un enorme spazio per l’orientamento, a vantaggio delle classi dominanti, delle variabili fondamentali della vita associata. Con ciò, Lukács si riferisce alla manipolazione delle contraddizioni reali della società capitalistica effettuata per esempio da un diritto concepito in termini puramente “kelseniani” o “positivistici” (ivi, vol. II, t. 1, p. 212), da una economia politica “keynesiana”, capace di manovrare le grandezze a livello macroeconomico (ivi, p. 316) e dalla pubblicità, che rinchiude l’individuo nella sua particolarità, invitandolo a un consumo di prestigio (ivi, p. 310). La filosofia neopositivistica, attestandosi lungo la frontiera del governo “formale” dei suoi protocolli concettuali, non fa dunque che confermare il più generale modus operandi dell’establishment occidentale (ivi, vol. 1, pp. 25-7).
Ma come si fa a uscire da un ambiente politico e culturale dominato dalla manipolazione? Per il Lukács successivo alla svolta del 1930 la risposta filosofica sta, come abbiamo già anticipato, nel rilevamento e nella valorizzazione di ciò che per definizione sfugge alla manipolazione, perché è lo zoccolo duro ontologico di ogni fare umano, e cioè la vita quotidiana (ivi, pp. 7-9) [2]. Il commercio continuo con le cose che accompagna quest’ultima, il suo “realismo”, benché spesso ingenuo e irriflesso, sono il definitivo banco di prova della validità di ogni scopo o progetto umano. Ma la vita quotidiana non è soltanto sede di questo rapporto vivo e contrastato con il mondo oggettivo: essa è anche l’ambito entro cui si colloca la principale attività umana, e cioè il lavoro. Il quale è per Lukács, così come per Aristotele, Hegel e Marx, essenzialmente attività teleologica, posizione di scopi alternativi riguardo a mezzi altrettanto alternativi per ottenere un oggetto conforme ai primi (ivi, vol. II, t. 1, pp. 17-54). L’essere sociale, la terza e superiore partizione di tutto l’essere [3] (dopo l’essere inorganico e organico), sorge quando si realizzano continuamente posizioni teleologiche (ivi, p. 24). Tuttavia, come ha colto di nuovo Hegel, ogni atto teleologico deve presupporre, se vuole avere probabilità di riuscita, un’adeguata conoscenza delle catene causali entro le quali andrà a inscriversi (ivi, p. 62). La prassi, dice Lukács con accento molto diverso da Storia e coscienza di classe, non è sufficiente a sé stessa; per darsi, ha sempre bisogno di associarsi a un corretto rispecchiamento dell’essente.
Ma se la teleologia lavorativa implica conoscenza, e se anzi è in primo luogo entro il lavoro, mediandosi con i mezzi e gli oggetti, che la conoscenza riceve verifica (attraverso ciò che poi si configurerà come esperimento) e giustificazione, questo per Lukács vorrà dire che è entro il lavoro che prende origine la scienza, sebbene questa venga via via allontanandosi dal suo luogo genetico, e anzi manifesti più capacità di generalizzare i nessi della realtà e più carattere “disantropomorfizzante” di esso (ivi, pp. 63-4). Questa lontananza della scienza dal lavoro, e quindi dalla vita quotidiana, appare poi quasi come incolmabile con lo sviluppo dei metodi manipolatori delle scienze contemporanee, sui quali si basa per legittimarsi anche il neopositivismo. È a questo punto, secondo Lukács, che deve fare il suo ingresso la filosofia, la quale deve correggere in senso ontologico il procedere della scienza, e provare ogni volta a ricondurla all’essere reale, alla vita quotidiana. Perduto quindi ogni rapporto di tipo ancillare, in un senso o nell’altro, fra scienza e filosofia, ciò che bisogna fare è agire in vista di una reciproca integrazione delle loro funzioni.
Se fino a ora abbiamo visto venire in primo piano i momenti di discontinuità (centralità di vita quotidiana, lavoro, scienza ed esperimento) fra l’ultimo marxismo di Lukács e il primo, quello di Storia e coscienza di classe, ora però dobbiamo lasciare che si palesi un momento di convergenza: anche l’ultimo Lukács infatti è un sostenitore della categoria filosofica di “possibilità”. Solo che stavolta la possibilità non sarà di tipo “fenomenologico”, legata al rapporto fra coscienza e totalità. Per questo Lukács, la possibilità si radica piuttosto nello stesso atto lavorativo, nella scelta degli scopi da perseguire e dei mezzi con i quali realizzarli. Come aveva colto ancora una volta Hegel, anche il valore e il dover essere hanno una portata ontologica, attengono al piano delle alternative concrete degli uomini (ivi, pp. 73-6).
Sulla scia di Marx, per il quale non esiste produzione senza riproduzione, anche Lukács pensa che il singolo atto teleologico lavorativo non si possa isolare che per puri scopi scientifici. Nella realtà del complesso economico, per un verso la prassi del singolo componendosi con quella degli altri dà vita a una totalità dinamico-oggettiva che si contrappone, con la durezza di qualsiasi realtà, alla sua volontà; per altro verso, la posizione teleologica cambia di natura, e diventa realmente “posta”, solo quando nel processo lavorativo, oltre alle esigenze dettate dai mezzi e dagli oggetti, l’individuo è costretto a prendere in considerazione anche le posizioni teleologiche degli altri. Nascono, con ciò, le strutture della riproduzione sociale, forme oggettive di coordinamento fra le mobili e varie posizioni teleologiche degli individui, dalla divisione del lavoro e dal linguaggio fino al diritto e al mercato mondiale (ivi, pp. 124-50).
Articolandosi in virtù della riproduzione, l’essere sociale si rivela come ciò che più intimamente è, ovvero “complesso di complessi”, insieme di sistemi parziali, ciascuno dei quali interagisce con l’altro in forme non lineari (ivi, pp. 224-5). Ne nasce il caso, ciò che il razionalismo borghese stenta sempre a comprendere (ivi, vol. I, p. 346). Sennonché, in queste forme di coordinamento, gli uomini superano senza volerlo anche la loro particolarità, sperimentano profondi processi di universalizzazione. Si forma il genere umano in sé, sedimentazione non consaputa di capacità universali dell’uomo. D’altro canto, il passaggio al per sé, al genere non più muto, che sulla base dello hegelismo soggiacente a questo discorso si potrebbe considerare come inevitabile, è tutt’altro che tale per questo Lukács: esso è sempre una possibilità, legata al fatto che è nell’individuo che si deve attuare la crescita dalla particolarità all’universalità, è nella tensione fra capacità universali del genere e loro inscrizione all’interno della personalità individuale che si decide l’esito positivo o negativo del processo (ivi, vol. II, t. 2, pp. 406-8). Certo è che molto dipende dall’intensità e dal livello delle lotte che l’individuo conduce contro l’estraniazione generata dalle società di classe e dalla sua partecipazione alle forme superiori della cultura umana, e cioè arte, scienza e filosofia. In un modo o nell’altro, infatti, esse, a differenza della religione, dereificano l’uomo, gli permettono di consumare la propria particolarità, di ricollegarsi alla sua “essenza” (ivi, pp. 518-20).
In ciò che siamo venuti dicendo è per Lukács depositato anche il principio dell’etica: questa infatti deve coprire lo spazio della mediazione fra le esigenze contenute nei nessi di socializzazione e la sfera della particolarità; in altre parole, etico è lo spazio della mediazione fra necessità e libertà (ivi, vol. II, t. I, pp. 327-9). Spazio che d’altro canto non si sarebbe mai dischiuso se fin dal principio non fosse collocata entro la teleologia lavorativa la possibilità di scegliere diversamente. “Keine Ethik”, insomma, “ohne Ontologie”. È per questo che, sebbene l’idea di scrivere una Etica avesse attraversato la mente di Lukács prima di quella di scrivere una Ontologia, egli si risolse alla fine a scrivere anzitutto quest’ultima, ripromettendosi di trattare dell’etica in seguito [4]. Se la morte non avesse interrotto questo corso di pensieri, Lukács avrebbe così affiancato a una Estetica e a una Ontologia anche una Etica, e il marxismo si sarebbe finalmente dotato, come accaduto a tutte le grandi filosofie del passato, di un’articolazione sistematica, vera garanzia della sua universalità.
La ricerca delle condizioni di possibilità di una filosofia marxista è probabilmente uno dei fili conduttori principali dell’intera opera di Lukács. E se è vero che la freschezza e la vivacità con cui questa ricerca è condotta in Storia e coscienza di classe non sono state più recuperate da Lukács nel corso della sua maturità, non siamo d’accordo con quella tendenza critico-interpretativa che vede l’intelligenza filosofica lukacsiana scemare con il progresso degli anni. Per l’ontologia dell’essere sociale è senz’altro un libro la cui impostazione problematica deve essere sottoposta a un serio e profondo collaudo; tuttavia trattarlo alla stregua di un puro e semplice fallimento non pare sostenibile [5]. In esso sono infatti contenute, secondo noi, sollecitazioni filosofiche di tutto riguardo, dall’analisi del lavoro alla luce della categoria di possibilità alla riscoperta della vita quotidiana e del nesso fra quest’ultima e la scienza e la filosofia. Quel che più non ci persuade dell’Ontologia è però la scelta metodologica di fondo, lo studio delle forme concrete dell’essere sociale a muovere da una matrice ontologica e antropologica originaria, quella del lavoro marxianamente sans phrase, di ciò che ancora Marx chiamava “processo lavorativo naturale”. Benché quindi Lukács se la prenda talvolta con quegli approcci che partono da alcuni elementi “astratti” e da questi, per via di combinazione, giungono al concreto (ivi, vol. 1, pp. 130-1), è proprio così che egli sembra operare. Ciò che attraversa tutti i modi di produzione storicamente determinati, senza peraltro apparire mai come tale, e che si ricava nella sua autonoma figura teorica solo per astrazione dalle diverse forme di lavoro concreto storicamente date, e cioè lo stesso processo lavorativo naturale, viene invece concepito come loro principio di determinazione. Lukács sorvola insomma sulla scelta di Marx nel Capitale di parlare del processo lavorativo naturale sullo sfondo del processo di produzione capitalistico in quanto governato dall’obiettivo della valorizzazione e di parlarne altresì solo dopo che le categorie fondamentali di tale modo di produzione siano state fissate e delineate. La conseguenza è che per discutere del capitalismo come formazione socialmente e storicamente determinata, e per discuterne come di qualcosa che può essere filosoficamente ritematizzato sulla base del concetto di processo lavorativo naturale, categorie come il valore (in senso economico), che hanno un concreto profilo sociale e storico, vengono indebitamente naturalizzate, sottratte a quella complessa rete di relazioni in cui, per converso, sono in Marx fin da subito collocate (ivi, pp. 340-1) [6].
Naturalmente, se Lukács non percorre questa via è per una ragione molto seria, quasi candidamente confessata all’interno dell’Ontologia, la ragione è che in caso contrario avrebbe dovuto affrontare fin da subito la tematica della reificazione, e quindi anche quella di una socialità opaca e invertita (ivi, vol. II, t. 2, pp. 643-6). Ancora una volta il nesso coscienza-totalità sociale avrebbe potuto soffocare l’originarietà di quel rapporto con la natura e con l’essente oggettivo, per ripristinare il quale molti sforzi e molte rotture si erano dovuti compiere.
Bibliografia
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ID. (1972), Scritti politici giovanili 1919-1928, ed. it. a cura di P. Manganaro, N. Merker, Laterza, Bari.
ID. (1976-81), Per l’ontologia dell’essere sociale, ed. it. a cura di A. Scarponi, 2 voll., Editori Riuniti, Roma.
ID. (1981), Pensiero vissuto. Autobiografia in forma di dialogo (intervista di I. Eörsi), ed. it. a cura di A. Scarponi, Editori Riuniti, Roma 1983.
ID. (1985), L’uomo e la democrazia, a cura di A. Scarponi, Lucarini, Roma 1987.
ID. (1990), Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale. Questioni di principio di un’ontologia oggi divenuta possibile, trad. it. di A. Scarponi, Guerini e Associati, Milano.
ID. (1994), Versuche zu einer Ethik, hrsg. von G. I. Mezei, Lukács Archiv, Budapest.
Oldrini G. (2009), György Lukács e i problemi del marxismo del Novecento, La città del sole, Napoli
Tertulian N. (1990), Introduzione a Lukács (1990).
Note
1 Il manoscritto fu inizialmente presentato all’Accademia delle scienze sovietica (nel 1938) e procurò a Lukács il titolo di “dottore in filosofia”. Tuttavia, la pubblicazione del libro intervenne solo dieci anni dopo, e in Svizzera, a causa del timore degli editori sovietici di promuovere il libro di un autore sospetto alle autorità (non si dimentichi, infatti, che Lukács venne imprigionato nel 1941, in una delle ultime ondate di arresti del periodo staliniano, e poco dopo liberato grazie all’intercessione di Dimitrov).
2 È Materialismo ed empiriocriticismo di Lenin ad aver avvertito Lukács della imprescindibilità, in ordine al ripensamento del realismo, della vita quotidiana.
3 Lukács, assumendo, in un certo qual modo, una delle lezioni capitali della Logica hegeliana, pensa che dell’essere qua talis non si possa dire nulla, e che quindi si possa “cominciare” solo dall’essere determinato, che, “materialisticamente”, è diviso in inorganico, organico e sociale.
4 Cfr. a questo proposito le note di contenuto etico presenti in Lukács (1994).
5 Cfr. il giudizio della stessa allieva di Lukács, Àgnes Heller, in Fehér, Heller (1995. p. 412).
6 D’altronde, come riportano alcune testimonianze, lo stesso Lukács era tutt’altro che convinto della bontà dell’organizzazione sistematica dell’Ontologia, basata sulla divisione fra una prima parte storica e una seconda di tipo teorico. A preoccuparlo era la presenza nel testo di alcune ripetizioni. È per questo che poco prima di morire stese una versione condensata dell’Ontologia, i Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale (per le notizie sull’attività redazionale dell’ultimo Lukács cfr. l’Introduzione di N. Tertulian a Lukács, 1990).