Militant | Il significato della supremazia bianca oggi. Racconto della conferenza di Angela Davis
«Non sono più iscritta al partito comunista, ma sono ancora comunista». Questa una delle affermazioni di Angela Davis durante la lezione magistrale che ha tenuto lunedì scorso all’Università di Roma Tre. Parole decise, prive di ipocrisia e senza toni attenuati, pronunciate in risposta all’intervento polemico del germanista Marino Freschi, che – e la frecciatina anticomunista nelle sue affermazioni era palese – evidenziava i rapporti di Davis con Erich Honecker, segretario della Sed (il partito comunista della Repubblica democratica tedesca) e poi presidente della Ddr, e l’esistenza di una foto che la ritrae con sua moglie Margot. La foto in questione, che vede anche la presenza della cosmonauta sovietica Valentina Tereshkova, è del 4 agosto 1973, pochi giorni dopo la morte di Walter Ulbricht, fino ad allora presidente della Ddr con pochi poteri effettivi: Freschi non ha potuto fare a meno di fare un po’ di polemica, dicendo che Honecker aveva tenuto nascosta questa morte perché allora nella Ddr non si poteva dire la verità. La dichiarazione di Davis di essere ancora comunista e l’affermazione precedente sulla possibilità di un futuro socialista («Non solo perché non ci sono più paesi socialisti dobbiamo pensare che non ci sarà più un mondo socialista in futuro», ma andiamo a memoria) assumono, in questo contesto ufficiale, ancora più valore.
Queste parole, infatti, sono state pronunciate da Davis nell’aula magna della facoltà di Lettere dell’Università di Roma Tre, nel corso di un incontro ufficiale organizzato dall’istituzione universitaria. Le cinquecento poltrone dell’aula non sono bastate a contenere tutto il pubblico, composto in gran parte di compagne e compagne, e molti si sono seduti a terra o sono rimasti in piedi. Era la prima volta che quell’aula era così piena, come ha notato il rettore dell’Università Mario Panizza in una pantomima introduttiva in cui, probabilmente per fare bella figura con l’ospite straniera, invitava a continuare a leggere Marx.
A riempierla per la prima volta, a quanto pare, è dunque riuscita proprio Angela Davis: e ciò dimostra come la forza del suo esempio e di quello del Black Panther Party sia ancora forte tra i compagni. Militante del Partito comunista dal 1968 e, in seguito, del BPP (almeno fino a quando le pantere nere decisero che la militanza nell’organizzazione non era compatibile con quella in altri partiti e Davis scelse il partito comunista), a lungo imprigionata per “terrorismo” a causa soprattutto dei suoi rapporti con George Jackson, e poi liberata dopo una vastissima campagna internazionale, Angela Davis è oggi docente universitaria e attiva nel movimento Black Lives Matter (BLM): da molto tempo è impegnata nello studio delle interconnessioni tra classe, razza e genere e, negli ultimi anni, nella lotta per l’abolizione del carcere. Una figura di militante politica comunista importantissima, oggi come quarantacinque anni fa, a dispetto della scandalosa “breve biografia” pubblicata sul sito di Roma Tre, in cui la sua figura è stata quasi completamente depoliticizzata, la sua militanza ridotta a “coinvolgimento” (??) «nei movimenti per la giustizia sociale in tutto il mondo grazie al suo attivismo e al suo impegno decennale» e la sua persona presentata come una che «con il suo lavoro di educatrice – sia a livello universitario che nell’ambito pubblico più ampio – ha sempre sostenuto l’importanza di costruire comunità militanti per la giustizia economica, razziale e di genere» (con il suo lavoro di educatrice??). Una depoliticizzazione così ricercata che, nell’elenco delle sue pubblicazioni, è persino scomparsa la sua Autobiografia di una rivoluzionaria: forse il titolo sembrava troppo estremista. Una depoliticizzazione che fa il paio con l’intervista a Davis di Antonio Gnoli uscita su «Repubblica», che non ha saputo far meglio che chiedere alla militante afroamericana dei suoi incontri con Adorno e Marcuse, della musica, del suo giudizio sul post-moderno, della sua infanzia.
Invitata dunque come docente universitaria a tenere una lectio magistralis sul Significato della supremazia bianca oggi, le sue parole sono state ricchissime di contenuti, in parte racchiusi nel suo ultimo libro Freedom is a constant struggle, uscito un paio di mesi fa. Davis, per la prima volta a Roma, ha aperto il suo intervento (audio e video, in quatto parti: 1, 2, 3, 4) ringraziando quanti, tra i presenti, avevano partecipato alla campagna per la sua liberazione oltre un quarantennio fa. Ha poi annunciato la morte, avvenuta domenica scorsa, di Mondo we Langa (all’anagrafe David Rice), membro delle Black Panthers deceduto in carcere dove, nonostante le gravi condizioni di salute e la continua professione di innocenza, era detenuto da quarantaquattro anni con l’accusa di aver ucciso un poliziotto nel 1970. Una sorte simile a quella di Mumia Abu Jamal, ricordato tra gli applausi. Davis ha quindi iniziato la lezione richiamandosi al marxismo nero di Cedric Robinson e affermando che la supremazia bianca deve essere messa in relazione con il capitalismo globale e le sue trasformazioni, che producono povertà in tutto il mondo. Secondo Robinson, il capitalismo è sempre stato un capitalismo basato sul razzismo (racial capitalism), come mostrano le connessioni con il commercio degli schiavi, l’odierna razzializzazione del mercato, ecc.: il razzismo, oggi, è sempre più evidentemente un elemento strutturale non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa, in America Latina, in Medio Oriente ecc.
Con l’elezione di Obama alla presidenza degli Usa – come, in precedenza, con quella di Nelson Mandela in Sud Africa – sembrava essere caduta l’ultima barriera del razzismo e sembrava iniziata l’era post-razziale: ma non è stato così perché il razzismo non può essere distrutto da un’elezione, per quanto importante. Ci sono stati di certo dei passi avanti, ma il cammino è ancora lungo: del resto, «Rome wasn’t built in a day». Ad esempio, tanto Clinton quanto Obama hanno più volte espresso la necessità di public conversation on race, ma queste affermazioni non hanno portato a nulla. Anche la lotta per i diritti civili è insufficiente se non si accompagna a una lotta che pretenda i diritti sostanziali (nel lavoro, nelle politiche abitative, nella salute, nell’istruzione) e cerchi di cambiare le strutture della società originatesi nel periodo della schiavitù: la distruzione degli apparati legali razzisti o una vittoria elettorale come quella di Mandela o di Obama non sono sufficienti al superamento del razzismo, che sopravvive in una cornice molto più vasta.
Il razzismo, quindi, continua a essere presente negli Stati Uniti, come dimostrano le proteste che si sono succedute in tutto il paese nell’ultimo anno e mezzo, in seguito all’uccisione del giovane Micheal Brown a Ferguson, nel Missouri. Queste mobilitazioni hanno esteso il loro raggio d’azione, diventando una protesta totale contro la violenza razzista dello Stato negli Usa: Ferguson si è così trasformata in un simbolo attraverso cui cercare una soluzione al problema del razzismo, rifiutando le scorciatoie “naif” come quelle che, prima dell’omicidio di Brown, si limitavano a chiedere “giustizia”, cioè la punizione del singolo poliziotto responsabile della singola uccisione di un nero. Il problema del razzismo è, infatti, strutturale e non individuale. Il caso di Ferguson ha avuto rilevanza in tutto il mondo: Davis ha ricordato quando, nel 2014, durante un’iniziativa a Savona nella quale doveva parlare dei Cinque cubani, il pubblico era in realtà più ansioso di sentirla parlare di Ferguson e di Micheal Brown. Ciò indica che le proteste di Ferguson sono considerate un soffio per la libertà di tutti in tutto il mondo, compresi i Cinque. Il movimento nato a Ferguson ha cercato, dunque, di costruire campagne collettive contro il razzismo, che mirassero a garantire a tutti le stesse possibilità, ad abolire la pena di morte (che è connessa col razzismo strutturale e incorpora la memoria storica della schiavitù) e a modificare quel complesso industriale-carcerario che colpisce per la maggior parte le persone di colore.
Davis ha più volte ribadito come il razzismo e la supremazia bianca siano elementi strutturali della società statunitense: essi agiscono attraverso l’imprigionamento di massa degli uomini e delle donne di colore, che costituisce quindi un modo per gestire una certa parte della società. Ci sono oggi più neri in carcere negli Usa di quanti fossero schiavi nel 1850. Il razzismo fornisce il carburante per il mantenimento, la riproduzione e l’espansione del sistema carcerario-industriale: per questo, l’abolizione delle prigioni costituisce un passo per l’abolizione del razzismo. La richiesta dell’imprigionamento dei poliziotti implicati nell’uccisione di neri, invece, non farebbe altro che ribadire i meccanismi della “giustizia” razzista già applicata dallo Stato.
Davis ha quindi riportato – tra gli applausi – un commento di Lenin alla rivoluzione russa del 1905, secondo cui «alcuni mesi di rivoluzione a volte educano i cittadini più velocemente e in modo più completo di decenni di stagnazione politica»: il discorso è così passato – senza con questo voler affermare che si tratti di una rivoluzione – allo sviluppo del movimento BLM, nato nel 2013 dopo l’assoluzione del vigilante che aveva ucciso il diciassettenne disarmato Trayvon Martin in Florida e consacrato dopo l’omicidio di Micheal Brown. Secondo Davis, l’affermazione del BLM ha comportato alcuni importanti cambiamenti nel discorso pubblico, nel vocabolario, nel modo in cui i media coprono le notizie relative alle violenze delle forze dell’ordine nelle strade e in carcere, nel modo in cui il razzismo e l’idea della supremazia bianca sono percepite in rapporto all’azione delle forze dell’ordine.
È cambiato, anche, il modo in cui i movimenti neri percepiscono l’importanza, nella lotta, della solidarietà internazionale. Anche negli Usa, quindi, i movimenti antirazzisti si sono fatti sempre più radicali, comprendono sempre meglio il ruolo coloniale della riproduzione del razzismo nel resto del mondo e sono finalmente promotori della richiesta di giustizia per la Palestina e di forme di solidarietà verso i palestinesi, come il sostegno per la campagna BDS (Boicottaggio, disinvestimento, sanzioni) contro Israele. Si tratta di un movimento in crescita, mentre parallelamente anche il razzismo si sta riproducendo in tutto il mondo. Secondo Davis, non è casuale che questa richiesta crescente di giustizia e uguaglianza si stia affermando proprio ora: l’elezione di un presidente nero, infatti, ha reso più evidente il razzismo strutturale del paese, ha attribuito alla violenza statale un maggiore impatto, ha spinto sempre più persone di colore a chiedere istruzione, case, cure mediche, ecc. Anche se, negli ultimi decenni, molti neri sono entrati a far parte delle gerarchie militari, politiche ed economiche mondiali, infatti, la stragrande maggioranza delle persone di colore è ancora soggetta al razzismo economico e penale, oltre che svantaggiata nel campo dell’educazione, nella disponibilità di abitazioni, nell’accesso alla sanità. L’obiettivo di movimenti sorti spontaneamente dopo l’omicidio di Micheal Brown è quello di diffondere la coscienza del carattere strutturale della violenza razzista dello stato.
Davis, inoltre, ha anche ribadito che il razzismo, negli Usa come nel resto del mondo, non è solo diretto contro i neri, ma sempre di più anche contro gli immigrati (ad esempio contro i messicani, come dimostrano alcune affermazioni di Donald Trump) e, in particolare, contro gli islamici. Ed è proprio l’islamofobia a giustificare sempre più spesso l’imprigionamento indiscriminato dei migranti (come mostrano l’Italia e l’Europa), le torture, le violenze, ecc..
Secondo Davis, non è casuale che i giovani stiano sempre più protestando contro la supremazia bianca e il razzismo proprio mentre l’islamofobia e il razzismo anti-islamico stanno crescendo sempre più. Dopo l’11 settembre, infatti, la «guerra al terrore» ha giustificato il razzismo antimusulmano, ha legittimato l’occupazione israeliana della Palestina, ha dato nuove forme alla repressione degli immigrati, ha portato alla militarizzazione delle polizie locali in Usa: inoltre, come affermato in altri contributi, ne sono state vittime retrospettive anche la quasi settantenne Assata Shakur, che nel 2013 è stata inserita nella lista dei dieci maggiori terroristi cercati dall’Fbi, e i Cinque cubani, la cui detenzione è stata giustificata nel nome dell’antiterrorismo. Ciò si lega indissolubilmente all’occupazione della Palestina da parte di Israele e alla guerra contro l’Irak, che hanno condotto a una crescente militarizzazione della polizia anche negli Usa, come dimostra il fatto che anche i poliziotti siano ora equipaggiati per «combattere il terrore» (tute mimetica, veicoli militari, ecc.) e il fatto che la polizia israeliana abbia addestrato quella statunitense: il risultato è stato la crescita di omicidi come quello di Micheal Brown. Il razzismo dell’inizio del XXI secolo è, quindi, legato alla guerra contro il terrore: sempre più spesso, alcuni privati cittadini vogliono difendere le loro comunità contro il presunto terrorismo e, in generale, contro lo straniero, il diverso. La morte per mano di un vigilante privato di Trayvon Martin in Florida è frutto di questo clima.
Davis fa riferimento al G4S (Group for security), una società – anzi, la terza società privata più grande del mondo dopo Walmart e Foxconn – di sicurezza privata che ha impiantato prigioni e prigionieri in tutto il mondo: come affermato dalla militante afroamericana in un’altra intervista, gettare uno sguardo su di essa è importante non solo per capire come alcune modalità di infliggere terrore siano state adottate dalla polizia, ma anche per guardare alla dimensione economica di tali processi. Come spiegato da Davis nel suo ultimo libro, infatti, la G4S ha imparato a «trarre profitto dalle pratiche razziste e contro gli immigrati e dalle tecnologie penitenziarie in Israele e in tutto il mondo. G4S è direttamente responsabile delle caratteristiche che assume l’incarcerazione politica in Palestina, tanto quanto degli aspetti del muro dell’apartheid, della reclusione in Sud Africa, delle scuole simili a prigioni negli Usa e del muro lungo il confine tra Messico e Usa. Sorprendentemente, abbiamo imparato durante la conferenza di Londra che G4S gestisce anche centri che ospitano le vittime di violenza sessuale in Gran Bretagna».
Il legame dell’occupazione della Palestina e della guerra “contro il terrore” con la militarizzazione della polizia è evidente anche nelle risposte a esso: i militanti palestinesi negli Usa hanno espresso la loro solidarietà per le proteste di Ferguson e vi hanno partecipato, e viceversa. Del resto, quando un anno e mezzo iniziarono le manifestazioni a Ferguson, furono i palestinesi dei Territori occupati a twittare per primi la propria solidarietà a coloro che erano coinvolti nelle proteste, mentre alcuni attivisti di Ferguson e del movimento BLM hanno fatto un viaggio in Palestina per esprimere il proprio supporto alla causa palestinese. Lottare contro il razzismo negli Usa è la stessa cosa che lottare contro la repressione israeliana in Palestina: e non a caso Davis è membro del comitato per la liberazione del palestinese Marwan Barghouti.
In questo periodo, negli Usa, c’è una nuova attenzione all’opposizione all’incarcerazione di massa nei movimenti antirazzisti, soprattutto tra i giovani neri, tra le donne nere e le queer nere. Allo stesso modo, sempre più spesso si chiedono cambiamenti nel sistema dell’istruzione: all’Università del Missouri, gli studenti hanno ottenuto le dimissioni del preside che non aveva voluto condannare pubblicamente alcuni episodi di razzismo nel campus. Questi movimenti riconoscono la necessità di una intersezione delle lotte. Emblematica è l’assenza, in questi movimenti, della tradizionale leadership nera carismatica, riconosciuta e maschile, in nome di una leadership collettiva e prevalentemente femminile: il movimento BLM, ad esempio, è stato fondato da tre donne nere, Patrisse Cullors, Opal Tometi e Alicia Garza. Non si tratta di un movimento leaderless (senza leader), ma di un movimento leader-full (pieno di leader): si è così assistito alla valorizzazione di donne nere, queer, ecc. non per motivi identitari, ma perché ciò aiuta a superare la cornice assimilazionista. In questi movimenti, il femminismo assume un valore molto importante: esiste, infatti, uno stretto legame tra la lotta anticapitalista, la lotta antirazzista e la lotta contro la violenza di genere e per l’uguaglianza di genere. Il concetto di intersezione, sulla cui elaborazione ha contribuito il femminismo, ha un valore molto importante: Davis fa riferimento alla necessità di una intersezione delle lotte, in cui quella contro la violenza di genere si unisca a quella contro la violenza dello Stato, contro gli abusi della polizia e contro i corpi delle donne. Tutti i nuovi movimenti antirazzisti riconoscono l’importanza del femminismo anticapitalista e antirazzista, come riconoscono il legame dell razzismo con lo sviluppo del capitalismo e con l’attacco al lavoro. È significativo che mentre negli anni ’70, quando solo 200mila persone erano imprigionate, un lavoratore su tre era membro di un sindacato, mentre oggi – che ci sono 2,5 milioni di detenuti e 7 milioni sotto libertà vigilata – solo 1 su 10 lo è.
La cornice dell’intersezione fa comprendere che la lotta contro il razzismo e per la giustizia negli Usa è la stessa lotta per la giustizia in Palestina: secondo Davis, la lotta per la Palestina ha oggi lo stesso valore di quella contro il razzismo in Sud Africa. Infine, Davis ha evidenziato la necessità di incorporare nella lotta e in tutti i nostri sforzi la routine del self-care: gli attivisti politici devono imparare a prendersi cura di sé, del loro corpo, del loro spirito, della loro immaginazione. Non possiamo impegnarci fino a morirne: la lotta deve continuare e, se distruggiamo noi stessi, il movimento ne risente.
Nella successiva tavola rotonda, Luciana Castellina ha chiesto a Davis di esprimersi sulle difficoltà degli afroamericani a riconoscersi nella candidatura del socialdemocratico Bernie Sanders. L’attivista afroamericana – che nei mesi scorsi ha più volte sostenuto l’appoggio ad alle istanze del programma elettorale di Sanders relative all’istruzione e alla sanità pubbliche e gratuite, che sono richieste storiche dei movimenti afro-americani – ha affermato che l’importanza della giustizia economica come la base per la giustizia di razza o di genere. Ha poi fatto riferimento all’influenza del razzismo nella società statunitense, nonostante il ruolo attivo dei giovani neri nel movimento Occupy senza il quale i movimenti di oggi – BLM, ma anche quelli in sostegno di Sanders – non sarebbero neanche pensabili. Questa influenza è balzata agli occhi qualche giorno fa, quando i contestatori di Donald Trump che hanno interrotto la sua campagna presidenziale a Chicago si sono uniti cantando il brano Alright del rapper afroamericano Kendrik Lamar contro la violenza della polizia, il razzismo e la repressione sistematica negli Usa: una canzone che è diventata uno dei simboli del BLM. Alcuni nodi politici irrisolti, comunque, possono essere attributi a una precisa eredità della stagione di Clinton. Davis ha così affermato che è necessario riconoscere la specificità del razzismo espressa nello slogan Black Lives Matter (“le vite dei neri sono importanti”): convertirlo – come ha fatto Hillary Clinton, definita da Davis «una donna che non voterei mai», anche alla luce del sostegno per lei, in quanto donna, espresso da Madeleine Albright – nello slogan All Lives Matter (“tutte le vite sono importanti”) non significa renderlo universale perché, anzi, è proprio il riconoscimento della particolarità del razzismo contro i neri a esprimere un valore universale dopo che, per secoli, i neri sono stati considerati «non umani». Inoltre, proprio perché non è vero che all lives matter è necessario affermare che black lives matter.
Particolarmente interessante è stato poi l’intervento della studiosa americanista Daniela Rossini, che ha affermato come la leadership femminile collettiva dei nuovi movimenti implichi l’abbandono del tradizionale separatismo femminista ed evidenzi sempre più le differenze tra il femminismo bianco e il femminismo nero. Il femminismo di Davis, infatti, si è posto spesso in polemica col cosiddetto “femminismo bianco”, come evidenziano alcune sue affermazioni come quella secondo cui «il genere non sta in piedi da solo». Con questa frase Davis ha voluto dire che la categoria di genere non sia sufficiente a leggere il mondo contemporaneo e come essa vada intrecciata anche con la categoria di classe e con quella di razza. La denuncia di Davis dell’«anima bianca e borghese, bianca come un giglio» del femminismo suffragista si è accompagnata a quella degli atteggiamenti classisti e razzisti del femminismo storico: anzi, una troppo rigida visione femminista ha spesso impedito di vedere la connessione tra l’oppressione delle donne e quelle basate sulla razza e sulla classe, facendo cadere il movimento in trappole ideologiche e strategiche che hanno rischiato di mettere in discussione tutte le conquiste. Ne è un esempio l’atteggiamento delle femministe storiche degli stati nord-orientali degli Usa che, invece di sostenere le rivendicazioni delle donne nere, hanno cercato il sostegno delle femministe razziste degli stati del sud. Se trasportata nella comunità nera, dove risale a quaranta anni fa la lotta contro il maschilismo nel BPP e contro la visione della “matriarca nera svirilizzante”, questa analisi di Davis di polemica col femminismo bianco è perfettamente femminista perché, al suo interno, non si può trascendere dalle categorie di razza e di classe.
Infine, come già affermato in passato dal BPP, Davis ha ribadito la necessità che la lotta contro il razzismo negli Usa si ponga in una prospettiva globale. Non è possibile, infatti, sconfiggere il razzismo guardandolo solo in una cornice ristretta (quella che ha definito «negro-Us frame»), ma bisogna volgere lo sguardo a tutti i razzismi, compresa l’islamofobia: le lotte contro il capitalismo globale e contro l’ideologia neoliberista devono essere delle lotte contro l’individualismo, altrimenti sono destinate a fallire. Il messaggio, concludiamo noi, è ancora quello che affidò quarantadue anni fa alle pagine conclusive della sua Autobiografia di una rivoluzionaria: «Tutti noi sappiamo che l’unità è l’arma più potente contro il razzismo e la persecuzione politica».