Giulia Bausano, Emilio Quadrelli | L’utopia reazionaria della nuova “classe agiata”. Forma e dominio delle élite globali
Lo “sfruttamento” è proprio non già di una società corrotta o imperfetta e primitiva, ma appartiene all’essenza del vivente come funzione organica fondamentale; è una conseguenza della vera e propria volontà di potenza, che è la volontà stessa della vita. (F. Nietzsche, Al di là del bene e del male)
Il discorso del generale cinese Qiao Liang, pronunciato di recente presso l’Università della Difesa di Pechino e riportato nel n.7 della rivista Limes [1], offre l’occasione per dare uno sguardo dentro le “visioni del mondo” delle classi dominanti contemporanee. Capire cosa pensano, cosa anima le loro strategie, in che modo organizzano i conflitti che, ogni giorno che passa, con sempre maggior forza delineano gli scenari della politica internazionale, è qualcosa di più che un semplice vezzo intellettuale. Sappiamo da tempo che ogni Weltanschauung ha ricadute materiali e oggettive non meno reali dei “fatti” anzi, a ben vedere, sono proprio le visioni del mondo e le idee forza che esse veicolano a dare senso e significato ai fatti. Se così non fosse ben difficilmente diventerebbe comprensibile, ad esempio, la partita mortale che intorno alla Storia e alla sua narrazione/interpretazione si gioca. Al contempo altrettanto inspiegabile sarebbero la quantità di risorse ed energie dedicate dalle intelligenze delle classi dominanti a ordinare il mondo e il corso delle cose in un certo modo piuttosto che in un altro.
Per ricordare quanto grande sia il peso delle parole può essere utile riportare alla mente la famosa asserzione di Margaret Thatcher: “La società non esiste”. Lì per lì poteva sembrare come una boutade dal sapore vagamente dadaista ma, ben presto, tutti dovettero riconoscere come, in una semplice battuta, fosse racchiusa tutta la Weltanschauung di un intera fase storica. Certo tutto ciò che forma la società non cessava ovviamente di esistere solo perché Thatcher ne aveva decretato l’estinzione ma, ed è questo il punto, attraverso quella sorta di aforisma veniva archiviato un intero modello politico che, a partire dal riconoscimento della “questione sociale”, aveva influenzato complessivamente il modo politico di gestire e amministrare la vita degli individui. Tutti i fatti che animano la vita sociale non cessarono certo di esistere nel momento in cui la fatidica frase della lady di ferro venne pronunciata, semplicemente uscirono dall’ordine discorsivo del pensiero politico. Con ciò iniziò il costante processo di esclusione e marginalizzazione politica delle masse. In altre parole la società cessò di esistere politicamente e, con lei, tutti i fatti che la riguardano. Nella sua linearità e semplicità questo esempio ci ricorda proprio come l’affermarsi di una determinata Weltanschauung determini e delimiti le regole del gioco in un determinato contesto storico.
Chiuso l’inciso torniamo al nostro generale cinese.
In una sintesi rapida e stringente il generale Qiao espone il punto di vista delle classi dominanti cinesi sul presente, senza risparmiarci un breve excursus storico. Un excursus che rivela con chiarezza ciò che possiamo definire la filosofia della storia propria della classe agiata del Celeste Impero. Per Qiao i fatti politici sono del tutto inessenziali, mentre a contare sono solo ed esclusivamente le “rivoluzioni tecniche”. La stessa Grande rivoluzione, per e nella storia del mondo, avrebbe ricoperto un ruolo marginale poiché, e qua coglie una topica colossale, in seguito alla sconfitta subita da Napoleone a Waterloo il portato di quella rivoluzione sarebbe stato azzerato e il feudalesimo tornato in sella. Asserzione a dir poco sorprendente in quanto, persino un liceale un po’ zuccone, sa benissimo che il Congresso di Vienna non ristabilì i vincoli feudali in Francia, non abolì la “rivoluzione giuridica” che Napoleone aveva imposto a gran parte dell’Europa formalizzando in tal modo il potere della borghesia in quanto classe politicamente egemone, così come non estirpò il capitalismo dalla società europea ma, al contrario, proprio in virtù della sua formalizzazione giuridica ne consentì il pieno realizzo [2]. Per un verso, infatti, la grande vincitrice di Vienna fu l’Inghilterra, la quale da tempo aveva posto in soffitta il feudalesimo e vedeva nella Francia borghese un temibile concorrente economico, dall’altra nel 1815 le classi dominanti europee si posero l’obiettivo della modernizzazione, ovvero sviluppare il capitalismo, evitando il sommovimento politico e sociale attraverso il quale la Francia si era liberata dai vincoli feudali. Difficile, quindi, eludere il peso che la politica assume dentro le rotture storiche e ciò che essa è in grado di prefigurare e anticipare. Ciò che con il Congresso di Vienna, infatti, le classi dominanti europee in ascesa hanno voluto esorcizzare è stato soprattutto il lato giacobino della Grande rivoluzione e il fronte di massa che questo, forse suo malgrado, si portava appresso. La Restaurazione non restaura, sotto il profilo economico, un bel nulla così come, per quanto riguarda gli assetti politici e sociali, non delegittima la grande borghesia. Banchieri, industriali, grandi commercianti e potentati coloniali non hanno nulla da temere. Queste figure saranno del tutto interne alla Restaurazione la quale, a ben vedere, più che un tratto ultramontano e legittimista ha non poche cose in comune con la destra della Gironda [3]. In tutto ciò vi è ben poca tecnica e molta politica.
Questi aspetti, riconosciuti dagli storici di ogni tendenza, rimangono estranei al generale Qiao per il quale le vere rivoluzioni sono quelle tecniche. Il corollario a cui Qiao approda è persino ovvio: la Grande rivoluzione ha avuto un’importanza insignificante rispetto, ad esempio, alle ricadute del motore a vapore. Tutto il saggio di Qiao ruota intorno a tale presupposto. In altre parole: la tecnica decide su tutto. Con ciò si riafferma l’assioma “Il gatto mangia il topo” – contrapposto alla nota asserzione maoista: “Il gatto rosso mangia il topo” – attraverso cui Deng Tsiao Ping aveva dato il là alla rivincita della borghesia nella Cina rivoluzionaria. Ciò che a Qiao preme è la spoliticizzazione della storia, al fine di rendere vana e superflua la stessa idea di soggettività politica. Se, a conti fatti, ciò che conta è solo la tecnica e il suo dominio, e questo non può che valere per ogni epoca storica, la realtà non può che essere un perenne ritorno dell’uguale dove solo una ristretta élite, in grado di governare e comprendere la tecnica, ha diritto di governare e dominare. Qua non si tratta neppure di contrapporre la “rivoluzione dall’alto” alla “rivoluzione dal basso”, in quanto la stessa “rivoluzione dall’alto” non può darsi che in rapporto dialettico con le masse, bensì questa visione presuppone l’esclusione ipso facto dell’intera popolazione dalla scena politica. Questa non può fare altro che seguire in maniera disciplinata e ordinata le direttive degli “uomini eletti”. Su questo aspetto, prima di proseguire nella disamina del saggio, è opportuno soffermarsi poiché, all’interno di questa tesi possono essere colte non poche argomentazioni che hanno caratterizzato il pensiero filosofico e politico dei teorici dell’imperialismo del primo Novecento.
In particolare pensiamo a quanto, intorno alla tecnica e al suo dominio, abbiano riflettuto Heidegger e Jünger [4] e come, per questi pensatori il suo controllo consenta di prendere tra le proprie mani il proprio destino. Non diversamente dagli autori che hanno dato vita alla reazione romantica [5], tanto Heidegger quanto Jünger colgono lo spaesamento e il nichilismo che lo sviluppo industriale si porta appresso ma, a differenza di questi, non guardano al passato, alla presunta era felice medioevale, bensì al futuro. Centrale, per questi, diventa forgiare un tipo umano completamente in grado di plasmarsi secondo la forma a cui il mondo è pervenuto. Di più, proprio questa forma impone di sbarazzarsi, non della tecnica la quale, in realtà non è altro che il capitalismo giunto a un determinato grado di sviluppo, bensì delle antiquate forme politiche ormai incapaci di governarne la forma. La rivolta antiborghese, particolarmente esplicita e accentuata in Jünger, rappresenta la critica al modello politico e culturale dei vecchi settori borghesi. La critica è indirizzata da Jünger, in maniera radicale quanto irriverente, alla sicurezza e alla tranquillità che rappresentava il modello di vita ideale della borghesia prebellica. Con la Prima guerra mondiale tutto il mondo di ieri cade in frantumi e, con questo, tutto lo stile di vita proprio delle vecchie classi dirigenti [6]. La Prima guerra mondiale, attraverso l’avvento dell’era della battaglia dei materiali, ha dato vita a una nuova forma la cui essenza può essere compresa solo da un nuovo tipo umano. Ciò che, allora, occorre domandarsi, secondo i filosofi dell’era imperialista, è se volere o meno il proprio destino [7]. Affermativamente possono rispondere solo coloro in grado di comprendere l’era della tecnica. Vediamo così che, in fondo, con la sua apologia della tecnica il generale cinese non si inventa nulla di nuovo ma, probabilmente a sua insaputa, attinge a piene mani nell’armamentario teorico protofascista. Non stupisce, pertanto, che, per la classe agiata cinese al di fuori di se stessa non possa esservi che una massa di subordinati, l’esistenza dei quali non si differenzia di molto dalla condizione dello schiavo. La Storia, in fondo, è solo quella delle élite.
Non poco interessante, al proposito, è l’elogio, per quanto indiretto, che Qiao rivolge alla principale élite antagonista: la classe dominante statunitense. Buona parte del saggio, infatti, è dedicato a una ricostruzione della linea di condotta tenuta dai circoli militari statunitensi a partire dal 1944 quando, attraverso il celebre Trattato di Bretton Woods, imposero all’intero pianeta il dollaro agganciato all’oro, come sola e unica valuta abilitata agli scambi internazionali. Una fase che si è protratta sino al 1971 quando l’Amministrazione Nixon, in seguito ai costi della guerra in Vietnam e il conseguente assottigliamento delle riserve auree statunitensi, sganciò il dollaro dall’oro dando il là a un corposo deprezzamento della divisa verde e a un periodo, apparentemente instabile e incerto, di fluttuazione monetaria. In quella fase si delineò un momentaneo vuoto di potere, con conseguente apertura di una crisi politica ed economica internazionale, che, ben presto, gli Stati Uniti tornarono a colmare, quando nel 1973 agganciarono il dollaro al petrolio. Imponendo ai paesi dell’Opec di commerciare solo ed esclusivamente in dollari le élite statunitensi centravano un duplice obiettivo strategico: mantenevano il dollaro come moneta egemone sul piano internazionale, nessun paese infatti può rimanere estraneo al commercio energetico, e potevano iniziare a stampare moneta senza vincoli di sorta poiché non dovevano più sottostare alla spada di Damocle dell’equivalente in riserva aurea. A questo punto era solo la potenza politica e militare statunitense a garantire il dominio della sua divisa.
Secondo Qiao non la Seconda guerra mondiale o il crollo dell’URSS sono stati gli eventi clou del Novecento, bensì l’abbandono del sistema del gold standard. Questo fatto avrebbe aperto le porte al dominio dell’impero finanziario americano con tutte le ricadute che questo ha comportato per il sistema – mondo. Da quel momento in poi, grazie a una ciclica gestione del valore del dollaro (dieci anni di dollaro debole/sei anni di dollaro forte), gli Stati Uniti, elargendo a livello internazionale prestiti generosi nel momento in cui il dollaro è debole, per andare all’incasso quando il dollaro è forte, non solo hanno realizzato profitti colossali ma mandato in bancarotta interi paesi, come nel caso dell’Argentina o delle cosiddette Tigri asiatiche, incamerandone gran parte delle economie.
Oggi, secondo Qiao, siamo giunti alla battaglia conclusiva: quella tra la potenza americana e il Celeste Impero. Prima di proseguire pare utile soffermarsi su quanto ascoltato. Un aspetto sembra essere particolarmente interessante: l’assoluta capacità, secondo il generale cinese, da parte delle élite dominanti di governare e pianificare gli eventi del mondo. Nel modo in cui Qiao legge la strategia americana vi è la palese convinzioni che le élite, tutte le élite e quindi parlando degli americani il generale parla anche e soprattutto di se stesso, siano, in maniera del tutto autoreferenziale, ovvero senza dover rendere conto a nessuno tranne che a se stessi, in grado di delineare con piena coscienza e consapevolezza i destini del mondo. Il conflitto non sarebbe altro che una partita a scacchi tra grandezze di pari grado e dignità, una sorta di Jus publicum Europaeum ma su scala globale, il cui fine non è altro che la potenza per la potenza.
A queste élite, estremamente ristrette, nulla sfugge. La realtà è completamente nelle loro mani e queste mani sono in grado di plasmarla a proprio uso e consumo. Il tutto all’interno di una consequenzialità tanto logica quanto razionale. La “volontà di potenza”, sotto qualunque veste si ponga, è intrisa di razionalità programmatica. Tutto l’agire degli Stati Uniti, sulla base dei cicli storici ricostruiti da Qiao, è lì a dimostrarlo. Prima Bretton Woods, poi l’abbandono dell’oro, quindi il petrolio, infine l’alternarsi del dollaro forte e del dollaro debole: la pianificazione razionale dell’élite statunitense ha qualcosa di meraviglioso ma – e qua sembra emergere Spengler e la sua teoria relativa alla decadenza e al tramonto degli imperi e delle “aristocrazie” coeve [8] insieme alla reinterpretazione irrazionalistica del il polemos eracliteo [9] – la lotta per la potenza non conosce tregua. Le élite, nella prospettiva del generale Qiao, sono destinate a combattersi perché ogni élite non può che mirare alla potenza e al dominio. E qui interviene la strategia della casta dominatrice del Celeste Impero.
A dire il vero, a questo punto, il saggio si fa un po’ confuso. Da un lato viene prefigurato lo scontro militare, uno scontro che la Cina sposterebbe sul terreno, dove si considera invincibile, evitando il conflitto marino poiché, sull’acqua, la potenza americana le è ancora troppo superiore. Per altro verso, dopo aver constatato le sempre più frequenti quote di transazioni monetarie internazionali in divise diverse dal dollaro e il conseguente depotenziamento della moneta verde, il che per un’economia che vive principalmente di scambi valutari porta necessariamente al collasso, Qiao prefigura una guerra prevalentemente monetaria. Una guerra per la quale la divisa cinese sarebbe già ampiamente preparata. Infine il generale preconizza una nuova “rivoluzione industriale”, grazie all’impiego della stampante 3D, in grado di produrre un mutamento epocale del sistema di produzione globale al quale gli Stati Uniti, contrariamente alla Cina, non sono preparati. Di una cosa comunque Qiao appare assolutamente certo: la volontà di potenza cinese avrà la meglio. Il momento della Cina è giunto e nonostante questa convinzione essa non trascura di offrire un ramoscello d’ulivo agli Stati Uniti proponendo più che la guerra, una spartizione paritaria della potenza. Sia come sia, l’élite cinese, questo Qiao non lo cela minimamente, è consapevole della sua forza ed è del tutto intenzionata a farne valere il peso.
Sulla scia di quanto ascoltato la cosa più facile da fare, ma anche la più inutile, sarebbe quella di rimproverare al generale la totale rimozione del marxismo. Indubbiamente nel suo discorso non fa capolino neppure un grammo di marxismo. La lotta di classe come motore del divenire storico non è neppure presa in considerazione, così come le contraddizioni del modo di produzione capitalista, ossia la caduta tendenziale del saggio di profitto e la conseguente difficoltà a realizzare i processi di valorizzazione del capitale, non fanno palesemente parte del bagaglio teorico analitico del nostro generale. Se la lotta di classe e la teoria del valore gli rimangono estranei, non meno ignota è l’analisi leniniana dell’imperialismo. Non il conflitto in sé ma il tipo di conflitto proprio della fase imperialista risulta estraneo quanto indifferente. Ma, una volta riconosciuto ciò, ha senso focalizzare l’attenzione sull’assenza della teoria marxista tra gli strateghi dell’esercito cinese? Solo perchè il generale è un membro autorevole del PCC dovremmo mostrare stupore e spaesamento di fronte alla sua “visione del mondo”? Non sappiamo forse da tempo che, anche a rivoluzione avvenuta, la borghesia può ricostituirsi come classe dominante all’interno del partito rivoluzionario? Non sappiamo forse da tempo che, dentro la lunga fase di transizione, la possibilità per la controrivoluzione di riorganizzarsi e vincere, proprio all’interno del partito rivoluzionario, è qualcosa di assolutamente possibile? Non è forse noto che la conquista del potere politico è condizione necessaria ma non sufficiente per l’affermarsi della rivoluzione proletaria? [10] Perché stupirsi, allora, che in Cina la borghesia abbia ripreso il controllo della situazione e attui il suo dominio sfruttando l’apparato politico che si è conquistata? Non ha più senso, pertanto, fare i conti con la “visione del mondo” di questa classe dominante piuttosto che rimproverarle di non assumere il punto di vista della classe a lei mortalmente nemica, ossia degli operai e dei proletari?
A essere veramente interessante, pertanto, è ciò che c’è, non quanto manca. Se nel testo di Qiao non vi è nulla di marxista, altrettanto assente è una qualche forma di nazionalismo. A differenza di quanto possiamo cogliere in Russia, dove il tratto nazionale della borghesia raccolta intorno a Putin è quanto mai evidente, nelle argomentazioni del generale vi è ben poco di quelle retoriche proprie della borghesia nazionale. Perciò più che di classe, sembra sensato parlare di élite: del resto, in Cina, la tradizione confuciana ha fornito qualcosa di più che qualche semplice suggestione alla messa in forma della “visione del mondo” dell’attuale gruppo di potere [11]. In tutto il discorso di Qiao non si fa mai riferimento alla Nazione e al popolo. Lo stesso modo in cui è trattato e pensato l’esercito, che pure in Cina è ancora un esercito di massa, appare più vicino al modo in cui Federico II [12] percepiva le proprie truppe piuttosto che al modello napoleonico. Ciò che va riconosciuto a Qiao è la sincerità del suo testo. Questo è scritto per una casta, per un’aristocrazia che osserva il mondo come classe dominatrice e parla e si contrappone ai dominatori suoi simili. Tutto ciò consente di entrare nel vivo della questione. Il punto di vista dell’élite cinese, come si proverà ad argomentare, ha ben poco di particolare ma rappresenta l’articolazione “locale” di una Weltanschauung globale che molto ha a che vedere con quanto accade nei nostri mondi.
Ne La distruzione della ragione, un libro tanto noto quanto scomodo, Lukács [13] analizza, attraverso argomentazioni al limite del dotto, le “visioni del mondo” che hanno portato le classi dominanti dall’abiura della Grande rivoluzione, sino all’affermazione dell’ideologia fascista e nazionalsocialista. Questo testo, o almeno una sua corposa parte, sembra assumere oggi un’attualità non secondaria. Ci riferiamo, in particolare, alle argomentazioni lukacsiane relative al mondo della filosofia e della sociologia prima dell’affermazione a tutto tondo del nazionalsocialismo. In altre parole tutta la trattazione che va da Nietzsche sino a Schmitt passando per Max Weber.
Perché questa parte è così importante e si mostra tanto attuale? Da un lato, e forse oggi questa ne è la parte maggiormente datata, tanto Nietzsche quanto Weber, su Schmitt il discorso è forse più complesso, si pongono il problema di combattere la tendenza storico/politica del socialismo, dell’affermazione del proletariato come classe storico/politica in grado di rivestire i panni dell’universale. In Nietzsche ciò avviene affondando i colpi direttamente contro il movimento organizzato degli operai e dei lavoratori, identificato con la morale dei servi in opposizione alla morale dei signori [14], eludendo qualunque confronto teorico diretto con il marxismo mentre, in Weber, la battaglia è un autentico corpo a corpo con il materialismo storico e dialettico. Non a caso la sua opera maggiormente nota e al contempo più affascinante, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo [15], si pone l’obiettivo strategico di demolire alla base il marxismo e, con questo, la pretesa del movimento operaio di farsi classe dominante. Se tutto si riducesse a ciò, ben poca attualità avrebbero nello scenario odierno le suggestioni dei teorici borghesi che hanno fatto da sfondo agli albori della fase imperialista.
Difficile, infatti, intravvedere oggi una qualche “minaccia” sovietica all’orizzonte. Nell’era presente, per le borghesie imperialiste la partita con il marxismo e il socialismo sembra essere stata risolta una volta per sempre ma non è un caso però, detto per inciso, che questa partita, sotto l’aspetto filosofico/teorico, sia stata condotta attraverso la “riscoperta” di un Nietzsche “sovversivo” e “radicale”. È attraverso Nietzsche prima e Heidegger poi che, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, la cosiddetta intellettualità radicale ha affondato i suoi colpi contro la filosofia della storia marxista. Obiettivo di questa critica era la messa in mora di ogni metanarrazione e l’obiettiva finalizzazione che questa si porta appresso [16]. La Storia, la quale non avrebbe né senso né scopo, non sarebbe altro che il risultato di una conflittualità permanente dove nulla è sicuro e certo. Una critica la cui “radicalità” non si limita a delegittimare l’idea stessa di classe storica ma si spinge ben oltre. Ciò che la nuova “filosofia radicale” aggredisce, reiterando quanto avvenuto ai primi del Novecento, è la stessa società borghese edificata sul modello keynesiano. Sono le certezze e le garanzie proprie di questo modello, che in qualche modo aveva fatto suoi aspetti non secondari della grande narrazione socialdemocratica, a dover essere scompaginate. Le contraddizioni della società keynesiana sono spesso colte dal nuovo pensiero reazionario con non poca arguzia e chiarezza ma la loro risoluzione non è certo intravvista nel socialismo. Ad essere auspicata, invece, è una rivolta, dal sapore vagamente anarchico, contro ogni forma di organizzazione sociale sistemica. Se di anarchia si vuol parlare questa è l’anarchia propria del neoliberismo il quale, a conti fatti, non riconosce altra legge se non quella del conflitto individuale e della ricusazione di ogni forma di interventismo statuale. Nel momento in cui la fase imperialista inizia a mutare pelle ciò che occorre è delegittimare non solo la classe storicamente nemica ma anche i modelli politici, sociali ed economici attraverso i quali, per tutto un ciclo storico, la borghesia, attraverso la costante mediazione con il movimento operaio riformista, ha governato. Il disciplinato e anche un po’ noioso mondo organizzato intorno alle retoriche del Welfare State va posto in archivio. Quella che si presenta come la rivolta contro la “società disciplinare” diventa, tradotta in soldoni, la battaglia contro quell’insieme di garanzie e diritti (dei subalterni) che il modello politico post 1945 aveva tenuto a battesimo in Europa occidentale. Per l’attuale élite imperialista, infatti, in questi anni il nemico è più Keynes che Marx [17]. Degli aspetti distruttivi, ovvero antimarxisti, del pensiero politico e filosofico che ha inaugurato la stagione imperialista vi è ben poco da dire e la stessa borghesia, su ciò, tace da tempo. Molto più interessante e a noi più vicine sono gli aspetti programmatici che caratterizzano l’insieme di queste “filosofie politiche”.
Se guardiamo lo scenario politico attuale osserviamo come la “teoria dell’élite” governi per intero l’insieme degli ordini discorsivi. Questa teoria, andando al sodo, si cristallizza nella ricerca e nell’affermazione della “volontà di potenza”. Una “volontà di potenza” che può essere esercitata senza alcun ausilio da parte delle masse. Nella prima metà del Novecento, in virtù del peso che le masse rivestivano dentro la forma guerra, che proprio in quel contesto conosceva il pieno apogeo del “paradigma industriale” [18], la “teoria delle élite” fu costretta a “democratizzarsi”. La teoria della razza dominatrice, che per Nietzsche e affini non aveva avuto immediatamente tratti etnici e nazionali, dovette allora essere sovrapposta alla categoria di popolo e costretta all’interno di perimetri geografici ben definiti. Questo perché la “volontà di potenza” dell’imperialismo della prima metà del Novecento necessitava della cooptazione della propria popolazione [19]. Per farlo non poteva fare altro che, con un colpo di mano, dichiarare l’intera sua popolazione, o almeno gran parte di questa, ontologicamente appartenente alla nuova razza aristocratica. La “teoria delle élite” si trasformava così nella teoria del volk. Per questo il nazismo fu costretto a scegliere come “filosofo” ufficiale del proprio credo un personaggio goffo e privo di qualunque qualità intellettuale quale H. St. Chamberlain, oltre che a far supportare le proprie tesi da pretesi sociologi quali Gumplowiez, Ratzenhofer o Woltmann.
Benchè il presupposto dell’imperialismo comporti l’obiettiva frattura del binomio Stato – Nazione, aspetto colto con non poca lucidità da teorici politici pur distanti tra loro come Arendt e Lenin [20], sul piano empirico nel corso del Secolo breve ciò non poté essere consumato per intero. Per le sue guerre l’imperialismo novecentesco aveva ancora bisogno della Nazione. In virtù di ciò i subalterni dovevano essere catturati dentro la statualità imperialista. Sotto il profilo teorico/filosofico la rottura, però, era ormai stata posta. Come giustamente evidenzia Lukács, sulla scia di Marx, già con il 1848 la borghesia inizia a perdere i tratti della classe storica progressiva iniziando a rivoltarsi, almeno in gran parte, contro gli “ideali” che l’avevano tenuta a battesimo. L’ostilità contro gli approdi della Grande rivoluzione diventano moneta corrente per gli intellettuali borghesi più “radicali”. Attraverso un movimento graduale ma costante, l’odio per le masse e il loro protagonismo politico e sociale si radicalizza. Le borghesie imperialiste prendono congedo dalle “proprie” popolazioni iniziando ad autorappresentarsi come nuova élite aristocratica. Sotto il profilo della gestione effettiva del potere politico ed economico ciò è del tutto comprensibile.
Lo scritto di Lenin sull’imperialismo ne ha offerto una fotografia nitida e chiara. Nella fase imperialista il potere reale passa tra le mani di un’infima parte della popolazione mondiale. Trust e monopoli finanziari e industriali diventano il vero governo del mondo senza alcun legame con gran parte della popolazione. Da qui il cosmopolitismo delle élite internazionali. La borghesia imperialista, che da tempo ha cessato di coltivare retoriche universalistiche, non può che trovare nell’affermazione di se stessa il senso dell’esistenza. Non stupisce pertanto che l’esercizio a tutto tondo della “volontà di potenza” rappresenti l’orizzonte esistenziale in cui si muove. Per un lungo periodo, in seguito alla Rivoluzione d’Ottobre, tutto ciò è stato costretto a rimanere un sogno nel cassetto. La vittoria riportata dall’URSS contro il nazifascismo, la creazione del “campo socialista”, l’affermazione della rivoluzione in Cina, le lotte di liberazione anticoloniali oltre che la consistente presenza di movimenti comunisti negli stessi paesi imperialisti hanno obbligato le “classi agiate” a porre momentaneamente tra parentesi la propria “visione del mondo”. In particolare, nell’Europa occidentale, le popolazioni hanno continuato a rivestire un ruolo centrale nella vita politica e sociale degli stati tanto che, quel binomio Stato – Nazione mandato storicamente in soffitta dall’era imperialista, ha continuato a essere artificialmente tenuto in vita. Con il crollo dell’Urss e l’avvento del cosiddetto capitalismo globale, per le élite, i conti hanno iniziato finalmente a tornare. La “nuova aristocrazia” si è resa in grado di governare.
Sotto tale aspetto la costituzione del Polo imperialista europeo ne rappresenta una delle migliori esemplificazioni. Una ristretta élite politica, burocratica, economica e finanziaria decide, in completa autonomia, su tutto. Questa “nuova aristocrazia” sembra in grado di fare propri gli “ideali” della “intellettualità radicale” del primo Novecento. Le masse oggi sembrano essere veramente escluse dal gioco politico, nessun volk appare attualmente necessario alla “razza dominatrice”. Questo il volto del “nuovo fascismo”. Paradigmatico, al proposito, è l’avversione che le élite nutrono contro i vecchi arnesi del fascismo novecentesco. La diffusa avversione per ciò che comunemente è chiamato populismo non deve trarre in inganno. La decisa presa di distanza delle élite internazionali contro i movimenti populisti e la destra radicale non sono frutto dell’attaccamento a qualche inossidabile principio democratico. Del resto se c’è qualcuno che ha calpestato sino in fondo la sua stessa democrazia è proprio la borghesia imperialista. L’avversione verso il populismo ha un origine ben diversa. Abbiamo visto come il fascismo e il nazismo abbiano dovuto addomesticare la “filosofia delle élite” sotto la categoria del volk, snaturando, almeno in parte, il tratto aristocratico della razza dei dominatori. Fascismo e nazismo, per affermarsi, hanno poggiato sugli scarponi chiodati del volk. Nonostante la radicale avversione delle élite imperialiste per le masse, in quel frangente di queste non potevano fare a meno. Il completo dominio del capitale finanziario, però, sembra aver emancipato le élite da questo forzoso e forzato passaggio. Un mondo governato per intero dai flussi monetari spostati senza alcun controllo su reti informatiche sembra rendere inutile e superfluo ogni forma “partecipativa”, per quanto alienata, dei subalterni. Ciò che l’era attuale vuole estirpare è la presenza legittima di ogni movimento vagamente popolare. Torniamo all’aforisma di Thatcher: “la società non esiste”. Se questa è la “visione del mondo” delle élite, allora non può esservi spazio neppure per i movimenti di massa reazionari poiché la loro legittimazione politica e sociale non può che essere giocata contro un’altra legittimità politica quella socialista degli operai e dei subalterni. Il fascismo di massa novecentesco ha assunto tali sembianze perché doveva, per prima cosa, contrapporsi alla legittimità operaia e proletaria. Sullo sfondo vi era sempre il protagonismo delle masse. Di tale protagonismo, anche in senso reazionario, le élite di oggi non hanno più bisogno. Certo, come gli eventi dell’Ucraina sono lì a dimostrare, questa linea di condotta strategica non è immune da ripiegamenti tattici. La legge del beduino (il nemico del mio nemico è mio amico) mantiene pur sempre inalterata la sua sensatezza nella guerra imperialista. Per rimuovere la contraddizione principale, in questo caso il peso geopolitico e geostrategico della Russia, è sempre possibile scendere momentaneamente a patti con chiunque. Altra cosa, però, è pensare che le consorterie imperialiste occidentali, le quali per di più coltivano nei confronti dell’Ucraina progetti non omogenei, mirino all’instaurazione di un regime nazionalsocialista in quei territori. Difficile pensare che i potentati occidentali i quali, ognuno per proprio conto, mirano a colonizzare l’Ucraina in un’ottica non troppo diversa da quella dello spazio vitale di hitleriana memoria, auspichino il delinearsi di una forma politica prona alle retoriche belliciste della “Grande Ucraina” o amenità simili. Di ciò, del resto, se ne sono avute più che semplici avvisaglie. Il conflitto, neppure troppo simuluto, apertosi tra le forze liberiste governative e le formazioni neonaziste mostrerebbe come, per le forze politiche filo occidentali, l’impiego delle formazioni neonaziste sia tattico e non strategico. Nella migliore delle ipotesi la destra neonazista ucraina potrà ritagliarsi un qualche spazio dentro l’apparato statuale militare e repressivo ma non potrà certo pensare di farsi modello politico a tutto tondo [21]. Detto ciò torniamo al nostro ragionamento.
Prendiamo le vicende del referendum greco. Con ogni probabilità, in un’altra epoca, le classi dominanti per delegittimare gli esiti della consultazione popolare sarebbero ricorse ad Alba dorata. Di fronte a un movimento di massa progressista avrebbero risposto con un movimento di massa di segno opposto. Come tutti sanno le cose non sono andate così. Per rendere superfluo l’esito di quella consultazione è stato sufficiente una minaccia finanziaria che avrebbe comportato la possibile bancarotta del paese. In un attimo il governo ellenico mostrando ancora una volta, nel caso ve ne fosse bisogno, l’astoricità dell’opzione socialdemocratica, si è allineato sottoscrivendo un accordo ben più oneroso di quello al quale il voto popolare si era opposto. Nessun scarpone chiodato è stato necessario per piegare il governo e il popolo greco. Le élite contemporanee non hanno abbattuto con un colpo di mano la democrazia, l’hanno semplicemente dichiarata estinta.
Detto ciò rimane da domandarsi se l’era delle masse è realmente tramontata, oppure se la linea di condotta della “nuova aristocrazia” non sia altro che un’utopia. In altre parole dobbiamo domandarci se è realmente possibile tenere, in permanenza, le masse fuori dagli assetti politici e sociali. Alcuni indicatori sembrerebbero dire che il sogno ordinativo della nuova aristocrazia ha ben poche chance di realizzo. Soffermiamoci soltanto sulla “questione profughi”. Guerre e povertà, cioè i corollari delle politiche delle élite imperialiste, hanno messo in movimento milioni e milioni di persone. Queste stanno cercando una via di fuga e una possibilità di vita premendo proprio alle frontiere dei propri carnefici. Un esodo che nessun muro e reticolato può fermare. Inevitabilmente tutto ciò comporterà un acuirsi dei conflitti e delle contraddizioni proprio nel cuore del sistema imperialista. Milioni di nuovi proletari saranno presenti nel cuore dell’imperialismo, delineando, con ogni probabilità, una partita del tutto nuova nei rapporti tra le classi. Oggettivamente questo non può che aprire a una nuova fase di conflitto. La crisi sistemica del modo di produzione capitalista, dovuta alla sempre più difficile realizzazione dei processi di valorizzazione, non sembra necessitare di un tale numero di nuova forza lavoro. Per altro verso la presenza di un esercito industriale di riserva è utile e funzionale solo fino a quando i numeri sono tali da poter essere giocati dentro la “normale” concorrenza, finché possono essere tenuti sotto controllo. Quando, però, questi numeri superano il limite funzionale, il rischio che il banco salti, come ricordano i trenta milioni di disoccupati creati dalla crisi del ’29, è qualcosa di più che una semplice ipotesi di scuola. Una eccedenza cronica di forza lavoro non può essere veicolo di alcuna stabilità politica e sociale e nessuna “visione del mondo” aristocratica può esorcizzare, per decreto, le ricadute di una situazione così esplosiva. Allo stesso tempo un costante impoverimento di gran parte della popolazione non è foriero di stabilità né sul piano sociale, né su quello economico. Un’inflazione che oscilla tra lo zero e il ricorso all’algebra non è certo sintomo di salute e robustezza economica. Il tutto, come si è ricordato sopra, senza dimenticare che, all’origine di gran parte di queste migrazioni di massa, vi sono le guerre diffuse dal conflitto interimperialistico in gran parte del mondo. Conflitti che tendono ormai a diventare, Siria e Ucraina ne sono qualcosa di più che un semplice sintomo, guerre di massa in tutto e per tutto. Tutte le élite, in questa partita mortale, vi sono dentro sino al collo.
In potenza, quindi, più che di fronte a un nuovo ordine mondiale, dove da Pechino a New York, passando per Londra, Parigi e Berlino le élite possono giocare, in tutta tranquillità, le loro partite a scacchi per affermare la propria “volontà di potenza”, sembra delinearsi lo scenario di un caos globale all’interno del quale, le masse, non possono che tornare ad assumere un non secondario protagonismo. Con ogni probabilità, ancora una volta, la teoria pura della “nuova aristocrazia” sembra destinata a naufragare di fronte alla forza delle cose così come, non diversamente che dal passato, il limite concettuale della borghesia rimane quello di cogliere il divenire solo post festum [22], cioè a cose fatte. Tanto nel ’14 come nel ’39 le borghesie imperialiste diedero il via a conflitti dei quali non avevano minimamente idea. Allo stesso modo nel 1929 e nel 2008 sono precipitate in una crisi della quale non avevano minimamente sentore. In quanto classe parziale la borghesia non può che navigare a vista comprendendo e interpretando i fatti storici solo dopo il loro accadimento. A fronte di tutto ciò sembra lecito sostenere che una nuova “questione delle masse” è destinata a porsi. Il modo in cui questa questione potrà essere politicamente messa in forma è la sfida che la teoria marxista deve essere in grado, nuovamente, di raccogliere.
Note
[1] Qiao Liang, “La grande strategia cinese”, in Limes, n7, 2015
[2] E. V. Tarle, Napoleone, Editori Riuniti, Roma 1964
[3] Cfr. A. Mathiez, G. Lefebvre, La rivoluzione francese, Einaudi, Torino 1979
[4] M. Heiddeger, “La questione della tecnica”, in Id., Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976; E. Jünger, L’operaio, Guanda, Parma 2004
[5] Cfr., I. Berlin, Le radici del romanticismo, Adelphi, Milano 2001
[6] In particolare, S. Zweig, Il mondo di ieri, Mondadori, Milano 1994
[7]Paradigmatico, al proposito, M. Heiddeger, L’autoaffermazione dell’università tedesca, Il melangolo, Genova 1988 ma si vedano anche, Id., Scritti politici (1933 1966),Piemme, Casal Monferrato (Al) 1998
[8] O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, Longanesi, Milano 2008
[9] Cfr., M. Heidegger, E. Fink, Eraclito, Laterza, Roma 2010
[10] Cfr., V. I. Lenin, Stato e rivoluzione, Editori Riuniti, Roma 1963; Id., La rivoluzione proletaria e il rinnegato, Kautsky Editori Riuniti, Roma 1969
[11] Cfr., M. Weber, Sociologia delle religioni, Utet, Torino 1976
[12] Cfr., G. E. Rusconi, Clausewitz il prussiano, Einaudi, Torino 1999
[13] G. Lukács, La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959
[14] F. Nietzsche, Genealogia della morale, Adelphi, Milano 1984
[15] M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Rizzoli, Milano 1991
[16] Cfr., G. Vattimo, P. A. Rovatti, Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1983
[17] M. Foucault, Nascita della biopolitica, Feltrinelli, Milano 2005
[18] Cfr., R. Smith, L’arte della guerra nel mondo contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2009
[19] Cfr., G.L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse, Il Mulino, Bologna 1975
[20] H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano 1996; V. I. Lenin, L’imperialismo fase suprema del capitalismo, Editori Riuniti, Roma 1969
[21] Cfr. L’Ucraina tra noi e Putin, Limes, n4, 2014
[22] F. Engels, K. Marx, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1967