Emilio Quadrelli e Giulia Bausano | Lenin, Lenin sempre Lenin. Introduzione a “Classe, partito, guerra”
Emilio Quadrelli e Giulia Bausano, Lenin, Lenin sempre Lenin. Introduzione a Classe partito, guerra, 2014, PDF
Il proletariato non ha altra arma che l’organizzazione nella lotta per il potere.
(V. I. Lenin, Un passo avanti due indietro)
Nell’editoriale Musica d’avanguardia del 30 luglio 2014, il Collettivo Militant constatava con non poca amarezza come, di fronte al massacro sionista perpetuato nei confronti della popolazione palestinese di Gaza e del golpe neonazista in atto in Ucraina, nel nostro Paese le mobilitazioni di solidarietà al fianco di queste popolazioni non abbiano potuto vantare iniziative di una qualche consistenza. Le retrovie dell’imperialismo, per usare un lessico forse un po’ datato, sembrano essere sostanzialmente sicure. Neppure a livello simbolico il complesso militare – industriale imperialista è stato sfiorato, le sue sedi economiche e commerciali sono rimaste intonse, mentre il personale politico – diplomatico e le sue strutture non sono stati vittime di alcuna contestazione.
I tempi del Vietnam appaiono distanti anni luce. A conti fatti, nel nostro Paese, i più attivi e incisivi sostenitori della lotta del popolo palestinese e della popolazione del Donbass si sono mostrati due gruppi musicali le 99 Posse per quanto riguarda la Palestina, la Banda Bassotti per quanto concerne gli antifascisti ucraini. La presenza attiva di queste due band al fianco delle resistenze popolari, in una condizione di normalità politica, avrebbe dovuto e potuto essere la classica ciliegina sulla torta mentre, nell’asfittico panorama politico nostrano, le due formazioni musicali sono diventate la torta tout court. Succede così che, a loro, sia destinato il compito tanto di cantare quanto di portare la croce. Di ciliegine, quindi, meglio non parlare. Molto realisticamente occorre riconoscere che, nel nostro Paese, il livello politico dei vari movimenti antagonisti e delle diverse reti comuniste è ben al di sotto del minimo sindacale. Nonostante i loro numeri siano tutt’altro che esigui, la loro capacità di essere forza politica effettiva si discosta ben poco dallo zero. In poche parole non sono tanto le persone che mancano bensì una “linea di condotta” in grado di utilizzare in chiave rivoluzionaria quell’attivismo diffuso e frammentato continuamente in movimento, i cui risultati, a conti fatti, non vanno oltre al classico: tanto rumor, per nulla.
Ciò non è il semplice frutto di una mancanza organizzativa. Pensarlo significherebbe considerare l’organizzazione in maniera astratta e impolitica come se, l’organizzazione politica, fosse il semplice effetto tecnico di una buona sociologia dell’organizzazione. In realtà l’organizzazione politica non può che essere il frutto di una teoria politica dalla quale discenda un progetto strategico frutto, a sua volta, di una comprensione analitica del contesto storico e quindi “concreto”, entro il quale il politico è ascritto. Teoria politica, progetto strategico e analitica del presente sono i nodi intorno ai quali la soggettività politica della fase imperialista globale deve sapersi misurare. Su ciò dobbiamo registrare poco più che un deserto. Il fatto che persino il Papa, il quale senza troppi rigiri di parole, ha bellamente ammesso che la Terza guerra mondiale è già iniziata, riesca a essere analiticamente più avanti dell’antagonismo nostrano racconta qualcosa di non secondario. Per altro verso tutte le Cancellerie internazionali stanno manovrando, avendo grosso modo a mente che l’opzione guerra, ogni giorno che passa, è tutto tranne che una semplice ipotesi di scuola. Tutti i Paesi stanno potenziando i loro apparati bellici mentre, nelle situazioni di conflitto già in corso, ogni potentato imperialista manovra per consolidare le proprie posizioni in vista delle battaglie imminenti. Pur essendo classe storicamente limitata e destinata ad apprendere il divenire della storia solo post festum, la borghesia imperialista pare per lo meno conscia di quanto il baratro sia vicino. In tutto ciò, la grande assente, è la politica comunista. Un’assenza che non è semplicemente riconducibile a un ritardo organizzativo – se così fosse il problema sarebbe grave ma non drammatico – bensì da una sostanziale incomprensione di quanto sta accadendo.
Anni e anni di distruzione sistematica del marxismo e del leninismo hanno fatto sì che, in linea di massima, a venir meno fossero gli strumenti basilari indispensabili alla comprensione della realtà.
L’impasse all’interno del quale ci troviamo ne rappresenta qualcosa di più di una semplice riprova. Per venirne a capo non è sufficiente appellarsi all’oracolo di Isaia. Non possiamo accontentarci della profezia: “Verrà il giorno” ma dobbiamo concentrare tutte le risorse e le energie disponibili per porre, senza indugi, la questione del partito qui e ora. Sappiamo che questa battaglia non è facile e che, per di più, è costretta a essere giocata in piena corsa contro il tempo. Tutto ciò, e la cosa può apparire persino paradossale, in presenza di tensioni e lotte sociali non proprio irrilevanti. Dobbiamo rilevare, cioè, che a fronte di un movimento di lotta spontaneo della classe, per lo più assente risulta essere l’elemento politico cosciente in grado di dare forza, progetto e direzione a quanto, in maniera disordinata e caotica, si muove dentro la società. Crediamo che, quanto avviene, non sia frutto di un qualche disastro naturale bensì di uno tsunami politico dentro il quale siamo ancora bellamente immessi. Questo tsunami è rappresentato dall’insieme di tutte quelle teorie e opzioni politiche che, pur con sfaccettature diverse, hanno egemonizzato l’ordine del discorso politico nel nostro Paese. È giunto il momento di portare a queste teorie un attacco frontale e senza alcuna ambiguità di sorta. Dobbiamo, cioè, avere il coraggio di praticare per intero il settarismo operaio di Lenin contro tutte le varianti opportuniste e riformiste presenti nel campo proletario.
Rinunciare alla battaglia aperta contro tutte queste posizioni significa contribuire a mantenere e amplificare lo stato di impasse e confusione presente. A volte tagliare con l’accetta non è solo giusto ma indispensabile.
Del resto, quanto queste posizioni appartengano apertamente al campo della controrivoluzione, lo si è potuto constatare, per l’ennesima volta, nelle vicende ucraine. La partecipazione e il sostegno degli “ultrasinistri”, dagli autonomi agli anarchici, passando per alcune formazioni trotskiste, agli eventi di Piazza Maidan e la loro radicale avversione all’eroica lotta delle popolazioni delle Repubbliche popolari antifasciste mostrano come non sia proprio il caso di usare, nei loro confronti, il guanto di velluto. Questo non deve stupire più di tanto. Tali aree si erano già distinte in occasione del “caso Libia” quando si erano apertamente schierate dalla parte degli “insorti”, e quindi della Nato, al fine di rimuovere il regime gheddafiano. Alla luce dei fatti ucraini, quella scelta, non è stato frutto di un momentaneo abbaglio ma una “linea di condotta” che, ammantandosi di retoriche estremiste, marcia del tutto allineata alle forze più reazionarie e fasciste della borghesia imperialista. La battaglia a tutto campo contro questi diventa pertanto essenziale. Solo se non si cederà un solo palmo al riformismo e all’opportunismo – da qui la necessità di un attacco frontale alle retoriche “ultrasinistre” che corrono dietro a qualsiasi movimento si ammanti di ribellismo, evitando consapevolmente qualsiasi analisi di classe dei movimenti sociali, così come qualsiasi ragionamento sul contesto concreto dello scontro imperialista – sarà possibile staccare da queste tutta quella parte di proletariato, soprattutto giovanile, caduto preda dell’estremismo parolaio e delle sue pratiche avventuriste e inconcludenti. Solo una chiarezza teorica e analitica, non diversa e distante dal settarismo operaio leniniano, potrà consentire di separare il grano dal loglio, mentre una pratica prona alla mediazione tatticista diventa oggettivamente rafforzativa dell’opportunismo e delle sue molteplici articolazioni. Detto ciò passiamo direttamente alla polemica concreta.
In questi anni, unire le lotte, unire i territori, è stata una delle retoriche maggiormente presenti all’interno del variegato mondo antagonista. Un programma apparentemente pieno di realismo e buon senso il quale, alla prova dei fatti, ha mostrato di essere tanto irrealistico quanto fuorviante. Eppure il senso comune direbbe il contrario ma è esattamente contro le retoriche di senso comune che occorre battersi poiché, queste, non sono retoriche neutre, oggettive bensì il frutto di un modello di pensiero, quello della borghesia, penetrato e sedimentatosi in campo proletario. La questione, in apparenza d’ordine prettamente pratico, a uno sguardo un poco più attento chiama in causa qualcosa di ben altro tenore e spessore, qualcosa che, senza alcun eccesso, potremmo tranquillamente ascrivere all’ambito dell’epistemologia. Cosa indica, a conti fatti, l’asserzione che il compito della politica deve limitarsi a unire e a porre in collegamento le lotte? Molte cose ma, soprattutto, che il generale non è altro che la somma di tanti particolari. Per altro verso potremmo dire che, secondo tale costruzione teorica, l’astratto, dimensione propria del generale, si riduce all’insieme dei tanti concreti, alla manifestazione propria del particolare. Il generale quindi sarebbe già risolto nel particolare poiché, a conti fatti, questo non sarebbe altro che una parte del tutto. Ecco che, dietro a un apparente discorso di senso comune, si delinea un’ intera concezione epistemica. Ciò che appare come frutto di un bisogno pratico persino banale cela una visione del mondo che, al pari di tutte le visioni del mondo, ha ben poco di neutro e oggettivo ma rimanda a un determinato punto di vista particolare o, per non lasciare addito a malintesi di sorta, al particolare punto di vista di una classe piuttosto che di un’altra. Da questo sfondo teorico molte cose ne conseguono. In particolare, ciò che assumendo tale ipotesi salta immediatamente agli occhi, è l’assoluta eguaglianza e importanza che ogni fronte di lotta assume. Del resto, in un mondo ridotto a somma di particolari, tutto ciò diventa tanto ovvio quanto scontato, ma non solo. Assumendo per intero tale linea di condotta non potremmo che approdare alla facile constatazione che la natura stessa delle lotte, la loro qualità e la loro dimensione diventano in fondo inessenziale. In altre parole ad essersi affermata è la trita e ritrita retorica riformista e opportunista: il movimento è tutto, il fine è nulla. Su tale scia tutto diventa politico, senza distinzioni di sorta. A venire meno, in prima istanza, è la suddivisione tra lotta politica e lotta economica o ancora tra lotta politica e lotta sociale. A diventare essenziale e centrale è la lotta in quanto tale. Tralasciando, almeno per il momento, di affrontare teoricamente simile impostazione, assumiamola per buona e osserviamo dove ci conduce. Si potrebbe anche dire “tutto bene, lavoriamo per la realizzazione di detto obiettivo”: rimane da capire però il motivo per cui, nella realtà, le lotte rimangono divise, frammentate, separate e tutto raccontano tranne che di andare in direzione dell’unità. Alla prova dei fatti, ciò che il mondo reale ci racconta, e qui sì che occorre una buona dose di empirismo e pragmatismo, è che le retoriche di senso comune sono ben distanti dal comprendere nel suo insieme la realtà poiché, questa, è ben più articolata, complessa e meno lineare di quanto, a prima vista, possa apparire. Di fronte alla complessità del mondo, alla fine, il buon senso degli empiristi e dei pragmatici è costretto alla bancarotta così come, di fronte alle rotture che scandiscono il divenire della storia, gli evoluzionisti non possono far altro che ritirarsi dietro i loro tendaggi.
Lotta economica, lotta sociale e lotta politica non solo rimandano a mondi e campi non spontaneamente collegabili tra loro ma, all’interno dello stesso ambito, ogni lotta marcia o ripiega per proprio conto. Di più. Persino all’interno dello stesso comparto la lotta degli uni trova difficilmente assonanza, comunanza e solidarietà con i propri “coinquilini” di classe. Ciò lo abbiamo verificato abbondantemente, tanto per citare esempi entro i quali siamo stati presenti, a Genova quando, nel momento in cui gli operai Amt sono entrati in lotta, i loro colleghi nazionali non sono andati oltre a qualche attestato di solidarietà. Sempre a Genova, in questi ultimi mesi, abbiamo assistito a diverse lotte e vertenze operaie. Quella degli operai Piaggio, dei lavoratori della Esaote, degli operai della Ratto, delle operaie delle mense ospedaliere del Gaslini, degli operai Ilva e l’elenco sarebbe ancora lungo. Nessuna di queste si è unita alle altre, nessuna è entrata minimamente in relazione e comunicazione. Che dire, poi, dell’agghiacciante silenzio calato sopra le lotte dei braccianti agricoli immigrati le quali non hanno trovato alcun sbocco organizzativo, neppure tra i propri fratelli di classe e di razza? O ancora della lotta condotta in solitudine che quasi ogni giorno viene condotta all’interno dei vari CIE e CARA? Le lotte sicuramente esistono ma, dati alla mano, rimangono circoscritte a loro stesse.
Come dire: ogni lotta per sé e dio per tutti. Passando dalle lotte operaie a questioni di natura più prettamente politica, lo scenario non cambia. Di fronte agli effetti del golpe consumato in Ucraina, le mobilitazioni hanno interessato alcuni ambiti dell’immigrazione ucraina, lasciando nella più completa indifferenza tutto il resto. Uno scenario che si è puntualmente ripetuto nel momento in cui, di fronte all’attacco israeliano a Gaza, si sono prodotti alcuni momenti di mobilitazione. In quel caso si sono mossi i palestinesi e una parte del mondo arabo, mentre tutto il resto è rimasto a guardare. Nonostante una serie di affinità non secondarie, una condizione di guerra palesemente imposta da forze reazionarie e fasciste accomunata per di più dallo scempio verso le popolazioni civili, un ucraino non riesce a comprendere che cosa lo leghi alla Palestina così come, per il mondo arabo quanto avviene in Ucraina è qualcosa di assolutamente diverso e distante dal dramma che si consuma a Gaza. A conti fatti neppure la guerra e i suoi lutti è in grado di assolvere spontaneamente a una qualche forma di unificazione politica. A fronte di tutto ciò ancora più impensabile diventa ipotizzare che l’operaio Amt consideri la “sua” lotta contro la privatizzazione in qualche modo legata a quella del popolo ucraino, così come poco realistico appare ipotizzare che gli operai dell’Ilva considerino la Resistenza palestinese in qualche modo affine alla loro battaglia. Lo scenario non muta se dalle lotte di fabbrica ci spostiamo dentro i territori. Prendiamo la lotta contro la Tav, perché sicuramente si tratta del movimento non solo quantitativamente più rilevante ma anche quello che si è mostrato maggiormente combattivo e radicale. Anche in questo caso, eppure si tratta di gente che lotta abitualmente contro forze militari e poliziesche, non si è dato alcun legame spontaneo con l’Ucraina e la Palestina così come, nei confronti delle numerose lotte operaie, vi è stato un sostanziale silenzio. Per altro verso, lotte sicuramente importanti come quelle per la casa, non sono state in grado di generalizzarsi.
Non esiste, all’oggi, un movimento per la casa organizzato su scala nazionale ma tante vertenze locali. Difficile, quindi, ipotizzare che, per proprio conto, un fronte di lotta che non riesce neppure a unire i consimili, possa legare la lotta del popolo ucraino, con gli operai dell’Amt, la resistenza palestinese con gli operai dell’Ilva o con i facchini dell’Ikea.
Potremmo andare avanti ore con simili esempi. Il succo del discorso non cambierebbe.
Ma, a conti fatti, tutto ciò è poi così strano e incomprensibile? Tutto ciò è forse il semplice effetto di una qualche ottusità dei vari soggetti sociali o invece, più realisticamente, i vari soggetti sociali e le loro lotte arrivano dove obiettivamente la loro condizione particolare li ascrive? In virtù di quale alchimia l’occupante di una casa a Roma dovrebbe sentirsi parte della causa ucraina? Per quale motivo l’operaio Amt in lotta contro le privatizzazioni dovrebbe trovare, in maniera ovvia e lineare, una qualche affinità con i partigiani palestinesi? Ma ancora.
Quale linearità lega il combattente No Tav alle lotte dei lavoratori Ikea? Per quale ragione lo stesso combattente palestinese dovrebbe sentirsi compartecipe della lotta condotta dagli operai dell’Ilva? Si dirà: perché, pur a modo loro, tutte queste lotte sono rivolte contro il medesimo nemico.
Risposta che contiene certamente più che un grano di sensatezza ma che, per essere data, presuppone una visione complessiva, ossia generale e astratta, la cui consapevolezza non può essere immediatamente e spontaneamente pretesa dagli attori sociali in gioco. Per loro natura i diversi soggetti sociali non possono andare oltre a una visione particolare e rimangono ben distanti dal collegare quella loro “particolarità” all’interno di un contesto generale che, per forza di cose, non può che essere concettualizzato all’interno di un’astrazione. Gli operai Amt di Genova, ad esempio, come abbiamo potuto ben constatare, quando sono scesi in lotta non hanno certo individuato nelle logiche del costituente Polo imperialista europeo il mandante delle privatizzazioni ma hanno focalizzato l’attenzione, poiché individuato come vero responsabile del colpo di mano in atto, il sindaco della città e la sua giunta. Ma ciò che è vero per gli operai Amt genovesi non è meno vero per un qualunque ucraino il quale, osservando ciò che gli sta intorno, sarà portato a individuare le responsabilità del golpe nazista e della guerra nella volontà di questo o quel particolare gruppo di potere politico ed economico ma, ben difficilmente, collegherà quanto gli è precipitato addosso a quella oggettiva tendenza alla guerra che la crisi imperialista inevitabilmente si porta appresso. Allo stesso modo, così come l’operaio Amt genovese non individuerà immediatamente nella dittatura operaia lo sbocco della sua lotta, il proletario ucraino alle prese con i bombardamenti non porrà l’alternativa “socialismo o barbarie” come orizzonte immediato della sua drammatica condizione.
Tutto ciò dovrebbe essere talmente ovvio e scontato da risultare oltre che noioso, particolarmente pedante da ripetere. In realtà non è così poiché, come tutto ciò che ci contorna è lì a testimoniare, tale ordine discorsivo appare ignoto e incomprensibile ai più.
Nonostante i molti decenni trascorsi – a riprova di come, in politica, possano cambiare le forme contingenti ma non le argomentazioni di fondo – sembra di essere del tutto interni alle dispute presenti sullo sfondo del dibattito dei socialdemocratici russi dei primi anni del Novecento, quando si aprì in maniera irreparabile il conflitto tra bolscevichi e menscevichi. Chi, oggi, si prende la briga di leggere o rileggere il Che fare? e Un passo avanti e due indietro “scoprirà” come tutti i problemi che ci troviamo ad affrontare nel presente non siano altro che la reiterazione di tendenze, programmi e teorie che affondano le loro radici nell’intera storia del movimento operaio e comunista. Non è stata né la post modernità, né la globalizzazione o altro ancora a far nascere e crescere determinate tendenze e ipotesi politiche ma, queste, sono sempre state presenti dentro le organizzazioni operaie e comuniste. L’esaltazione della spontaneità, l’equiparazione di lotta economica e lotta politica, la miopia analitica prima e politico – organizzativa poi, nei confronti della tendenza alla guerra, non sono certo delle novità così come la sottovalutazione del reale portato delle svolte politiche decisioniste e la conseguente arrendevolezza nei confronti del fascismo e del nazismo non sono stati gli effetti di una catastrofe naturale ma l’esatta conseguenza di teorie e linee politiche le quali, oggettivamente, non facevano altro che riprodurre dentro il movimento di classe modelli propri della borghesia.
La penetrazione delle teorie e delle pratiche borghesi in campo proletario, per quanto diversamente articolate e argomentate, hanno sempre trovato un comune punto di unione: l’attacco sistematico alle logiche del partito rivoluzionario. Da destra, ma ancor più da sinistra, le forze borghesi in campo proletario hanno scientemente sabotato la costruzione prima e il rafforzamento poi del partito rivoluzionario. Rifiuto della centralizzazione e della specializzazione, orizzontalismo, democratismo spicciolo, negazione della disciplina, esaltazione del localismo, “libertà di critica”, identificazione di lotta politica e lotta economica, sovrapposizione della organizzazione politica con l’organizzazione di sindacale ecc., non sono novità ma il reiterarsi delle logiche riformiste e opportuniste con le quali, sin dai suoi albori, il movimento comunista è stato costretto a misurarsi e a combattere. Dietro l’apparente, ma inconcludente e fallimentare, buon senso di unire le lotte, unire i territori non troviamo altro che la reiterazione di un discorso che di innovativo ha veramente nulla. Ciò che, a conti fatti, tale retorica nega è la funzione del partito politico come elemento guida della lotta politica. Ecco, alla fine della favola qual’è l’obiettivo che i cultori della spontaneità, dell’orizzontalismo, dell’organizzazione dal basso, ecc. coltivano.
Nessuna lotta si è unita ma, nel frattempo, ogni ipotesi di unificazione politica dentro la forma partito è stata inibita e sabotata.
Tutto ciò, con il precipitare della crisi, sta abbandonando la forma della schermaglia teorica per farsi lotta aperta dentro la prassi politica. La battaglia per il partito si pone qua e ora senza rimandi possibili. Le accelerazioni della crisi, ben distante, come riconosce la stessa borghesia imperialista, da trovare una qualche pur relativa forma di stabilizzazione fanno sì che i venti di guerra ogni giorno diventino sempre più simili a un uragano. L’impossibilità per il Capitale di trovare nuove vie di valorizzazione lo conduce inevitabilmente dentro il vicolo cieco del conflitto militare. Non per caso l’acutizzarsi della guerra monetaria e commerciale vede l’accentuarsi degli scontri militari e la messa in stato dì allerta di sempre più numerose unità militari. Con ogni probabilità siamo agli inizi di una nuova grande trasformazione dettata dai tempi, i ritmi e gli esiti del conflitto bellico. Sappiamo che, realisticamente, di fronte all’attacco del Capitale le forze di classe, sul momento, potranno fare ben poco. È destino del proletariato giocare di rimessa. Non possiamo pensare alla controffensiva ora, ma preparare la ripartenza sì. Una ripartenza efficace ed efficiente non la si improvvisa. Perché questa possa essere portata a termine occorre che, il centro campo governi la ritirata, neutralizzi con la massima flessibilità l’irruenza del devastante attacco della squadra avversaria, consolidi e renda inespugnabili le difese, lanci le punte all’offensiva quando il nemico ha perso l’ardore e lo slancio del primo momento. Fino ad allora deve sfiancarlo, obbligandolo a consumare, per ogni metro di campo conquistato, il maggior numero di risorse atletiche. Ciò che nel calcio è proprio del centro campo in politica è per intero patrimonio del partito. In assenza di questa macchina bellica per le classi sociali subalterne non vi è possibilità di sorta. In questa direzione, nella battaglia per il partito, si collocano i testi che seguono. Una raccolta di scritti, compresi tra il 2012 e i primi del 2014, che provano ad affrontare quelli che, a nostro avviso, sono i nodi con i quali una soggettività politica all’altezza dei tempi è obbligata a misurarsi. Il libro si divide in tre sezioni, classe, partito, guerra nelle quali sono raccolti complessivamente tredici articoli, cinque nella prima e quattro per ciascuna delle rimanenti, più una quarta, formata da un solo saggio dove si è cercato di arrivare a una sintesi dell’insieme dei problemi affrontati nelle sezioni precedenti. Il saggio che apre la sezione “classe”, affronta le trasformazioni che la fase imperialista globale ha comportato per la condizione di classe. Centrali, a nostro avviso, sono diventati i processi di esclusione e marginalizzazione in cui vengono a trovarsi ascritte le classi subalterne, con la conseguente crisi e messa in mora di tutte quelle forme di rappresentanza politica proprie della storia Novecentesca. Un passaggio che riporta alla mente la condizione operaia e proletaria propria dei mondi coloniali dove, contrariamente a quanto sedimentatosi nel corso del Novecento all’interno del cosiddetto Primo Mondo, il rapporto tra borghesia e subalterni era segnato da una relazione di potere tipicamente asimmetrica. Proprio intorno al rapporto asimmetrico tra le classi il testo prova a ragionare, legando tale relazione alla concretizzazione della forma guerra, o almeno di uno dei suoi aspetti non secondari, emersi nel momento in cui il “crollo del Muro” ha ridisegnato complessivamente i volti di Marte.
Il secondo saggio, molto sinteticamente, mostra il senso normativo che la forma – CIE viene ad assumere nei modelli politici contemporanei. Proprio intorno alla forma – campo si concretizza quel rimpatrio del “modello coloniale” che, a nostro avviso, informa per intero la fase imperialista globale tanto da sovvertire alla radice il paradigma foucaultiano (far vivere e lasciar morire) che ha caratterizzato i nostri mondi per tutta un’arcata storica. In questo senso la forma – campo agisce come vero e proprio stato d’eccezione con tutte le conseguenze che ciò comporta.
Nel terzo testo si è affrontato, sulla scia delle argomentazioni presenti nei primi due, le trasformazioni che la fase imperialista globale ha comportato per i territori operai e popolari. Attraverso un breve excursus si sono descritti i passaggi che hanno reso la periferia metropolitana da “città operaia” socialmente e politicamente legittimata a territorio del nulla. Si è cercato di analizzare le trasformazioni strutturali che hanno consentito di ascrivere le periferie all’ambito della marginalità e del degrado, deprivandole di rappresentanza politica. Significativo, al proposito, è stato osservare come, a differenza del passato, gli istituti riformisti del movimento operaio abbiano abbandonato le periferie diventate sempre più, sotto il profilo politico, “terre di nessuno”. In tale passaggio abbiamo individuato il concretizzarsi della fine di quel “patto socialdemocratico” che aveva fatto da sfondo, sulla scia delle politiche economiche e sociali keynesiane, alle relazioni tra le classi per tutta un’arcata storica. A partire da ciò si è provato a individuare le possibilità concrete di una pratica comunista dentro gli attuali territori proletari e la necessità di costruire un modello di rappresentanza politica e sociale in un contesto politico segnato sostanzialmente da un rapporto tra le classi di natura asimmetrica. In particolare si è cercato di ipotizzare i modelli di lotta e organizzazione possibili in fabbrica e nei territori a partire dai rapporti di forza che, diverse condizioni, sono in grado di offrire. Ci è sembrato, infatti, del tutto fuorviante contrapporre organizzazione di fabbrica a organizzazione territoriale poiché, a nostro avviso, la questione non si pone in termini di aut – aut, bensì di et – et. Là dove, come nel caso delle aziende Partecipate o delle residuali ma ben presenti concentrazioni operaie, l’organizzazione sul luogo di lavoro è ancora in grado di esercitare, se messa in forma e diretta da una forza politica, un non secondario esercizio di potere operaio, sarebbe folle non concentrare forze ed energie in quella direzione. Tuttavia, questo non può e non deve essere un dogma. In gran parte dei luoghi di lavoro il clima di terrore e di debolezza oggettiva in cui versa la forza lavoro rende sicuramente aleatorio la realizzazione di tale passaggio; perciò è in tale contesto che l’organizzazione operaia deve ramificarsi e rafforzarsi sul territorio. Ciò che va ricercata è la dialettica tra fabbrica e territorio avendo sempre a mente che, ogni lotta deve essere finalizzata a disarticolare il potere dell’imperialismo e a rafforzare gli embrioni del potere proletario.
Il terzo e quarto saggio affrontano la questione del cosiddetto populismo. Nel primo l’attenzione è focalizzata soprattutto sul fenomeno “forconi”, mentre, nel secondo, abbiamo provato ad analizzare la condizione di crisi che fa da sfondo all’irrompere del fenomeno “populista”.
I due testi sono logicamente legati tra loro nel senso che, nel primo, a essere analizzata è una forma empirica assunta dal cosiddetto populismo, mentre nella seconda è la forma generale all’interno della quale le retoriche populiste trovano consensi e legittimazione. In particolare ci è parso utile, alla luce delle esperienze storiche degli anni Venti e Trenta del Novecento, comprendere, per potervi intervenire, le logiche che consentono al populismo di destra di fare breccia tra le masse subalterne. Sulla scia di quella che è stata l’esperienza della Terza Internazionale, e in particolare di Dimitrov ma anche di Togliatti, ciò che ci pare indispensabile è la messa a punto di una “linea di condotta” in grado di sottrarre settori proletari e subalterni alle retoriche demagogiche proprie dei nuovi movimenti della destra radicale. Per questo siamo convinti che i semplici anatemi non bastino. È sul terreno degli obiettivi di classe che si combatte la nuova destra la quale, aspetto che è sempre bene ricordare, non si presenta mai al popolo come semplice guardiano del Capitale ma come rappresentante degli interessi operai e popolari. In fine, ma non per ultimo, abbiamo dedicato un certo spazio ad analizzare i passaggi decisionisti che caratterizzano la fase politica attuale e, con questi, quello che può essere definito “il populismo delle classi dominanti”. Ci è sembrato infatti che la pratica populista non sia semplice appannaggio dei nuovi raggruppamenti della destra radicale ma di tutta la sfera politica. In questo senso abbiamo individuato, per quanto riguarda la politica interna del nostro Paese, in Matteo Renzi il populista per eccellenza e in Giorgio Napolitano il Custode della Costituzione garante e artefice delle trasformazioni “populiste” e autoritarie del presente.
La seconda sezione, dedicata alla questione del partito, ossia alla questione della costruzione di una soggettività comunista in grado di organizzare la classe su obiettivi di potere, è composta da quattro articoli, tutti scritti in occasione di alcune manifestazioni nazionali che hanno posto concretamente la questione dell’organizzazione di classe nel dibattito dell’arcipelago di forze che compongono la sinistra comunista e anticapitalista del nostro Paese. Il primo articolo – partendo dall’analisi di due contributi di segno opposti, il primo di Cremaschi, il secondo del collettivo Militant, scritti a commento della manifestazione del No Monty Day – cerca di delineare i contorni della questione del partito, prendendo le mosse dall’analisi della composizione di classe attuale. All’interno di questa, vengono individuati due segmenti principali, il primo legato ancora alle relazioni industriali novecentesche, il secondo ascritto alla nuova composizione internazionale propria della fase globale del capitalismo. Ciò che si prova ad argomentare, è come il ragionamento per la costruzione del partito debba focalizzarsi sull’individuazione e l’anticipazione della tendenza in atto a livello materiale: quale dei due segmenti di classe rappresenta la tendenza in via di realizzazione dell’attuale fase del capitalismo, quale dei due segmenti è il prodotto del modello di accumulazione capitalista attuale e in virtù di ciò può essere capace di mettere in moto l’assalto al cielo? Tuttavia, nel testo, viene anche sottolineato come al momento ci troviamo in una fase di transizione, in cui il nuovo sta nascendo e il vecchio detiene, almeno sotto il profilo quantitativo, una certa rilevanza. Un’organizzazione che voglia rappresentare la classe deve essere in grado di tenere conto concretamente di questa dialettica, cioè trovare una sintesi che unifichi, tenendo insieme “le due figure”, entrambe presenti nella composizione di classe odierna. Il secondo articolo, nasce come risposta ad alcuni commenti seguiti al primo e come approfondimento di alcuni spunti di riflessione in esso solo abbozzati. Il testo prova a definire in cosa consista la forma partito nei suoi tratti universali e non storicizzabili, sottolineando come tali tratti debbano sempre fare i conti con la realtà concreta in cui il partito deve essere costruito. Esattamente sulla situazione storicamente determinata nella quale le avanguardie comuniste sono, oggi, chiamate a costruire il partito si prova a ragionare e lo si fa cercando di rispondere a due gruppi di domande: Dove ci troviamo e chi siamo?, Verso dove vogliamo andare e insieme a chi possiamo camminare?. Rispetto al primo insieme di quesiti, centrale risulta la questione del superamento della forma dello Stato-Nazione e della costruzione di un polo imperialista Continentale e su questi passaggi si prova a ragionare. Quanto al secondo insieme di domande, a essere posto e analizzato è il problema delle alleanze di classe e dei possibili fronti da costruire, approdando alla conclusione della necessità di ridare autonomia alla classe proletaria, intesa nella sua composizione immediatamente internazionale, a partire dalla rimessa al centro del discorso della lotta per il potere politico.
A questa prima coppia di articoli, all’interno della sezione sul partito, ne segue un’altra composta da due testi, scritti subito prima e subito dopo le due manifestazioni nazionali del 18 e 19 ottobre 2013. In questi contributi, molti dei temi discussi nei precedenti articoli, sono ripresi e osservati nel contesto concreto e nelle dinamiche reali manifestatesi intorno alle due date autunnali del 18 e 19, le quali hanno rappresentato il tentativo concreto di dare corpo a un blocco sociale antagonista unitario, non riuscendo però, contemporaneamente, a mettere in forma un discorso concreto e chiaro sull’organizzazione politica necessaria a tale blocco sociale per marciare, ottenere delle vittorie e crescere. I nodi centrali su cui vertono gli articoli sono il rapporto tra partito e classe, le opportunità offerte alle avanguardie comuniste dall’oggettivo tramonto del patto socialdemocratico e delle forze a questo legate, le esperienze e le forme di lotta da valorizzare e provare a centralizzare nel contesto attuale, dove la fase globale del capitalismo, facendo saltare i confini tra Primo e terzo Mondo, vede la messa in forma di modelli neocoloniali di sfruttamento e controllo delle classi subalterne anche all’interno dei territori occidentali.
La terza sezione, con un nesso evidente che la lega alle precedenti, è interamente dedicata alla questione guerra. Gli articoli sono tutti legati alle vicende siriane ma, non per questo, possono considerarsi inattuali.
Questo non solo perché, in ogni caso, la “questione Siria” è ancora del tutto aperta e attuale bensì perché, contingenze a parte, il quadro generale che abbiamo delineato in questi testi nei mesi successivi ha trovato ampie conferme. Avevamo individuato nella Russia il principale obiettivo della “campagna di Siria” e gli eventi ucraini che sono seguiti ne sono una puntuale conferma. Per altro verso, proprio in merito a quanto stava accadendo in Siria, abbiamo analizzato i comportamenti dei “pro ribelli” e del variegato movimento No War, evidenziandone aporie, contraddizioni e incongruenze. Tutto ciò che, in quel testo, abbiamo anticipato è stato puntualmente e tristemente confermato di fronte agli eventi palestinesi e ucraini. Ma forse, il vero cuore teorico di questi articoli, è rappresentato dall’analisi che abbiamo provato a sviluppare sulla compenetrazione di guerra simmetrica e guerra asimmetrica che proprio in Siria si è iniziata a delineare e che, nei mesi successivi, ha trovato qualcosa di più di una semplice conferma. Se, per tutta una fase – quella che inizia con la Prima Guerra del Golfo del 1991 – ad affermarsi è una forma guerra di tipo asimmetrico dove il nemico, in senso classico, non viene più legittimato, tanto che le forze impegnate nei combattimenti non parlano di guerra ma di operazione di polizia, in Siria questo scenario repentinamente si modifica. Il coinvolgimento diretto della Russia e in parte della Cina obbligano la guerra a rimodellarsi nella sua forma tradizionale: lo scontro tra potenze che si riconoscono in una reciproca relazione di inimicizia politica. Accanto alla guerra asimmetrica si ripresenta l’aspetto simmetrico della guerra con tutto ciò che questo necessariamente si porta appresso. La guerra simmetrica non può che rimandare a una forma guerra all’interno della quale la sua conduzione è strettamente legata al grado di consenso che le classi subalterne nutrono nei confronti delle proprie classi dominanti. Per morire per Damasco o, più verosimilmente, per Kiev occorre che le classi sociali subalterne si sentano, attraverso una serie di atti al contempo formali e materiali, politicamente incluse all’interno di quella forma statuale che chiama le masse al combattimento e alla mobilitazione generale. Uno scenario di difficile attuazione, in un contesto in cui, da tempo, la principale guerra che le borghesie imperialiste conducono è proprio contro le proprie classi sociali subalterne.
Qua, a nostro avviso, sembra delinearsi una delle principali contraddizioni dell’attuale fase imperialista. Dentro questa contraddizione le forze comuniste debbono e possono lavorare per spezzare la macchina bellica imperialista.
Con l’ultimo saggio, che costituisce una sezione a se stante, abbiamo cercato di sintetizzare l’insieme delle questioni separatamente affrontate nelle singole parti. Partendo dalle trasformazioni intervenute all’interno della forma guerra e dalla loro applicazione nello scenario paradigmatico della Val Susa, abbiamo analizzato il significato politico che queste comportano. Abbiamo osservato cioè come, dentro tale cornice, il contenitore dello Stato – Nazione sia andato bellamente in frantumi e come i confini abbiano cessato di avere quella funzione inclusiva che, lo Stato – Nazione, riservava alle “proprie” popolazioni. Da qui tutte le ricadute che, questo passaggio, comporta per la condizione delle classi sociali subalterne nei confronti delle quali la borghesia imperialista mette in atto, con forme e intensità diverse, una guerra in permanenza.
Guerra condotta attraverso le stesse pratiche e retoriche delle operazioni di polizia internazionale, ossia attraverso la svalutazione del nemico nei confronti del quale la dimensione propria del politico è bandita. Tutto ciò è osservato e analizzato in maniera, almeno a nostro avviso, particolareggiata ed esauriente. La guerra, quindi, come cifra del presente.
Una guerra che informa per intero tutta la formazione economica e sociale del mondo contemporaneo e che, per forza di cose, deve diventare l’orizzonte teorico e politico di ogni movimento che abbia come suo concreto obiettivo l’abolizione dello stato di cose presente. Ed è esattamente qua che il testo si misura, senza remore di sorta, con tutte quelle ipotesi, il postoperaismo e le sue derive in primis, presenti ed egemoni all’interno del variegato e frammentato mondo del movimento antagonista. L’ultimo testo chiarisce, in maniera articolata, quanto sinteticamente esposto nella parte iniziale di questa introduzione. Una polemica dura e impietosa, della quale ci assumiamo interamente la responsabilità. Con ciò, pur con tutta la modestia del caso, speriamo di aver posto un piccolo tassello verso la costruzione della soggettività politica. “Verrà l’alba”, certamente ma non è con l’attesa che possiamo pensare di vederla sorgere. Il partito è opera di ingegneria politica, non di profezia.
Al fine di non appesantire il volume si è deciso di omettere, se non là dove assolutamente necessarie poiché legate a una contestualizzazione del testo, note esplicative e bibliografiche per altro verso, vista la complessità e la densità dei saggi, abbiamo ritenuto opportuno fornire al lettore una bibliografia ampia e speriamo in gran parte esaustiva in modo da orientarlo negli indubbi approfondimenti di cui i testi necessitano.
Giulia Bausano
Emilio Quadrelli