Antiper | Gunther Anders alla manifestazione del primo maggio contro Expo
Gunther Anders è stato un filosofo dalle posizioni decisamente radicali. Le sue idee sulle forme di lotta necessarie per impedire la corsa dell’uomo verso l’auto-distruzione nucleare erano molto precise: se si vuole fermare la rovina non sono le cose che devono essere colpite, ma le persone che di questa rovina sono responsabili. In un suo breve scritto ebbe a dire:
“4. Non vale la pena di minacciare i prodotti, giacché in essi è comunque già innata la “pulsione di morte”. Fino ad ora non ho assolutamente preso in considerazione il fatto che la distruzione dei prodotti (non solo quelli del nemico, ma anche i propri) rientra negli interessi del capitalismo, dato che tale distruzione è la condizione per la continuazione della produzione (la quale a sua volta richiede di essere prodotta). In breve, non ho considerato il fatto che tutti i prodotti (ammesso che con uno scherzo filosofico ci sia consentito attribuire loro una vita psichica) “desiderano” avere una vita tanto breve, quanto quella dei beni di consumo, e cioè di non esistere affatto; e dunque che la loro “pulsione di morte”, la loro speranza di sparire rapidamente, i loro impulsi tendenti verso quel fine rappresentano l’”inclinazione fondamentale” che agisce all’interno del sistema capitalistico.
Se si riflette su questo, allora si esita a credere alla paura e all’indignazione dei signori dell’industria di fronte al sabotaggio. Al contrario, essi sperano nel sabotaggio, poiché questo in verità non è che una variante della loro planned obsolence (obsolescenza pianificata) una variante in cui la distruzione, che solitamente essi stessi preparano (appunto attraverso la premeditata fabbricazione della scarsa resistenza di questi prodotti), viene affidata ad altre persone: ossia a quelli che loro stessi assumono con l’etichetta di “facinorosi”” [1].
Dunque, minacciare le cose, spaccare le vetrine, dare fuoco alle auto e ai cassonetti, non serve a molto sul piano concreto.
Si può tuttavia dire che serve sul piano simbolico per porre all’attenzione del maggior numero di persone una certa questione. Ma è questa l’esperienza che abbiamo avuto negli ultimi decenni? Di cosa si parla, in genere, dopo una “manifestazione militante”, dei contenuti della manifestazione o del suo carattere militante, ovvero delle azioni contro i bancomat, le vetrine, i muri…? E’ abbastanza evidente, si parla soprattutto degli scontri. C’è chi afferma che i “casseurs” sono prezzolati e c’è chi afferma, dopo un po’ di cassonetti bruciati, che siamo pronti per chissà quale rilancio di chissà quale movimento o fase… La forma della lotta prevale sul suo contenuto. E ogni volta che questo accade si è fatto un passo indietro.verso il feticismo delle forme di lotta – ovvero quel meccanismo che ci mostra le forme e ci nasconde i contenuti – che in definitiva è l’unico contenuto di chi non ha nulla da dire. La forma della lotta (e la lotta stessa) non è più semplice mezzo, ma diventa fine.
E’ del resto normale che il potere, detenendo i mezzi per la produzione materiale, spirituale, idologica… possegga anche i mezzi per la produzione simbolica e, in ogni caso, possegga i mezzi per deformare agli occhi di milioni di persone il messaggio simbolico che intendiamo portare con le manifestazioni militanti. Senza contare che ai “casseurs” (che poi sono un universo molto composito e non certo un blocco monolitico) forse non interessa affatto evidenziare i contenuti di una manifestazione che probabilmente neppure condividono.
Possiamo allora domandarci se si tratti di una forma di situazionismo, di spettacolarismo. Ma non è ancora sufficientemente chiaro che la logica dell’evento spettacolare non è che un momento della società dello spettacolo, e niente affatto una sua critica? Siamo forse a digiuno di eventi spettacolari in un mondo in cui si trovano facilmente su Internet le immagini di persone che mozzano la testa ad altre persone? E’ difficile essere più spettacolari dell’Isis, oggi come oggi.
Ovviamente che la società dello spettacolo produca “bisogno di spettacolarizzazione” e anche “bisogno di salire sul palcoscenico” è tutto sommato normale. Ma proprio per questo c’è il rischio che anche le manifestazioni più radicali dal punto di vista estetico, anche gli eventi più spettacolari, finiscano per restare oggettivamente interni alla logica di riproduzione del sistema.
Offrire l’opportunità a migliaia di ragazzi pieni di energia di scaricare la propria rabbia in momenti del tutto “estetici” sostanzialmente privi di prospettiva (che non sia il semplice aumento dell’entropia o la semplice riproposizione nostalgica dei rituali militanti dell’autonomia degli anni ’70, sperando magari che questo alluda alla riproposizione di tutto lo schema degli anni ’70 – cortei-servizi d’ordine-lotta rivoluzionaria – per avere dunque una “seconda chance” per vendicare la sconfitta politica, la diserzione di massa, il pentitismo dilagante, il ritorno a casa…) non è esattamente il contrario che incanalare quella rabbia verso la costruzione di un nuovo discorso rivoluzionario di cui manchiamo da troppo tempo e che sappia collocare le forme di lotta al posto che meritano, ovvero nella sfera della tattica?
La manifestazione di Roma contro Salvini è stata una manifestazione di massa e pacifica, ma non ha prodotto nulla. Quella di Milano del primo maggio contro Expo è stata di massa e militante e non produrrà nulla comunque. Tutte le manifestazioni di questi anni (a cominciare da quelle di Napoli e di Genova nel 2001), anche quelle che si sono presentate come “fiammate di piazza”, non hanno prodotto nulla se non una quantità infinita di discorsi su sé stesse.
Forse, semplicemente, è arrivato il tempo di smetterla di sognare ad occhi aperti che una qualche manifestazione possa essere il veicolo della rinascita del movimento di lotta rivoluzionario (e, peggio ancora, che esso possa essere la semplice somma algebrica di “lotte” per la casa, per il lavoro, per l’ambiente, per la difesa del territorio…).
Chi ancora è in attesa di Piazza Statuto e del congresso di rifondazione di “Potere Operaio 2 – la vendetta” sappia che quello schema non tornerà; chi vive nel passato non ha nulla da dirci in merito al futuro, ci fa solo perdere tempo. E perdere tempo, in un’Europa che corre verso la mobilitazione reazionaria, è quanto di peggio si possa fare.
Note
1. Gunther Anders, La resistenza atomica, Titolo originale: Gewalt-ja oder nein. Eine notwendige Diskussion; Knaur Verlag, Munchen, 1987