Daniel Zamora | Michel Foucault: liberalismo e critica
Nel dicembre scorso Daniel Zamora, un giovane studioso belga, ha rilasciato un’intervista al settimanale francese «Ballast» dal titolo ambiguamente provocatorio “Peut-on critiquer Foucault?”. L’intervista, concessa in occasione dell’uscita del volume – a cura dello stesso Daniel Zamora – Critiquer Foucault. Les années 1980 et la tentation néolibérale (Aden Editions, 2014) e tradotta poi in inglese qui dalla rivista Jacobin, ha originato un vivace dibattito (qui un riepilogo) che ha avuto risonanza anche Oltreoceano (qui e qui)
C’è un grande equivoco di fondo nel dibattito contemporaneo attorno alla figura di Foucault. Si tratta della sua storicizzazione e canonizzazione all’interno di una tradizione di pensiero sezionata in categorie predeterminate, dalla quale discende la crescente volontà filologico-esegetica dei sempre più numerosi foucaultiani sparsi per il mondo, o – a contrario – la critica serrata a singoli passaggi e interpretazioni testuali, magari relativi all’antichità. Zamora si innesta su questo terreno scivoloso con una “vecchia” innovazione, più affine all’intervento militante contemporaneo che all’analisi a distanza: la critica del portato politico e della ricaduta sociale all’interno di una cornice ideologica ben circoscritta. All’apparenza distanti, queste due strategie riposano su un medesimo presupposto: il passaggio dal lavoro con i testi e il pensiero di Foucault al lavoro sui testi e il pensiero stessi.
Proponiamo di seguito l’intervista concessa da Daniel Zamora, cui seguirà nelle prossime settimane una nota critica (a cura di Giacomo Tagliani e Antonio Iannello) che vuole essere anche un invito ad aprire sul nostro blog uno spazio di discussione sul pensiero di Michel Foucault in merito alle sue analisi dei dispositivi, delle pratiche storiche, i discorsi, le razionalità politiche che hanno contribuito alla nascita e al consolidamento di quella forma economica, politica sociale e militare che ha preso il nome di Stato liberale in Europa occidentale.
La traduzione italiana dell’intervista è a cura di Martina Battaglia.
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1. Veyne nota che il pensiero di Foucault e la sua persona erano inclassificabili politicamente e filosoficamente. «Non credeva né a Marx, né a Freud, né alla rivoluzione né a Mao, sogghignava in privato dei buoni sentimenti progressisti e non ho conosciuto una sua posizione di principio su problemi più vasti, terzo mondo, società dei consumi, capitalismo, imperialismo americano» Tu scrivi che è sempre stato «un passo avanti rispetto ai suoi contemporanei», cioè?
Diciamo che si può difficilmente togliere a Foucault il fatto di aver messo in luce problematiche che erano chiaramente ignorate, addirittura messe da parte dagli intellettuali dominanti della sua epoca. In particolare la tradizione marxista che si è occupata solo tardivamente di quello che sta ai margini del mondo del salariato [le salariat]. Dalla psichiatria alla prigione o alla sessualità, i suoi lavori hanno chiaramente posto l’attenzione su temi «impensati» nel campo intellettuale. Sicuramente egli si inserisce in un’epoca, un contesto sociale molto più ampio e non sarà il solo a lavorare su questi temi. Queste problematiche emergono un po’ ovunque e sono il campo d’azione di importanti movimenti sociali e politici. In Italia, per esempio, il movimento anti-psichiatrico iniziato da Basaglia non ha atteso Foucault per rimettere in causa i manicomi e formulare nuove proposte politiche per rimpiazzare questa istituzione. Foucault non è dunque all’origine di tutti questi movimenti – e non l’ha mai preteso – ma ha chiaramente aperto la strada a numerosi storici e ricercatori che hanno lavorato su nuove problematiche e nuovi territori ancora poco esplorati. Ci ha insegnato a mettere in questione politicamente i temi che sembravano «al di là» di ogni sospetto. Mi ricordo ancora della sua famosa intervista con Chomsky quando dichiarava che il vero compito politico ai suoi occhi era quello di criticare le istituzioni «apparentemente neutre e indipendenti» e attaccarle «in modo tale che la violenza politica che si esercitava oscuramente in esse venisse smascherata1». Se io provo talvolta dei dubbi sulla natura delle sue critiche – ci torneremo – rimane che questa era una sfida più che innovatrice e stimolante.
2. Foucault compatibile con neoliberismo. Il suo libro farà digrignare i denti agli ambienti radicali dove normalmente Foucault ha il ruolo del Profeta.
Lo spero! E’ un po’ lo scopo del libro. Volevo chiaramente rompere con l’immagine fin troppo consensuale di un Foucault in opposizione completa al neoliberismo durante l’ultimo periodo della sua vita. Da questo punto di vista io penso che le interpretazioni tradizionali di questi ultimi lavori siano erronee o quantomeno evitino una parte del problema. E’ diventato una sorta di figura intoccabile in una parte della sinistra radicale. Le critiche nei suoi confronti sono piuttosto timide. Questo accecamento è tanto più sorprendente che io stesso mi sono sorpreso dell’indulgenza di Foucault nei confronti del neoliberismo quando mi sono immerso nei testi.
Non è solo il suo corso al Collège France che pone la questione (Nascita della biopolitica) ma numerosi articoli e interviste che sono molto accessibili. Foucault era molto attratto dal liberismo economico. In effetti, egli vi vedeva la possibilità di una forma di governamentalità molto meno normativa e autoritaria rispetto alla sinistra socialista e comunista che egli trovava completamente superata. Egli vede nel neoliberismo una politica «molto meno burocratica» e «molto meno disciplinarista» di quelle proposta dallo Stato sociale del dopo guerra. Egli sembra immaginare un neoliberismo che non proietta i suoi modelli antropologici sugli individui e che offre loro una autonomia maggiore di fronte allo Stato. Foucault sembra allora, fine degli anni ’70, avvicinarsi intellettualmente a questa «seconda sinistra», corrente minoritaria ma intellettualmente influente del socialismo francese. Ci troveremo anche una figura come Pierre Rosenvalon, di cui Foucault apprezza i lavori, parimenti sedotto da questo anti-statalismo e questa volontà di «destatalizzare la società francese». Anche Colin Gordon, uno dei principali traduttori e commentatori di Foucault nel mondo anglosassone, non esita a dichiarare di vedere in Foucault una sorta di precursore della terza via di Blair, che inseriva nel corpus social-democratico alcuni elementi della strategia neoliberista.
Questa constatazione è particolarmente importante se vogliamo comprendere i cambiamenti del post ’68. La maggior parte delle opere consacrate alla svolta conservatrice degli anni ’80 sono state articolate intorno all’idea del «tradimento». In fondo, erano di sinistra, poi hanno cambiato casacca per «opportunismo». E’ una lettura sommaria e completamente scorretta dal mio punto di vista. Studiando seriamente l’analisi di Foucault – ma anche di molti altri – a cavallo degli anni ’80, si capisce subito che il loro «gauchisme» o le loro critiche vertevano essenzialmente su tutto quello che aveva incarnato la sinistra del dopo guerra. Lo stato sociale, i partiti, i sindacati, il movimento operaio organizzato, il razionalismo, la lotta contro le disuguaglianze. In fondo, al di là di Foucault, non penso che questi intellettuali abbiano «cambiato casacca». Erano predisposti, per le loro critiche e per il loro odio nei confronti della sinistra classica ad abbracciare l’opinione neo liberale. Da questo punto di vista diviene molto meno straordinario che François Ewald, assistente di Foucault al Collège de France, sia divenuto consigliere del MEDEF [Mouvement des entreprises de France] pur continuando a richiamarsi all’eredità di Foucault.
3. Tuttavia, non si tratta di un pamphlet grossolano, un processo di inquisizione. Tu sei il primo a riconoscere le qualità della sua opera.
Evidentemente è così! Io sono affascinato dal personaggio e dalla sua opera. Questa è, ai miei occhi, preziosa. Io ho d’altra parte enormemente apprezzato l’opera recentemente pubblicata da Geoffroy de Lagasnerie su «La dernière leçon de Michel Foucault». Questo lavoro è in sostanza agli antipodi del mio perché vede in Foucault una volontà di utilizzare il neo liberalismo per reinventare la sinistra. Il nostro punto di vista è invece che Foucault abbia considerato il neo liberalismo come qualcosa di più che un semplice strumento, egli sembra piuttosto adottare il punto di vista neoliberale per criticare la sinistra.
Ciononostante, Lagasnerie sottolinea un punto che è, a mio modo di vedere, essenziale e che è il cuore di numerosi problemi interni alla sinistra critica. Egli sostiene che Foucault sia uno dei primi a prendere realmente sul serio i testi neoliberali e a leggerli rigorosamente. Prima di lui, la produzione intellettuale di questi autori era largamente screditata e percepita come semplice propaganda. Per Lagasnerie, Foucault ha distrutto la barriera simbolica eretta dalla sinistra intellettuale contro la tradizione neoliberale. Chiusa in un settarismo tipico del mondo accademico, non esisteva una lettura stimolante che prendesse in considerazione le tesi di Hayek, Becker o Friedman. Su questo non si può che dare ragione a Lagasnerie, Foucault ci ha permesso di comprendere questi autori, di leggerli e di scoprire in essi un pensiero complesso e stimolante. Su questo piano io lo condivido totalmente. E’ innegabile che Foucault ha sempre avuto cura di interrogarsi su ambiti teorici dagli orizzonti molto differenti e di mettere costantemente in discussione le proprie idee. La sinistra intellettuale non è purtroppo mai riuscita a fare altrettanto. Essa resta spesso chiusa in un atteggiamento «di scuola», rifiutando a priori di considerare o di discutere con le idee e le correnti che non partono dai suoi stessi presupposti. E’ un atteggiamento davvero spiacevole. Essa si trova troppo spesso in un «sé» intellettuale totalmente staccato dal mondo reale. Fondamentalmente ci si ritrova con delle persone che non hanno quasi mai letto i lavori e gli argomenti dei padri intellettuali dell’ideologia politica che vogliono combattere. La loro conoscenza di questi lavori si riduce spesso a qualche luogo comune molto riduttivo.
4. Nel tuo testo, tu contesti la sua visione della sicurezza sociale e della redistribuzione delle ricchezze: puoi parlarcene?
E’ una questione quasi inesplorata dall’immensa produzione dei foucaultiani. A dire il vero io stesso non pensavo di lavorare a tale questione quando ho immaginato il progetto del libro. Il mio interesse per la sicurezza sociale non era inizialmente legato direttamente a Foucault. Le mie ricerche su tale questione mi avevano portato a interrogarmi sul modo in cui si è passati, nel corso degli ultimi 40 anni, da una politica che mirava a lottare contro le disuguaglianze, ancorata nella sicurezza sociale, a una politica che mira a combattere la povertà, sempre più organizzata intorno ai budget specifici e calibrata su obiettivi pubblici. Ora, passando da un obiettivo all’altro, è l’intera concezione della giustizia sociale che ne viene trasformata. E’ molto differente lavorare contro le disuguaglianze (e volere ridurre i divari assoluti) o lottare contro la povertà (e volere offrire un minimo vitale ai più poveri). Ma per portare a compimento a questa piccola rivoluzione è stato necessario un lungo lavoro di delegittimazione della sicurezza sociale e delle istituzioni legate al salariato. Ed è percorrendo con attenzione le pagine dell’«ultimo» Foucault, fine degli anni ’70 e inizio degli anni ’80, che mi è apparso chiaro come egli abbia preso pienamente parte a questa operazione. Egli rimette in causa non solo la sicurezza sociale ma è anche sedotto dall’alternativa dell’imposta negativa proposta da Friedman in questa epoca.
Dal suo punto di vista, i meccanismi di assistenza e di assicurazione, che egli mette sullo stesso piano della prigione, delle caserme e delle scuole, sono istituzioni indispensabili «per l’esercizio del potere nelle società moderne». E’ inoltre interessante notare che nell’opera centrale di Ewald, non solo dedicata a Foucault ma in gran parte redatta sotto la sua direzione, Ewald non ha esitato a scrivere che lo «stato sociale realizza il sogno del bio-potere»! Proprio così! Visti i troppi difetti che comporterebbe il sistema classico di sicurezza sociale Foucault sembra allora interessato al progetto di sostituirlo con un sistema di imposta negativa. L’idea è relativamente semplice, consiste nell’offerta da parte dello stato di un sussidio a tutti coloro che si trovano al di sotto di un certo livello di reddito. L’obiettivo è di fare in modo, senza grandi sforzi amministrativi, che nessuno possa trovarsi al di sotto di un livello minimo di reddito. In Francia è attraverso l’opera di Lionel Stoléru, Vaincre la pauvreté dans les pays riches, che questo dibattito appare nel 1974. E’ interessante notare che Foucault stesso ha, a più riprese, incontrato Stoléru quando questi era consigliere tecnico al gabinetto di Giscard D’Estaing. Un argomento importante attraversa la sua opera e ha direttamente attirato l’attenzione di Foucault Nello stesso modo di Friedman, egli fa una differenza tra una politica che cerca l’uguaglianza (socialismo) e una che vuole semplicemente sopprimere la povertà senza rimettere in causa le differenze (liberalismo). Per lui, cito, «le dottrine possono portare sia a una politica volta ad eliminare la povertà, sia a una politica che cerca di limitare il divario tra ricchi e poveri»2 . Si tratta della frontiera tra «povertà assoluta e povertà relativa»3. La prima rinvia semplicemente a un livello determinato arbitrariamente (al quale l’imposta negativa di indirizza) e l’altra ai divari generali tra gli individui (a cui si indirizzano la sicurezza sociale e o lo stato sociale). Agli occhi di Stoléru «l’economia di mercato è capace di assimilare le azioni di lotta contro la povertà assoluta» ma «è incapace di assimilare dei rimedi troppo forti contro la povertà relativa»4. Ecco perché, argomenta, «io credo che la distinzione tra povertà assoluta e povertà relativa sia di fatto la distinzione tra capitalismo e socialismo»5. La posta in gioco nel passaggio dall’una all’altra è dunque una questione politica: accettazione del capitalismo come forma politica dominante o no.
Da questo punto di vista, l’entusiasmo appena celato con cui Foucault parla della posizione di Stoléru fa parte di un movimento più ampio che procede di pari passo con il declino della filosofia egalitarista della sicurezza sociale a vantaggio di una lotta liberale contro la povertà.
Per quanto possa sembrare sorprendente, questa lotta, lungi dall’aver limitato gli effetti delle politiche neoliberali, ha in realtà operato in favore della loro egemonia politica. Detto questo, non dovrebbe sembrare strano vedere i più ricchi al mondo come Bill Gates e Georges Soros impegnarsi in questa lotta alla povertà nel mondo continuando a difendere senza contraddizione apparente la liberalizzazione dei sevizi pubblici, la distruzione di tutti i meccanismi di redistribuzione della ricchezza e le «virtù» del neo liberalismo. Lottare contro la povertà permette di includere le questioni sociali nell’agenda politica senza tuttavia dovere lottare contro le disuguaglianze e i meccanismi strutturali che le producono. Questa evoluzione ha dunque pienamente accompagnato il neoliberismo e Foucault ha la sua parte di responsabilità in questa deriva.
5. La questione dello Stato è sempre presente nell’opera. Chi critica la sua esistenza sarebbe un liberale: questo comporta dimenticare la tradizione anarchica, anti-stato, e anche quella marxista. Engels e Marx parlavano di una sua «scomparsa» e Lenin ha teorizzato la sua riduzione. Non hai ignorato questa dimensione?
Non penso. Mi sembra che la critica della tradizione marxista o di quella anarchica siano molto differenti da quella formulata da Foucault e da una parte non trascurabile del marxismo degli anni ’70. Prima di tutto per la semplice ragione che tutti questi autori non conoscevano la sicurezza sociale e la forma che avrebbe assunto lo stato dopo il 1945. Lo stato al quale si indirizza Lenin è effettivamente lo stato della classe dominante, in cui gli operai non godono di alcun diritto reale. Il diritto di voto, per esempio, viene reso universale – per gli uomini – solo nel periodo tra le due guerre. E’ dunque difficile sapere cosa avrebbero pensato di queste istituzioni e del loro carattere «borghese». Io sono sempre stato molto contrariato da questa idea abbastanza diffusa nella sinistra radicale per cui la sicurezza sociale sarebbe fondamentalmente uno strumento di controllo sociale da parte del grande capitale. Questa idea manifesta una ignoranza totale della storia e delle origini dei nostri sistemi di protezione sociale. Essi non sono stati instaurati dalla borghesia per controllare il popolo. Queste istituzioni, frutto di una posizione di forza del movimento operaio all’indomani della liberazione, sono state inventate dal movimento operaio stesso. Nel 19° secolo gli operai e i sindacati avevano, per esempio, costituito le casse di mutuo soccorso per versare dei sussidi a chi fosse stato impossibilitato a lavorare. E’ dunque la logica stessa del mercato e le enormi incertezze che essa fa pesare sulle vite degli operai che hanno spinto questi ultimi a sviluppare dei meccanismi che permettessero di socializzare una parte dei loro redditi. Da questo punto di vista, se con l’industrializzazione solo i proprietari potevano dirsi pienamente cittadini, è – come sottolinea Robert Castel – con la sicurezza sociale che ha avuto luogo la «riabilitazione sociale dei non proprietari». Essa instaura quindi, a fianco della proprietà privata, una proprietà sociale destinata a fare realmente entrare nella cittadinanza le classi popolari. Questa idea è quella che difendeva Polanyi ne La grande trasformazione, vedendo in ogni principio della protezione sociale l’obiettivo di svincolare l’individuo dalle leggi del mercato e dunque di riconfigurare i rapporti di forza tra capitale e lavoro. Si può certamente criticare la gestione statale della sicurezza sociale e dire, per esempio, che sono dei collettivi che la dovrebbero amministrare-anche se io non ci credo molto ma criticare lo strumento e i suoi fondamenti ideologici in quanto tali è molto differente… . Quando Foucault arriva a dire che è «chiaro che non ha alcun senso parlare di diritto alla salute» e si domanda se «una società deve cercare di soddisfare con degli strumenti collettivi il bisogno di salute degli individui» e «se è giusto e legittimo che gli individui rivendichino un diritto alla soddisfazione di questi bisogni» non si è più nel registro anarchico.
Quello che dobbiamo fare, è approfondire le esperienze che abbiamo già, partire dal «già» come dice Friot. E la sicurezza sociale è un formidabile strumento che noi dobbiamo sia difendere che conoscere meglio. Così, quando ho letto su Libération, un dibattito intitolato «noi diciamo Rivoluzione» della filosofa Beatriz Preciado in cui è scritto «noi non piangeremo per la fine dello stato sociale, perché lo stato sociale era anche ospedale psichiatrico, centro di ricovero per handicappati, la prigione, la scuola patriarcale–coloniale–eterocentrata», io dico che il neoliberalismo ha fatto molto di più che trasformare semplicemente la nostra economia. Ha anche profondamente riconfigurato l’immaginario sociale di una certa sinistra libertaria.
6. Se ci rivolgiamo ad alcuni intellettuali che criticano Foucault (pensiamo a Mandosio, Debray, Bricmont, Michéa, Monville o Quinou), si può dire, a grandi linee, che essi gli rimproverano un posizionamento più «societario» [sociétal] che «sociale». Ma focalizzandosi sui «marginali» (gli esclusi, i prigionieri, i folli, gli anormali, le minoranze sessuali ecc.), Foucault non ha permesso di mettere in luce tutte quelle persone fino ad allora ignorate dal marxismo ortodosso-che aveva attenzione solo per i rapporti economici?
Hai completamente ragione. Come ricordavo all’inizio, il suo apporto su questo punto è molto importante e ha chiaramente messo in luce tutta una gamma di oppressioni che erano state invisibili fino a quel momento. Ma il suo metodo non mira unicamente a mettere in luce questi problemi, egli cerca di dare loro una centralità politica che pone una questione. Ai suoi occhi e agli occhi di molti altri in quell’epoca, la classe operaia appariva come «imborghesita» e perfettamente integrata nel sistema. I «privilegi» che avrebbe ottenuto nel dopo guerra l’avrebbero trasformata da agente di cambiamento sociale a freno della rivoluzione. Questa idea è molto diffusa e si trova anche in autori diversi come Marcuse o Gorz. Gorz arriverà addirittura a parlare di una «minoranza privilegiata» riferendosi alla classe operaia.
La fine di questa centralità – che sarebbe il sinonimo della fine della centralità del lavoro – trova allora il suo esito nelle «lotte contro la marginalizzazione», a fianco delle minoranze etniche o sociali. Il sottoproletariato o i «nuovi plebei» per riprendere un termine di Foucault, acquisisce una nuova popolarità ed è ormai visto come un soggetto autenticamente rivoluzionario. Il loro problema non è dunque lo sfruttamento (perché ne sono esclusi) ma il potere e le forme moderne di dominazione. Come scrive Foucault «il XIX secolo si è preoccupato soprattutto delle relazioni tra le grandi strutture economiche e l’apparato statale», adesso sono «i problemi dei piccoli poteri e dei sistemi diffusi di dominazione» che «sono diventati i problemi fondamentali»6.
Al problema dello sfruttamento e della ricchezza si sarebbe allora sostituito quello del «troppo potere», quello del controllo delle condotte e delle forme di potere pastorale moderno. All’alba degli anni ’80, sembra chiaro, per Foucault, che non si tratta più di ridistribuire la ricchezza. Egli non esita allora a scrivere che « si potrebbe dire che abbiamo bisogno di un’economia che non si basi sulla produzione e la distribuzione della ricchezza, ma di una economia che si basi sulle relazioni di potere»7. Si tratta dunque meno di lotte contro il potere in quanto soggetto di «sfruttamento economico» ma piuttosto di lotte contro il potere incarnate dal femminismo, i movimenti studenteschi, le lotte dei detenuti e dei sans papiers.
Il problema non è l’aver messo al centro tutta una serie di dominazioni che erano fino a quel momento relativamente ignorate, ma il fatto che queste sono sempre più teorizzate e pensate al di fuori delle questioni relative allo sfruttamento. Lungi dal tracciare una prospettiva teorica che pensa le relazioni tra questi due problemi, essi sono stati poco a poco, contrapposti, addirittura pensati come in contraddizione.
7. Alcuni gli rimproverano di aver lodato la figura del delinquente, del criminale e del sottoproletariato screditando il lavoratore e l’operaio, ai suoi occhi troppo imborghesito e conservatore. Amselle rintraccia un legame tra questo abbandono del «popolo» e la posizione «eco-bobo [un equivalente potrebbe essere l’uso scorretto ma molto diffuso di radical chic, NdC]» della sinistra di governo (tipo Terra Nova). Che ne pensi?
Il problema ai miei occhi è che questa dequalificazione del mondo operaio ha avuto degli effetti incredibili. Questo approccio pone come priorità del dibattito pubblico l’esclusione sociale dei disoccupati, dei giovani delle banlieues e degli immigrati come principale problema politico. Non è più la disuguaglianza in senso generale che costituisce un problema ma la forma che questa assume per certe categorie sociali. Questa evoluzione sarà il punto di partenza della centralità che sarà assunta – a destra come a sinistra – dagli esclusi e l’idea che ormai la società post industriale si dividerebbe tra quelli che hanno accesso al mercato del lavoro e quelli che ne sono esclusi, spostando l’attenzione dal mondo del lavoro verso l’esclusione, i poveri o la disoccupazione. Il mondo intellettuale accompagna e rinforza questo movimento. Come notavano i sociologi Stéphane Beaud et Michel Pialoux, questo spostamento metterà indirettamente gli operai «dalla parte di quelli che hanno un impiego, dal lato dei privilegiati e dei vantaggi acquisiti»8. Per loro «è così che la questione operaia, pur essendo al centro dei processi di frammentazione sociale, viene relegata al rango di problema secondario e annesso»9.
Questa logica, che ridefinisce da una parte e dall’altra, a sinistra come a destra, la questione sociale attraverso un conflitto tra due fazioni del proletariato piuttosto che tra capitale e lavoro pone alcuni problemi. A destra essa mirerà a limitare i diritti sociali dei «surnuméraires» mobilitando contro di essi gli «attivi» e a sinistra si tratterà di mobilizzare i «surnuméraires» contro l’imborghesimento degli «attivi». Entrambe le parti accettano quindi la centralità delle fazioni escluse dal salario stabile a scapito degli operai. In effetti, ci si può allora chiedere se quando Thatcher oppose l’underclass «assistita e protetta agli inglesi che lavorano», non stesse esprimendo, sotto una forma capovolta la tesi di Foucault o di Gorz.
Questo nuovo assioma della destra neo liberale conservatrice cerca essenzialmente, come nota Serge Halimi, «la ridefinizione della questione sociale in modo che la linea di frattura non opponga più ricchi e poveri, capitale e lavoro, ma due fazioni del proletariato tra loro, da una parte coloro che «non ne possono più di fare degli sforzi» e «la repubblica degli assistiti»10. Se è evidente che il contenuto politico di queste dichiarazioni di destra differisce radicalmente da quelle degli autori della fine degli anni ’70, esse sono tuttavia il presupposto del ruolo oggi assunto dagli «esclusi» che siano considerati come problema o come soluzione, a seconda del punto di vista. In una maniera o nell’altra, per entrambi, sono i «surnuméraires» a essere divenuti il soggetto politico centrale e non più la classe operaia. Come infatti non vedere uno strano paradosso tra la «non classe» di Gorz e l’underclass cara all’idea ultra conservatrice di Murray? Tanto per Gorz che per il neo liberalismo, non è più tanto il fatto di essere sfruttati a porre un problema, ma il rapporto con il lavoro. Gorz vede nei «surnuméraires» un rapporto affrancato dal lavoro e Thatcher vi vede un vizio di pigrizia da combattere. Ma in fondo, queste due versioni funzionano nella stessa logica. Tanto a sinistra che a destra si preferisce considerare il problema dei «surnuméraires», rimpiazzando così le vecchie idee superate e dogmatiche che facevano dello sfruttamento il cuore della critica sociale. Questa transizione contribuirà a ciò che è stato ben descritto da Isabelle Garo: «rimpiazzare lo sfruttamento e la sua critica per una focalizzazione sulla vittima del diritto negato, prigioniero, dissidente, omosessuale, rifugiato ecc.»11. A sinistra come a destra, si ama opporre due fazioni del proletariato che, in seguito alle evoluzioni economiche neo liberali sono entrate in una concorrenza distruttrice.
8. Debray scrive, in Modernes catacombes, che Foucault, la penna ribelle degli emarginati, è diventato un «filosofo ufficiale». Come ti spieghi questo paradosso, con il quale sembri d’accordo? E come spieghi che egli possa sedurre gli ambienti radicali che, affermano e spesso con clamore, di volere superare l’era neoliberale?
E’ una questione molto interessante e alla quale io non ho una risposta esaustiva. Tuttavia io penso che questo fatto sia in gran parte dovuto alla struttura dell’ambiente accademico stesso. Bisogna tornare a Bourdieu e ai preziosi lavori di Louis Pinto per comprendere meglio questa evoluzione.
Non bisogna mai dimenticare che inserirsi in una «scuola» o in una prospettiva teorica di un autore è anche inserirsi in un campo intellettuale dove c’è una lotta importante per avere accesso a posizioni dominanti. In fondo, dirsi marxista nella Francia degli anni ’60 quando il campo accademico è parzialmente dominato da autori che rivendicano tale appartenenza non è la stessa cosa che essere marxista oggi. I concetti e gli autori canonici sono evidentemente degli strumenti intellettuali, ma essi corrispondono ugualmente ad altrettante strategie per inscriversi nel campo e nelle lotte di cui sono l’oggetto. Le congiunture intellettuali sono in parte determinate dal rapporto di forza interno al campo stesso. E mi sembra che i rapporti di forza nel campo accademico siano considerevolmente cambiati a partire dalla fine degli anni ’70 e che , in seguito al declino del marxismo, Foucault vi occupi un ruolo centrale. Io penso che egli offra in realtà una posizione molto comoda permettendo un certo grado di sovversione senza perdere posizioni nel mondo accademico. Richiamarsi a Foucault oggi è relativamente valorizzato e permette spesso ai suoi difensori di essere pubblicati dentro riviste prestigiose, di inserirsi in una larga rete di intellettuali, di pubblicare libri ecc. Lungi dall’essere sovversivo, oggi vaste aree del mondo intellettuale fanno riferimento a Foucault nei loro lavori e gli fanno dire tutto e il suo contrario. Così si può essere consigliere al MEDEF e pubblicare i suoi corsi. Da una parte io direi che egli apre più porte di quelle che chiude. Non si può veramente dire la stessa cosa di Marx ai nostri giorni.
9. Mi dicevi che la tua critica di Foucault può, sfortunatamente, sovrapporsi a quella di persone tradizionalmente ostili a ogni emancipazione. Come valuti questo fatto?
Io penso effettivamente che esista una critica conservatrice di Foucault e più in generale di quello che ha potuto rappresentare il maggio ’68 nella storia sociale francese. Questa critica non è marginale e si ritrova largamente tra i pensatori della destra conservatrice come Zemmour o nel Front National attualmente. Questi soggetti criticano apertamente tutta l’eredità femminista, antirazzista e culturale del maggio ’68, tutto questo restando meno attenti alle devastazioni economiche del neo liberalismo. Un po’ come se ciò che rappresenta un problema fosse il liberalismo politico che ha accompagnato gli anni ’80 e solo un passo indietro rispetto ai cambiamenti sociali possa permettere di fare società. Si sente spesso questo genere di idee secondo cui è la distruzione dei valori familiari o delle forme comunitarie del legame sociale che ha permesso l’espansione del neo liberalismo. Se queste letture hanno certamente una parte di verità esse sono spesso totalmente fantasiose quando propongono un ritorno a modelli di vita più tradizionali.
Alla fine io penso che forse ci stiamo dirigendo verso una configurazione liberal-conservatrice dove la questione non sarà la rimessa in causa del liberalismo economico ma di quello politico. Una sorta di liberalismo molto più autoritario con un ritorno dei valori familiari, di una cultura nazionale e del buon vecchio capitalismo precedente alla globalizzazione.
Tratto da il lavoro culturale
Note
1. Noam Chomsky – Michel Foucault, Raison contre pouvoir, Aden, Bruxelles 2006, p. 53.
2. Lionel Stoléru, Vaincre la pauvreté dans les pays riches, Flammarion, Paris, 1974, p. 237.
3. Ivi, p. 286.
4. Ivi, p. 287.
5. Ivi, p. 286.
6. Michel Foucault, «Michel Foucault. Les réponses du philosophe», novembre 1975, in: Dits et Ecrits I. 19541975, n°163, Gallimard, Paris, 2001, p. 1674.
7. Michel Foucault, «La philosophie analytique de la politique», op.cit., p. 536
8. Stéphane Beaud, Michel Pialoux, Retour sur la condition ouvrière, 10/18, Paris, 2004, p. 424.
9. Ibidem.
10. Serge Halimi, préface à Thomas Frank, Pourquoi les pauvres votent à droite, Agone, Marseille, 2008, p. 19.
11. Isabelle Garo, Foucault, Deleuze, Althusser et Marx, Demopolis, Paris, 2011, p. 70.