Mario Boyer (IRES) | Sintesi di Beverly J. Silver, Le forze del lavoro, Movimenti operai e globalizzazione dal 1870 ai nostri giorni
OSSATURA DELLA RICERCA
Il World Labor Reserch Group, costituito nel 1986 dalla Professoressa statunitense Beverly J. Silver, avvia un progetto di raccolta di dati sui movimenti operai nel mondo a partire dal 1870: il World Labor Group Data Base. Il progetto consiste nella creazione di un archivio storico delle lotte dei movimenti operai connesse ai processi di internazionalizzazione/decentramento produttivo dell’industria tessile e dell’industria dell’automobile, che si sono svolte nel mondo nel periodo che va dal 1870 ai nostri giorni.
Nel 1993 Beverly J. Silver, incaricata presso la John Opkins University, costruisce con la collaborazione di alcuni dottorandi uno schema di concetti comparativi tra settori industriali globali che fa da guida alla raccolta di dati del Gruppo Data Base.
Il Data Base opera con riferimento ad un lungo periodo storico (XIX-XX secolo) e all’area geografica “mondo”. La Ricerca parte dalla premessa metodologica che lavoratori e movimenti operai situati in vari Stati e aree geografiche del mondo sono collegati tra loro dalla divisione internazionale del lavoro su scala mondiale e dai processi politici globali. E’ fondamentale quindi, allo scopo di comprendere le dinamiche dei movimenti operai a partire dal tardo Ottocento, capire – sia nel tempo che nello spazio – i processi che mettono in relazione su scala mondiale i “singoli casi”.
La ricerca storica comparata è durata circa 10 anni. La prima stesura del libro è terminata nel marzo 2001.
Il volume è andato in stampa nella primavera del 2002.
CENNI SULLA NASCITA DEL MOVIMENTO OPERAIO MODERNO
Da fine ’800 alla Grande guerra
Alla metà del XIX secolo si ebbe una grande espansione dell’economia capitalistica mondiale che culminò con la grande depressione degli anni 1873-1896. In quel contesto di cambiamento nacque il movimento operaio moderno nell’Europa occidentale e in Nord America.
Le trasformazioni si fondarono su quattro tipi di soluzioni:
1) la riorganizzazione spaziale;
2) innovazione tecnologica dei processi;
3) innovazione tecnologica di prodotto;
4) la riorganizzazione finanziaria.
La classe operaia crebbe enormemente. La Germania che nel 1850 contava 600.000 lavoratori nelle miniere e nelle manifatture (il 4% del totale) nel 1900 ne aveva 5.7000.000 (il 22% del totale). Negli USA tra il 1840 e il 1870 gli operai del manifatturiero aumentarono di cinque volte.
Le innovazioni tecnologiche di processo, abbassando gli standard di professionalità richiesti, costrinsero masse di operai qualificati ad ingrossare le fila degli operai a bassa qualificazione. Si produsse in quegli anni un’impennata della sindacalizzazione della forza lavoro.
In G. Bretagna dal 1888 al 1892 le iscrizioni al sindacato raddoppiarono trainate dal sindacato dei minatori e da quello dei trasporti. In Francia operai ed artigiani si integrarono in un movimento comune fondato sulla coscienza di classe.
Il quadro generale si caratterizzò in questo modo:
– la maggiore sindacalizzazione e crescita del sindacato avvenne in G. Bretagna;
– la lotta di classe più violenta esplose negli USA;
– le prime esperienze di costruzione di un partito operaio si ebbero in Germania.
La SPD divenne rapidamente il primo partito del paese a seguito dell’abrogazione delle leggi antisocialiste del 1890. La sua base elettorale passò dal 10% del1887 al 23% del 1893.
Il caso tedesco avviò processi analoghi a carattere generale. Nel 1906 i partiti operai erano presenti in ogni paese in fase di industrializzazione. In Germania e Scandinavia erano i primi partiti. La nascita dei partiti operai e i movimenti per il suffragio universale aprirono una sfida politica con il sistema capitalistico mondiale che nei primi del’900 ebbe l’epicentro in Inghilterra.
Per controbilanciare l’allargamento del suffragio furono adottate varie misure per garantire sicurezza di potere alla classe egemone (pratica dei brogli; limitazione dei poteri costituzionali degli organi ad elezione diretta). E. Hobsbawn 1987.
La risposta politica alla grande depressione di fine ottocento fu, per così dire, la socializzazione dello stato. Tutti i paesi misero in atto politiche di protezione dei cittadini dalle crisi causate dall’autoregolamentazione del mercato.
La prima a intraprendere questa linea fu la Germania. La richiesta di protezione proveniva da tutto lo spettro della società, classi agrarie, borghesi, operaie. Le classi agrarie dell’Europa continentale erano state penalizzate dalla penetrazione di cereali a basso costo, agevolata dalle navi a vapore e dalla ferrovia, provenienti dal Nord America e dalla Russia.
Le borghesie industriali chiesero ai governi forme di protezione doganale. Analogamente, le ripetute crisi di sovrapproduzione indussero gli agricoltori statunitensi a richiedere un’azione di governo volta ad espandere i mercati e a garantire trasporti ferroviari meno costosi.
Più in generale industriali e governo statunitense maturarono che la soluzione strategica dei grandi problemi economici e sociali dovesse essere ricercata nell’espansione sui mercati d’oltre oceano.
Fu per questa ragione, per supportare le politiche di “socializzazione dello stato” che fu decisa la guerra alla Spagna nel 1898; un conflitto che aveva tra i suoi obbiettivi principali l’accesso e l’espansione nei mercati asiatici delle produzioni statunitensi.
Le guerre coloniali, cementando le classi dentro politiche nazionalistiche, fornirono un ulteriore incentivo alla “socializzazione dello stato”. Per il buon fine di conflitti si rendeva necessaria la cooperazione di tutta la cittadinanza.
Alla vigilia della prima guerra mondiale, la politica internazionale e la politica sociale erano profondamente legate (anche se non mancarono vasti conflitti sociali e opposizioni alle strategie di guerra degli Stati).
I maggiori statisti europei ritenevano nel 1914 che la guerra avrebbe allontanato i loro principali problemi politici e sociali, cioè le minacce interne rappresentate da socialismo e democrazia.
Le elites dominanti seppero creare un sistema di fedeltà allo Stato che univa le diverse classi accomunandole in un progetto di “egemonia della nazione nel mondo”.
Il nazionalismo crebbe, l’internazionalismo socialista crollò.
La risposta alla chiamata alle armi fu unanime.
Durante i primi anni di guerra, la militanza e le agitazioni di stampo socialista calarono vertiginosamente e ciò fu dovuto solo in minima parte ad interventi di tipo coercitivo.
Nell’epoca della “socializzazione dello stato” furono siglati patti trilaterali tra sindacati, imprenditori, governi, che garantirono tregua sociale in cambio del riconoscimento legale delle associazioni sindacali e dell’istituzione di procedure di contrattazione collettiva e di composizione delle vertenze.
Va sottolineata tuttavia la natura effimera di questi patti nazionali dell’inizio XX secolo.
L’effetto di tregua sociale non durò neppure fino alla fine del conflitto se è vero che nel 1916 si registrò una forte ondata di scioperi, ribellioni, diserzioni.
Come gli scioperi dal 1905 al 1914 nell’industria mineraria e nei trasporti avevano rivelato la vulnerabilità del capitale, analogamente durante la Grande guerra l’industria bellica si rivelò ancora più vulnerabile.
Le grandi industrie belliche di Inghilterra, Germania, Francia, Russia e Stati Uniti diventarono il centro delle lotte operaie contro la guerra. Era forte a livello operaio la suggestione della rivoluzione, mentre le elites europee erano attanagliate dall’incubo della rivoluzione.
La previsione di Lenin che l’imperialismo avrebbe accentuato le contraddizioni del capitalismo segnando la vigilia della rivoluzione sociale del proletariato appariva confermata da uno spirito di rivoluzione che aleggiava sull’Europa intera. Una delle risposte fu il fascismo in Portogallo, Spagna, Italia.
CRISI DEI MOVIMENTI OPERAI DI FINE ‘900
Le visioni della crisi e del futuro
E’ diffusa e consolidata l’opinione del tramonto ormai irreversibile del ruolo storico che la classe operaia organizzata ha svolto nell’800 e nel ‘900.
A fondamento di questa opinione, la considerazione che le trasformazioni indotte dalla globalizzazione (e dalla sconfitta del socialismo reale) hanno comportato la sparizione materiale di quella specifica formazione sociale indicata con il termine di “classe operaia”.
Segnali in controtendenza rispetto a questa visione intanto venivano, a metà degli anni ’90, dall’aprirsi di alcuni importanti scenari di conflitto sociale contro la globalizzazione liberista dell’economia:
1 – nel 1995, grande sciopero generale in Francia contro i tagli al settore pubblico che Le Monde definì “la prima ribellione contro la globalizzazione”;
2 – nel 1999 a Seattle l’esplosione della protesta mondiale no-global.
Le proteste di Seattle, insieme a un nuovo attivismo organizzativo e politico manifestato dalla centrale sindacale statunitense AFL-CIO (American Federation of Labor and Congress of Industrial Organizations) furono al tempo letti come segni di una rinascita del movimento operaio statunitense “risorto dalle ceneri della sua storia”. Si sostenne che le nuove forme di attività politica che andavano manifestandosi, per quanto scollegate, fossero il segno di una imminente reazione del movimento operaio.
Quale di questi scenari radicalmente opposti è il più plausibile? Per Beverly J. Silver, ogni valutazione sul futuro dei movimenti operai si basa su un giudizio circa la natura e lo spessore dei cambiamenti indotti dalla globalizzazione:
a) – secondo coloro che giudicano che l’epoca contemporanea sia fondamentalmente nuova, e senza precedenti il declino operaio è senza via d’uscita;
Con riferimento a questo orizzonte non si può non cogliere con una certa ironia l’opinione di molti studiosi che saremmo ormai giunti alla “fine dei movimenti operai”. Si consideri che con l’avvento del fordismo divennero obsolete molte abilità tecniche tipiche e si introdusse una grande varietà di tecnologie che frammentavano e accrescevano l’alienazione del lavoro.
Soltanto dopo i successi delle lotte operaie il fordismo fu considerato un sistema che, invece che indebolirla, rafforzava la classe operaia.
b) – secondo coloro che, invece, leggono la globalizzazione come un nuovo capitolo storico delle ricorrenti dinamiche del capitalismo – tra le quali il perenne riprodursi di contraddizioni e conflitti tra capitale e lavoro – non siamo alla fine del soggetto classe operaia. Al contrario, c’è da attendersi un significativo ritorno dei movimenti operai.
La ricerca di B. J. Silver opera con riferimento ad un lungo periodo storico XIX-XX secolo) storico, e all’area geografica “mondo”.
Essa parte dalla premessa metodologica che lavoratori e movimenti operai situati in vari Stati e aree geografiche del mondo sono collegati tra loro dalla divisione internazionale del lavoro su scala mondiale e dai processi politici globali.
E’ fondamentale quindi, allo scopo di comprendere le dinamiche dei movimenti operai a partire dal tardo Ottocento, capire – sia nel tempo che nello spazio – i processi che mettono in relazione su scala mondiale i “singoli casi”.
METODOLOGIA DELLA RICERCA
Sempre relativamente agli aspetti metodologici della Ricerca, B. J. Silver sceglie una strategia di indagine “semplificatoria” per accrescere la fattibilità della stessa.
La ricerca mette in evidenza forti analogie esistenti tra la fase attuale della globalizzazione e il tardo Ottocento, a partire dal livello di interconnessione tra economie e società nazionali.
Un esempio di queste analogie è dato dai massicci movimenti migratori di lavoratori in quel periodo lontano.Quelle migrazioni giocarono un ruolo fondamentale sia nel diffondere le forme della lotta operaia, sia nell’accelerare la nascita di movimenti di “autoprotezione”, quali quelli delle campagne in favore di misure restrittive dell’immigrazione.
FATTORI DI INDEBOLIMENTO DELLE CLASSI OPERAIE DEL MONDO
1 – L’ipermobilità dei capitali
a – secondo alcuni, (Yai Mazur) le imprese multinazionali, con la sola minaccia di spostare le produzioni “dall’altra parte del mondo” hanno innalzato il livello di concorrenza tra l’enorme massa di lavoratori e messo sotto pressione il movimento operaio internazionale. Il poter contrattuale dei lavoratori è diminuito e si è prodotta una corsa verso il basso di salari e diritti a livello mondiale;
b – secondo altri studiosi la conseguenza più rilevante dell’ipermobilità geografica dei capitali è l’indebolimento della Sovranità degli stati, e dunque della politica rispetto all’economia.
Gli Stati perdono cioè la capacità di controllo sui flussi del capitale e, di conseguenza, diminuisce la loro capacità di protezione delle condizioni di vita e di lavoro dei loro cittadini.
Gli Stati che insistono nel mantenere un patto sociale costoso con i propri cittadini rischiano di essere tagliati fuori dai flussi di investimento, essendo il capitale perennemente in cerca di allocazioni che garantiscano il massimo profitto. Questa “gara al ribasso” di salari e diritti si presenta come una pressione di valenza internazionale sui singoli Stati perché abbandonino all’interno dei loro confini le protezioni sociali e gli altri “ostacoli” alla massimizzazione dei profitti.
Pressioni simili sono ancora più accentuate nel Sud del mondo dove si possono utilizzare le leve delle scadenze degli indebitamenti nazionali.
Va comunque considerato che l’idea di una globalizzazione sempre autoritariamente prevaricante la sovranità nazionale degli Stati è un’idea eccessivamente semplificata del rapporto globalizzazione/sovranità, ovvero del rapporto capitalismo/politica. Per alcuni Stati la globalizzazione è un esercizio della propria sovranità statale.
Questa differenza è importante relativamente al problema dell’internazionalizzazione dei movimenti operai.
2 – Le trasformazioni dell’organizzazione dei processi di produzione.
Queste trasformazioni sono viste da molti come il fattore che ha minato alla base il potere contrattuale dei lavoratori. In conseguenza di esse la classe operaia è stata sostituita da reti di rapporti temporanei e dunque disaggregata strutturalmente.
Valgano tuttavia a questo proposito alcune considerazioni:
a) E’ vero che i capitali industriali si sono spostati massicciamente verso aree a basso costo del lavoro; tuttavia tale spostamento non è stato unidirezionale ma ha riguardato anche paesi ad alto costo. Un recente documento della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD) dimostra che la maggioranza degli investimenti all’estero (IDE) continua a interessare i paesi del Nord del mondo, cioè paesi interessati da salari elevati. Nel 1999 più del 75% dei flussi IDE sono stati destinati a paesi con alti salari.
I 276 miliardi di dollari fluiti negli Usa supera i 226 miliardi di dollari che si sono diretti complessivamente verso America Latina, Asia, Africa, Europa centrale-orientale.
b) E’ vero che, se la classe operaia delle aree da cui il capitale è emigrato risulta indebolita dallo spostamento, nuove classi operaie si sono create e rafforzate nei luoghi di nuova allocazione;
c) Le trasformazioni postfordite non sempre indeboliscono le possibilità di lotta. In alcune situazioni, ad esempio, il just in time incrementa la vulnerabilità del capitale rispetto alle possibili interruzioni.
Questo è vero per i settori industriali che applicano i metodi del JIT, ma anche per i lavoratori occupati nei trasporti e nelle comunicazioni.
d) E’ plausibile pensare che quanto più la produzione si basa su reti globali, tanto più ampia saranno la sua vulnerabilità e le potenziali ripercussioni geografiche delle lotte operaie.
UN NUOVO INTERNAZIONALISMO DELLA CLASSE OPERAIA?
Circa il quesito se esistano le condizioni favorevoli per l’emergere di un significativo internazionalismo della classe operaia, queste le principali tesi:
a) si sta formando un’unica classe operaia mondiale omogenea, soggetta a condizioni di lavoro e di vita simili e inaccettabili. (Harris; Hoogvelt; Burbak e Robinson; Hardt e Negri)
b) i processi transnazionali contemporanei portano a una rapida divisione del mondo per classi contrapposte, cioè tra una borghesia globale e un proletariato globale. La classe di capitalisti è sempre più una classe in sé e per sé che mira a un progetto classista di globalizzazione capitalistica.
La classe operaia transnazionale, sebbene non sia ancora una classe per sé, sta diventando una classe in sé capace di dare una base reale e oggettiva all’internazionalismo operaio. (William e Robinson)
E’ bene mantenere una cautela rispetto alla previsione che stiamo muovendo verso un nuovo internazionalismo operaio. Le indagini sulle disuguaglianze mostrano l’accentuarsi delle divaricazioni di reddito piuttosto che la tendenza alla omogeneizzazione. Le differenze all’interno sono meno rilevanti che quelle tra paesi.
Le disuguaglianze di reddito tra Nord e Sud del mondo interrogano se la lotta condotta dai lavoratori del Nord per la riforma delle istituzioni sovranazionali preludano alla formazione di una classe operaia globale per sé, ovvero sia una forma emergente di nuovo protezionismo nazionale.
Questa fu l’interpretazione che i delegati del Terzo Mondo dettero alla conferenza WTO di Seattle.
Il protezionismo travestito da idealismo; questa fu l’accusa. La proposta di standard minimi nelle condizioni di lavoro non fu accolta dai paesi del Sud. I rappresentanti sindacali del Sud del mondo al congresso dell’IFCTU (Internatonal Confederation of Free Trade Union) del 2000, affermarono che il rispetto di tali norme poteva tornare utile al protezionismo nazionalista.
In sintesi la globalizzazione rappresenta un processo contraddittorio che crea elementi di convergenza e divergenza nelle condizioni materiali della classe operaia su scala mondiale con conseguenze contraddittorie sia per il passato che per il futuro del movimento operaio.
Circa il rapporto tra movimenti operai e Stati, Edward H. Carr sostenne nell’immediato dopo guerra che l’incorporazione dei lavoratori nel progetto dello Stato/nazione fu l’inizio della fine dell’internazionalismo operaio caratteristico dell’800.
Afferma Carr: “Nel XX secolo, quando la nazione apparteneva alle classi medie e il lavoratore non aveva madrepatria, il socialismo era internazionale. Ma la crisi del 1914 rese chiaro che le masse dei lavoratori sapevano istintivamente chi avrebbe imburrato il loro pane (cioè il potere statale) e quindi con lo scoppio della prima guerra mondiale il socialismo internazionale crollò miseramente”.
I POTERI DELLA CLASSE OPERAIA
Quadro teorico
Relativamente ai poteri in capo al mondo del lavoro, Eric Olin Wright distingue tra potere associativo e potere strutturale.
– il potere associativo è il potere derivante dall’organizzazione collettiva dei lavoratori (partiti-sindacati);
– il potere strutturale è il potere derivante dalla collocazione del lavoratore nel sistema economico. Esso si distingue in: potere di contrattazione legato al mercato; potere di contrattazione legato al luogo di lavoro.
Potere associativo e potere strutturale sono vasi comunicanti.
L’indebolimento del poter contrattuale legato al mercato mina il poter associativo, e viceversa.
In questi ultimi 30 anni è successo che:
– il potere contrattuale legato al mercato, cioè il potere associativo, è stato minato dalla mobilitazione di un esercito di riserva su scala mondiale; dalla ipermobilità dei capitali; dall’indebolimento della sovranità statale; dagli attacchi diretti dai capitalisti e dagli Stati contro le Organizzazioni sindacali;
– il potere di contrattazione nei luoghi di lavoro è stato minato dalle trasformazioni postfordiste del processo produttivo e dell’organizzazione del lavoro con particolare riferimento al decentramento produttivo e alla de-verticalizzazione della produzione con la pratica dell’outsourcing e del subappalto.
Queste pratiche hanno finito per provocare l’inversione della tendenza storica alla crescita del potere contrattuale legato al luogo di lavoro determinatasi in anni di espansione del modello di produzione fordista.
Una corrente di pensiero sostiene che la crisi dei movimenti operai e dei poteri ad essi connessi sia dovuta, più ancora che alle trasformazioni strutturali del postfordismo, all’idea che non ci sono alternative alla globalizzazione (anche per il fallimento del socialismo reale), e che questa idea, diventata senso comune abbia esercitato un potente effetto di smobilitazione sui movimenti operai.
L’“idea di potere in sé”, affermano Piven e Cloward, ha costituito un fattore importante di potere dei lavoratori. Le mobilitazioni dello scorso secolo erano alimentate dalla convinzione che i lavoratori hanno potere davvero, e che questo poter può positivamente essere usato per cambiare la loro condizione.
CONSIDERAZIONI SU INTERNAZIONALISMO/NAZIONALISMO
Pulsioni dentro la classe operaia
Marx tende a minimizzare o a ignorare del tutto il ruolo centrale giocato dalla razza, dall’etnia, dal genere, alla nazionalità nella formazione della coscienza di classe.
Marx ed Engels sostenevano che “… il moderno soggiogamento al capitale eguale in Inghilterra, come in Francia, America e Germania, ha spogliato il proletariato di ogni carattere nazionale… le differenze di sesso e di età non hanno più nessun valore sociale per la classe operaia.
Non ci sono più strumenti di lavoro il cui costo vari per età o per sesso”. Per Marx ed Engels si fondevano due prospettive universalistiche: quella dei lavoratori e quella del capitale.
Giovanni Arrighi afferma in proposito una diversa opinione: Marx si sbagliava nel presupporre che, per il solo fatto che i capitalisti consideravano i lavoratori intercambiabili, allora i lavoratori stessi avrebbero abbandonato di buon grado tutti quegli aspetti della propria identità che non riguardano la classe. I proletari si sono sempre ribellati di fronte alla tendenza del capitale a considerarli come una massa indifferenziata, senza identità…
Per altro, gli Stati e il capitale traggono vantaggi dalle logiche di esclusione.
Si potrebbe allora dedurre che sia nell’interesse dei lavoratori tracciare confini, e nell’interesse del capitale distruggerli. Ma sarebbe sbagliato arrivare alla conclusione che questo è il solo meccanismo che porta alla creazione di barriere che escludono “gli altri”.
E’ certo plausibile che i lavoratori che si trovano a dover affrontare una forte concorrenza da parte di altri lavoratori diversamente situati siano propensi ad adottare strategie di esclusione; mentre è più probabile che le classi operaie emergenti escluse dai contratti sociali in vigore tentino di abbattere le barriere esistenti.
L’interazione tra queste tendenze, unita alla propensione degli stati e del capitalismo tanto all’esclusione quanto all’inclusione, rende complessa la dinamica contemporanea che regola l’innalzamento e l’abbattimento delle barriere.
MAPPATURA E MODELLI DI LOTTE OPERAIE SU SCALA MONDIALE
Data Base
Il Data Base di World Labor Group attinge agli articoli di giornale riguardanti i vari tipi di mobilitazione operaia verificatesi dal 1870. Il risultato sono 91.947 segnalazioni di mobilitazioni avvenute in 168 paesi tra il 1870 e il 1996.
La Ricerca rende disponibile un quadro delle lotte operaie di ampiezza storica e geografica adeguata e sufficiente ad una approfondita comparazione tra passato e presente capitalistico/operaio per individuare possibili “analogie e ricorrenze”. Fino a poco tempo fa non esistevano dati sulle mobilitazioni dei lavoratori che coprissero un ambito storico/geografico così ampio. Solo alcuni paesi industrializzati posseggono serie storiche degli scioperi e, nel migliore dei casi, i dati partono dal secondo dopoguerra. Le altre forme di lotta diverse dallo sciopero sono ancora più raramente documentate.
Quanto alle inevitabili distorsioni che ciascuna fonte presenta rispetto agli eventi interni, sono state escluse le notizie relative alle agitazioni nel Regno Unito riportate dal Times e quelle relative agli USA riportate dal New York Times.
INDUSTRIA AUTOMOBILISTICA
La ricerca rintraccia nella storia di due secoli, un modello ciclico nel quale è sempre presente la relazione lotte operaie/ricollocazione spaziale del capitale.
Viene cioè ricostruita l’interazione, nel corso del novecento, tra lotte acquisitive dei movimenti operai e strategie dell’industria automobilistica mondiale volte a mantenere alta redditività degli investimenti e controllo della forza-lavoro attraverso soluzioni basate sulla delocalizzazione e sull’innovazione tecnologica.
Dove via via l’industria automobilistica si sposta in siti a più basso costo della manodopera, là emergono nuovi e forti movimenti operai.
In altri termini, le riorganizzazioni spaziali del capitale hanno ricreato classi operaie e lotte di classe simili alle precedenti in ogni nuova zona d’investimento.
a – CICLO DI VITA DEL PRODOTTO-STADI
Le scelte di de-localizzazione descritte nella Ricerca sono interpretabili secondo due diverse angolature che considerano alternativamente preminente:
– la prima, la “variabile sociale” (reazione del capitale alla crescita del potere contrattuale dei sindacati, dei diritti e dei salari dei lavoratori)
– la seconda, la “variabile del grado raggiunto dal ciclo di vita del prodotto”.
Occorre considerare che ogni ciclo di vita si articola in tre stadi:
“stadio innovativo – stadio della maturità – stadio della standardizzazione”. Passando da uno stadio all’altro del ciclo, gradualmente la redditività declina.
I prodotti innovativi nascono tendenzialmente nei paesi più ricchi, ma nel corso del loro ciclo di vita gli impianti di produzione vengono dislocati in paesi dove i costi (in particolare i salari) sono più bassi. Questo perché durante la prima fase innovativa del ciclo del prodotto la concorrenza è bassa; quando il prodotto raggiunge lo stadio della maturità e successivamente la “standardizzazione”, i concorrenti aumentano e aumenta la pressione per ridurre i costi.
I capitalisti che si trovano al primo stadio del ciclo di un determinato prodotto sono in grado di finanziare un accordo tra capitale e lavoro più generoso in quanto beneficiano di quegli extra- profitti monopolistici che competono agli innovatori.
La situazione cambia via via che ci si avvicina alla fine del ciclo di quel prodotto oppure allo stadio della standardizzazione a causa dell’abbassamento dei profitti determinato dalle pressioni della concorrenza.
Se nel corso dei primi due stadi non c’è una tendenza alla “corsa al ribasso”, questa emerge invece alla fine del ciclo.
Le innovazioni di processo tecnologiche e organizzative sono diventate strategiche negli anni ’80-’90 e, ai fini del mantenimento della redditività, preminenti rispetto alla de-localizzazione.
Esse consentirono ai siti di produzione caratterizzati da salari alti, di riacquisire una posizione competitiva. Si pensi alla robotizzazione e al metodo di produzione JIT che hanno spiazzato tutte le aree a basso costo del lavoro (fatta eccezione per Cina e Messico particolarmente appetibili per i salari minimi).
Dunque, le teorie del ciclo di vita del prodotto danno rilevanza alle “variabili economiche della concorrenza e dei costi” come cause ed effetti del ciclo.
La Ricerca di B. J Silver invece sostiene la tesi che è centrale nello svolgimento del ciclo economico la “variabile sociale”.
La prima parte della Ricerca è relativa al periodo dal 1930 ad oggi.
Spostamenti delle lotte operaie dal Nord America all’Europa occidentale e dall’Europa a un gruppo di paesi di nuova industrializzazione.
Si dimostra che ogni volta che è emerso un forte movimento operaio i capitalisti hanno decentrato le produzioni in paesi a minore costo e con una manodopera più “docile”, indebolendo di conseguenza le organizzazioni operaie nelle aree di disinvestimento e rafforzandola nelle aree di nuova espansione.
Là dove va il capitale i conflitti lo seguono.
Resta escluso dalla trattazione il Giappone, dato che la forte crescita postbellica che lì è avvenuta per l’industria dell’auto non ha prodotto nessuna grande ondata di militanza operaia.
Mentre nel Nord America la maggioranza delle mobilitazioni avviene negli anni trenta e quaranta (75% delle mobilitazioni totali), negli anni settanta e ottanta diventano minoritarie (15/20% totale).
Al contrario nell’Europa settentrionale dove negli anni trenta/quaranta le mobilitazioni sono pari al 23% del totale, raggiungono il 39% negli anni cinquanta, il picco del50% negli anni settanta.
Gli operai erano per lo più immigrati di prima o seconda generazione. Queste ondate rappresentarono delle vere e proprie svolte nei rapporti tra capitale e lavoro all’interno di ciascun paese.
In definitiva, mobilità del capitale e militanza operaia sono state parti integranti di un unico processo storico.
L’esito è una traiettoria dagli anni ’30 agli anni ’90 nella quale sia le forme della produzione capitalistica delle auto che le forme caratteristiche della militanza operaia si diffondono in tutto il mondo, dagli USA, all’Europa, ai Paesi di nuova industrializzazione.
1936 – Lotte e occupazioni di fabbriche della General Motors nel Michigan. Successi operai.
1937 – La G. Motors decentra a Buffalo e negli stati del Sud.
A partire dal secondo dopoguerra la delocalizzazione dell’industria automobilistica americana varcò i confini degli USA.
Dopo le vittorie riportate dai sindacati, per alcuni decenni furono praticate dai capitalisti dell’auto tre strategie di risposta:
– delocalizzazione;
– innovazione/automazione;
– promozione sindacalismo moderato/repressione sindacalismo rigoroso.
Queste strategie riuscirono a indebolire strutturalmente il movimento dei lavoratori dell’auto statunitensi.
1980 – Il potere dei lavoratori era al lumicino.
Nel periodo compreso tra le due guerre mondiali l’Europa era arretrata rispetto agli USA nell’applicazione del modello fordista di produzione di massa nel settore automobilistico. L’industria europea consisteva in piccole imprese che producevano auto su ordinazione (custom-manifacture).
Non esisteva un vero mercato di massa a causa delle barriere poste agli scambi commerciali tra paesi europei e salari generalmente bassi dei lavoratori. Gli operai non potevano permettersi di acquistare quello che producevano.
Il potere legato al luogo di lavoro era basso, mentre era forte il potere di associazione. Negli USA la situazione era opposta: basso potere associativo, forte potere contrattuale legato al luogo di lavoro.
A partire dagli anni ’50 e ’60 i livelli di potere legati al luogo di lavoro iniziarono a convergere tra America e Europa dove si era spostato il fulcro della produzione automobilistica mondiale aumentando per il valore di cinque volte.
Gli investimenti diretti di capitale americano nell’automobilistica europea era già iniziato negli anni ’20 per risparmiare sul costo del lavoro, aggirare le barriere doganali, ridurre il costo del trasporto.
Negli anni ’50-’55 la General Motors investì cento milioni di marchi tedeschi per promuovere la crescita della Opel in Gremania. Investì ancora trentasei milioni di sterline per ampliare gli stabilimenti Vauxhal a Luton, mentre la Ford investì in G.B. e a Colonia.
L’industria automobilistica italiana (che non aveva avuto investimenti stranieri) triplicò il volume delle produzioni negli anni ’50, e poi ancora lo raddoppiò negli anni ’60. Negli Stati Uniti di inizio secolo gli immigrati provenivano per lo più dall’Europa orientale e meridionale, oltre che dal Sud del paese. Nell’Europa degli anni ’50-’60 si trattava di lavoratori provenienti dall’est e dal sud d’Europa, Meridione d’Italia, Turchia, Iugoslavia, Portogallo, Spagna. In entrambi i casi la prima generazione di immigrati non protestò per le condizioni durissime di lavoro e di vita (sindacati deboli); furono gli immigrati di seconda generazione che riuscirono a trasformare i rapporti di forza in fabbrica e nella società (autunno caldo 1969).
I successi dei movimenti operai dell’Europa occidentale degli anni ’50-’60 provocarono una reazione padronale analoga a quella attuata negli anni trenta e quaranta dalle aziende statunitensi di fronte alle conquiste del CIO. Ci si affidò all’innovazione di processo (robotizzazione), la divisione sindacale, la delocalizzazione.
La Volkswagen trasferì i suoi investimenti soprattutto in Messico e in Brasile.
La Fiat scommise sulla robotizzazione. Anche gli effetti sul potere contrattuale furono simili a quanto verificatosi negli Stati Uniti.
Le vittorie della fine anni ’60 erano di fatto annullate.
L’altra faccia della medaglia fu il nascere di un nuovo proletariato legato all’industria automobilistica nei luoghi di espansione industriale degli anni’70 e ’80.
In Brasile il “miracolo auto” avviene tra il 1968-1974.
A quest’ultima data il Brasile era tra i primi dieci paesi produttori di auto. La Ford fece massicci investimenti in Brasile. La rapida espansione diede vita a una nuova classe operaia concentrata in fabbriche di dimensioni enormi. A Sao Bernardo lavoravano più di 60.000 persone tra Wolkswagen, Mercedes, Ford. Nacque così un potente movimento operaio che fu protagonista, insieme al settore metalmeccanico, di metà di tutti gli scioperi avvenuti tra il1978 e il 1986. La repressione che seguì portò solo a mutamenti nelle tattiche di scontro che passarono dagli scioperi su larga scala a proteste a livello di reparto, di linea nell’intento di massimizzare il danno sciopero e minimizzare i costi a carico dei lavoratori.
Il picco degli scioperi in Brasile fu di nove milioni di lavoratori coinvolti nel 1987. I salari reali crebbero del 10% annuo tra il 1985 e il1988.
Dalle lotte operaie nacque la spinta a una nova Costituzione entrata in vigore nel 1989 che sanciva il diritto allo sciopero e alla creazione di liberi sindacati e il diritto alla rappresentanza a livello di reparto.
Come il Brasile, anche il Sudafrica attirò gli investimenti delle multinazionali dell’auto.
Anche in Sudafrica si formò un nuovo proletariato che divenne l’elemento chiave dell’ondata di militanza operaia che si verificò tra il 1970 e i primi anni ’80, a partire da una serie di scioperi nel 1973 concentrati nelle fabbriche di Durban.
Crebbe così un forte associazionismo sindacale. Nonostante una forte repressione padronale/governativa il sindacalismo indipendente resistette per tutto il decennio. Dopo la legittimazione del 1979 si ebbero i più lunghi e vasti scioperi della storia del Sudafrica. Nel 1985 i sindacati indipendenti si federarono nel COSATU, il movimento sindacale che ha fatto registrare la crescita più veloce al mondo. La cosa più sorprendente fu che l’ondata di scioperi avvenne in un periodo di profonda recessione sia nel settore automobilistico che nell’economia in generale.
Il COSATU divenne anche leader del movimento antiaparthaied.
Alla fine degli anni ’80 le multinazionali avevano già dismesso larga parte dei loro investimenti in Sudafrica.
L’altro caso è quello della Corea del Sud.
Il miracolo economico/automobilistico della Corea del Sud avvenne contemporaneamente al declino dei “miracoli” Brasile e Sudafrica.
Anche in Corea era al potere un regime autoritario che bandì i sindacati autonomi e represse gli scioperi. Questo contesto repressivo che impediva qualunque lotta era molto attraente per i tre grandi gruppi industriali automobilistici locali (Hyundai, Kia, Daewoo), come pure per le multinazionali loro partner
(Ford/Mazda, Mitsubishi, G.M./Isuzu).
La produzione aumentò di otto volte in sette anni, passando da 125.000 unità del 1980 a 980.000 nel 1987.
Sia le multinazionali statunitensi che quelle giapponesi entrarono in Corea attraverso delle ioint-ventures. Nel 1981 la G.M. ottenne il controllo del505 della Daewoo e poté cominciare a vendere negli Usa automobili poco costose prodotte in Corea, come la Pontiac. Nel 1986 fu la volta della Ford che acquistò il 10% delle azioni Kia. Negli anni’80 “una vasta area dedicata all’industria pesante (acciaierie, cantieri navali, fabbriche automobilistiche) si stendeva per sessanta Km lungo la costa di Ulsan con centinaia di migliaia di operai neoassunti provenienti da tutto il paese” (Vogel e Lindauer 1997). La Corea del Sud arrivò a produrre un milione di auto all’anno e a quella data, 1987, un’ondata formidabile di scioperi travolse il paese. Il 18 agosto gli operai occupano i cantieri Hyundai. Le lotte portarono al riconoscimento dei sindacati dei lavoratori accettati dalle aziende automobilistiche come controparti. Gli operai dell’industria di Ulsan ottennero aumenti del 45-60%.
Seguì una forte repressione politica delle libertà sindacali e degli scioperi con licenziamenti, arresti, addirittura rapimenti, fino all’impiego di truppe paramilitari per smobilitare gli scioperi.
L’esperienza coreana dimostrò la vulnerabilità della produzione di massa. I lavoratori risposero alla repressione con varie forme di lotta provocando grandi perdite, per esempio alla Hyundai. Seguirono risposte aziendali di automazione negli stabilimenti coreani e di decentramento produttivo nel Brasile nord-orientale, in Ucraina e Polonia (Daewoo), in Cina (Hyundai), in Indonesia (Kia). L’industria automobilistica sudcoreana divenne in quegli anni la punta di diamante delle espansioni internazionali (Johnson 1997). Nel 1996 la capacità produttiva di auto nella Corea del Sud superavano tre milioni di unità e le proiezioni 2002 prevedevano di superare i sei milioni.
Dopo uno sciopero generale protrattosi per venti giorni tra il dicembre1996e il gennaio 1997 contro una legge repressiva, il Governo fu obbligato a riscrivere le normative sul lavoro riconoscendo diritti e libertà sindacali.
Rispetto a questo quadro si può affermare che la strategia della delocalizzazione, lontano dal fornire una soluzione stabile ai problemi di redditività del capitale e di controllo della forza lavoro, non ha fatto altro che trasferire la contraddizione capitale/lavoro da un luogo di produzione all’altro.
Un’altra tendenza in atto è quella di riconcentrare le produzioni in quelle stesse aree da cui le Aziende automobilistiche erano fuggite negli anni ’50-’60-’70, soprattutto negli USA e in G:B, anche se vengono evitate le zone a forte presenza sindacale a favore di piccole cittadine prive di tradizione sindacale. Il motivo fondamentale di queste rilocalizzazioni è stato costituito dalle misure protezionistiche contro l’importazione di auto giapponesi adottate da USA e G.B..
La contraddizione di queste scelte tuttavia è solo apparente, confermandosi che si ritorna nei luoghi da cui il capitale era fuggito a causa della militanza, ma solo a seguito dell’indebolimento di quei movimenti sindacali.
b – MODELLI PRODUTTIVI
Lean and dual – snello e duale
Il Giappone tuttavia affrontava il tema della competitività anche sul terreno delle innovazioni organizzative, introducendo il cosiddetto “modello di produzione snello” detto “lean and dual”.
Il modello adotta modalità di lavoro flessibile, forme di produzione e di consegna just in time, lavoro di team inserito in circoli di qualità, abbandona l’integrazione verticale a favore dell’outsourcing.
In questo modo é superato il modello fordista di produzione di massa che consentiva di ottenere produzioni a basso costo e flessibilità massima dell’occupazione ai livelli più bassi della catena dei fornitori.
Grazie a questo sistema la Toyota non solo vide quintuplicare la sua produzione tra il 1952-57 a fronte di un incremento della forza lavoro limitato al 15%, ma ridusse la conflittualità offrendo una garanzia occupazionale forte.
Verso la fine degli anni ’60 i costruttori giapponesi trasferirono i gradini più bassi della catena dei subfornitori nei paesi dell’Est e del Sud-Est asiatico caratterizzati da salari più bassi.
Questa strategia di delocalizzazione consentì il mantenimento di condizioni di competitività nel mercato globale senza mettere a repentaglio la fedeltà della forza lavoro occupata in patria.
Lean and mean – snello e miserabile
Stati uniti ed Europa cercarono di emulare questo modello di produzione postfordista.
Vennero imitate le misure tipiche della produzione snella giapponese che permetteva di abbattere i costi, ma non vennero adottate le politiche del lavoro tipiche del toyotismo. E cioè la garanzia di un lavoro sicuro per quella parte di forza-lavoro impegnata nei settori strategici della fabbrica (mentre una vasta
categoria di lavoratori rimaneva “declassata” quanto a sicurezzebenefit-diritti riconosciuti ai primi).
In definitiva non fu offerto dalle imprese americane ed europee ai lavoratori impegnati nei settori strategici della produzione lo scambio “sicurezza in cambio di cooperazione” propria del “toyotismo” giapponese.
In ogni caso, come per le delocalizzazioni, le misure di riorganizzazione posfordiste adottate da America ed Europa non hanno rappresentato una soluzione stabile alle agitazioni operaie.
Di conseguenza le dinamiche del conflitto capitale/lavoro sono rimaste quasi del tutto invariate rispetto al modello fordista tradizionale. Là dove i cicli di qualità non sono stati accompagnati da alcuna garanzia di sicurezza del posto di lavoro, essi non hanno avuto alcun effetto di disponibilità alla cooperazione (fallimento dei cicli di qualità alla Mitsubishi thainlandese) e spesso hanno dato luogo a forti reazioni del movimento operaio (lotte operaie alla Ford di Hermosillo, Messico).
Di più, è apparso che il sistema della subfornitura legato alla produzione del just in time non ha indebolito il potere contrattuale degli operai legato al luogo di lavoro. Al contrario, la produzione JIT si è rivelata più vulnerabile della produzione di massa fordista agli scioperi che avvengono negli stabilimenti che producono componenti, o che avvengono nei trasporti.
Questo aspetto di vulnerabilità della produzione JIT è risultato evidente in una serie di scioperi alla General Motors, a partire dagli scioperi del luglio1997 nello stabilimento di Detroit che fornisce tutti gli impianti di assemblaggio della G.M. negli Usa.
Oggi nell’auto si confermano le tendenze del passato relativamente alla delocalizzazione e alla dialettica delocalizzazione/militanza operaia.
I maggiori produttori di automobili mondiali hanno individuato due nuove aree adatte a bassi salari e a una nuova espansione della domanda: la Cina e il Messico settentrionale.
Il governo cinese ha indicato nell’industria automobilistica uno dei “sette pilastri industriali” dello sviluppo economico. Già nel 1996 ben 18 dei ventotto marchi automobilistici che comparivano nella lista delle 500 aziende top di “fortune” avevano già fatto investimenti in Cina.
In ogni caso, sia che in futuro prevalga il modello lean an dual oppure lean and mean, i lavoratori del settore auto probabilmente non giocheranno nel XXI secolo quel ruolo centrale avuto nel XX.
Se manteniamo l’ipotesi che “dove va il capitale il conflitto lo segue”, allora dovremo guardare ai nuovi settori predominanti nel XXI secolo per trovare i primi segni di un nuovo movimento operaio.
INDUSTRIA TESSILE
Le dinamiche militanza operaia/delocalizzazione/innovazione tecnologica e organizzativa dell’industria tessile sono state analoghe a quelle dell’industria dell’auto; il capitale si è spostato quando sono emersi i conflitti e sono avvenute conquiste sindacali. Con una differenza però.
Gli operai tessili, diversamente da quelli dell’automobile, sono stati sconfitti ovunque, con due sole eccezioni: a) – gli operai occupati nei siti originari di innovazione, come il Regno Unito;
b) – quelle classi operaie che hanno partecipato alle ondate dei movimenti di liberazione nazionale dei paesi coloniali e che si avvalsero di quelle lotte.
Il diverso esito delle lotte nel settore auto e nel settore tessile si pensa sia dipeso dalla diversa organizzazione della produzione nei due settori, diversità che ha influenzato il potere contrattuale dei
lavoratori.
COMPARAZIONE TRA LE MOBILITAZIONI NEI DUE SETTORI
Affinità – diversità
1 – Per automobile e tessile le prime grandi ondate vittoriose di mobilitazione avvengono nello stesso paese in cui il ciclo ha inizio: Regno Unito per il tessile; USA per l’automobile.
2 – In entrambi i contesti i movimenti operai acquisirono forza solo in seguito alla devastante sconfitta subita dai movimenti delle preesistenti corporazioni artigianali.
Infatti, nei primi due decenni del XIX secolo, le agitazioni operaie dei lavoratori tessili del Lacashire erano guidate da lavoratori artigianali il cui scopo era ostacolare l’introduzione del telaio meccanico e i filatoi automatici che li avrebbero privati del loro potere contrattuale.
3 – In entrambi i contesti, quando il movimento operaio dimostrò la sua forza i capitalisti reagirono con una strategia di riorganizzazione spaziale che accelerò la diffusione in nuovi siti del mondo dando inizio allo stadio di maturità del settore.
4 – La diffusione geografica della produzione avvenne con notevoli differenze nei due settori.
Mentre la produzione di massa del settore auto fino agli anni ’50-’60 si limitò ai paesi ad alto reddito, nello stadio maturo dell’industria tessile si ebbe una diffusione della produzione tessile nel mondo di gran lunga più vasta (Usa – Cina – India – Giappone).
Questa difformità di dinamiche spaziali dipendeva da una serie di differenze tra i due settori.
– nel tessile: barriere doganali basse; bassi costi iniziali del capitale fisso; anche nei paesi più poveri c’erano consumi di massa per i prodotti dell’industria tessile diversamente dal settore auto negli anni ’20-’30.
– il settore tessile esisteva fin dall’epoca premoderna molti dei paesi che adottarono la nuova meccanizzazione avevano una lunga esperienza protoindustriale di produzione tessile che in molti casi, per esempio India e Cina, aveva prevalso sui produttori europei. In effetti, l’industria tessile britannica poté decollare nel Settecento solo in seguito alle misure protezionistiche adottate rispetto ai prodotti a basso costo e alta qualità dell’India.
In sintesi. Il confronto tra tessile e automobilistico rivela analogie e differenze.
In entrambi i casi le mobilitazioni, e non solo le sfide competitive, indussero a rispondere con la riorganizzazione spaziale alle crisi di redditività e controllo della manodopera.
Il diverso grado di successo ottenuto può essere spiegato dal diverso modo in cui i due settori erano organizzati e dal conseguente impatto sul potere contrattuale dei lavoratori. In particolare:
– gli operai del tessile non disponevano di quella potente arma che è la capacità di interrompere il flusso produttivo essendo l’industria tessile disintegrata verticalmente e il processo di lavoro suddiviso in fasi distinte.
– le ridotte dimensioni delle singole aziende e la produzione verticalmente disintegrata facevano sì che la quota di capitale fisso immobilizzato da uno sciopero fosse limitata e non avesse una significativa ricaduta sull’intero settore o l’intera area geografica.
Se anche una o più macchine si fermavano le altre potevano continuare a lavorare senza subire rallentamenti. Nella fabbrica automobilistica fordista era massima l’integrazione verticale, e il flusso della produzione era continuo.
Si può affermare che il potere contrattuale nel luogo di lavoro degli operai tessili sia in qualche misura simile a quello degli operai delle imprese fornitrici nell’industria automobilistica postfordista. Ma gli operai del settore auto necessitano di un potere associativo inferiore a quello del tessile poiché la catena dei fornitori dell’industria automobilistica è caratterizzata da un rapporto “uno a pochi”, rispetto al “molti a molti” tipico dell’industria tessile.
La relativa debolezza del potere contrattuale legato al luogo di lavoro nel tessile, non era controbilanciata da un forte potere di contrattazione nel mercato derivante dal possesso di abilità qualificate.
Inoltre, la tendenza nel settore era verso una progressiva diminuzione del livello di specializzazione.
Se già l’uso del filatoio era più semplice di quello che aveva rimpiazzato, con l’introduzione del filatoio ad anelli si richiedeva ancora meno esperienza e forza.
I lavoratori britannici alla fine del XIX secolo riuscirono a strappare le loro vittorie grazie alle solide basi del sindacato che riuscì a organizzare e finanziare scioperi generali estesi a tutta l’area di produzione e di gestire l’emigrazione dei lavoratori in eccesso. Essi godevano del vantaggio competitivo derivante ai loro
datori di lavoro dal fatto di trovarsi nel luogo d’origine dell’innovazione.
Il potere associativo fu anche alla base delle vittorie dei tessili di Cina e India che formarono alleanze interclassiste in nome delle lotte di liberazione nazionale.
In ogni caso le vittorie nel Regno Unito, India, Cina furono eccezioni poiché il potere di contrattazione associativo non era in generale abbastanza forte da compensare la debolezza strutturale dei lavoratori tessili.
Lo stadio di maturità della produzione tessile avvenuto tra gli anni ’20 e ’30 coincide con l’esplosione di forti agitazioni operaie a livello mondiale. E la stessa dinamica “stadio di maturità/lotte” si manifestò nello stadio di maturità del settore automobilistico negli anni ’60-’70.
In conclusione si può osservare che la dinamica generale dei conflitti operai mondiali è strettamente legata alle fasi dei cicli del prodotto e alle variazioni correlate del potere contrattuale dei lavoratori.
Ne consegue che il tentativo di comprendere le dinamiche presenti e future dei movimenti operai richiede un’indagine su quale settore nell’economia globalizzata può essere individuato come l’erede o successore del settore automobilistico nel ruolo di settore trainante del capitalismo mondiale, come pure sulla natura del potere contrattuale dei lavoratori coinvolti.
CENTRALITA’ DEI TRASPORTI NEL CONFLITTO
Qualsiasi attività industriale dipende, nel corso delle varie fasi del processo produttivo, dalla attività e dal sistema dei trasporti: acquisizione al luogo di produzione delle materie prime e materiali necessari; trasferimento dei semilavorati da un sito all’altro di produzione; conferimento al mercato dei prodotti finali.
Relativamente alle agitazioni sindacali nel settore dei trasporti, il database segnala che le mobilitazioni nei trasporti nel periodo 1870-1996 sono al primo posto davanti al settore manifatturiero (21% del totale delle citazioni) e all’industria mineraria (18%).
Questo è il dato del’intero periodo considerato. Questa graduatoria fa eccezione solo per tre decenni e cioè i periodi 1870/1880, gli anni ’30 (predominio dell’industria manifatturiera), gli anni ’90 (predominio della categoria aggregata dei servizi).
Circa la distribuzione delle mobilitazioni nei tre subsettori dell’industria dei trasporti, e cioè Ferrovie – Servizi marittimi/portuali – Trasporti aerei, il database segnala lo spostamento della conflittualità nel corso del XX secolo. Marittimi e Portuali nell’intero periodo rappresentano il 52% del totale, Ferrovie 35%, Aviazione 13%. A partire dagli anni ’70 del XX secolo il trasporto aereo sale al 42%, negli anni ’80 al 55%, negli anni ’90 al 63%.
I lavoratori dei trasporti hanno avuto e continuano ad avere un forte potere contrattuale legato al luogo di lavoro. Il loro luogo di lavoro è, infatti, l’intera rete di distribuzione.
Nel caso dei trasporti non è facile procedere a riorganizzazioni spaziali come strategie di risposta al potere contrattuale della forza lavoro. “Non è possibile – dice Harvey – spostare strade, ferrovie, canali, aeroporti senza perdere il valore in essi incorporati”.
A fronte del limite di applicabilità di strategie spaziali, la strategia di risposta delle imprese è stata “l’innovazione tecnologica”. Ad esempio la “containerizzazione” e la “meccanizzazione dei docks”.
I lavoratori delle ferrovie si sono trovati esposti a forti pressioni concorrenziali a causa delle alternative al trasporto su rotaia (camion, cargo, aereo).
La regolamentazione statale ha giocato un ruolo centrale e diretto nella dinamica delle agitazioni nei trasporti, molto più che negli altri settori cui è andata applicandosi. Un sistema dei trasporti ben funzionante è fondamentale per l’accumulazione capitalistica e questo aiuta a spiegare i frequenti interventi della mano pubblica volti a sedare i conflitti.
La combinazione nell’industria dei trasporti di una competitività meno diretta e di una minore differenziazione spaziale potrebbe aver creato le basi per il sorgere di un internazionalismo più forte tra i lavoratori dei trasporti. Un esempio in linea con questa ipotesi sono le alleanze parallele a quelle tra le rispettive compagnie strette tra i piloti (Star Alliance Pilots e la One World Cockpit Crew Coalition).
Oggi i lavoratori dei trasporti svolgono un ruolo nel processo di accumulazione del capitale analogo a quello del passato.
ALTRI SETTORI DI RIFERIMENTO PER NUOVE CENTRALITA’ DEL CONFLITTO CAPITALE/LAVORO
A – INDUSTRIA DEI SEMICONDUTTORI
Oggi la microelettronica, ovvero l’industria dei semiconduttori, ha rimpiazzato le industrie dei tessuti, dell’automobile, dell’acciaio, nel ruolo di industrie trainanti l’economia mondiale. La grande differenza rispetto al prodotto automobile è che l’industria dei semiconduttori non ha avuto un impatto diretto sulla formazione di una nuova classe operaia paragonabile al tessile e all’auto.
Malgrado l’esorbitante crescita dei volumi di produzione a partire dagli anni ’70, il numero dei nuovi posti di lavoro è stato relativamente basso, soprattutto perché la produzione di circuiti integrati è totalmente automatizzata.
Rispetto alle fasi in cui si articola il ciclo produttivo dei semiconduttori, le fasi più innovative e tecnologicamente significative – ovvero la progettazione e la realizzazione dei circuiti – avvengono nei paesi economicamente più avanzati, mentre la parte più manuale del ciclo, l’assemblaggio della scheda, fin dagli anni ’60 è stato delocalizzato nei paesi a basso costo del lavoro, soprattutto in Asia.
In questi paesi, diversamente che in quelli ricchi, si è venuto così a formare un nuovo proletariato industriale che è stato denominato “catena di montaggio globale”. Nei tempi più recenti poi lo steso assemblaggio delle schede si è andato automatizzando e la crescita di occupati è rallentata.
Si sta ripetendo dunque lo schema storico di crescita del tessile e dell’automobile, cioè la crescita occupazionale polarizzata nei paesi a più basso costo. Ciò lascia prevedere che nel prossimo futuro in Cina emerga un forte movimento operaio. Di fatto oggi aumentano le mobilitazioni operaie in Cina.
B – SETTORE DEI SERVIZI ALL’IMPRESA
Storicamente, alla decentralizzazione delle attività manifatturiere ha corrisposto l’accentramento delle funzioni di comando e controllo e la crescita della finanziarizzazione del capitale.
Si sviluppa così il settore dei Servizi all’impresa.
Si tratta di servizi all’impresa che gestiscono vaste reti globali di fabbriche, uffici e mercati finanziari e che sono essi stessi soggetti ad economie di agglomerazione. L’offerta di questi servizi si insedia in alcune città sedi delle multinazionali di attività di fornitura di servizi, ed è l’altra faccia della dispersione produttiva caratteristica del postfordismo.
Scrive Saskia Sassen (2001): “l’aumento della mobilità del capitale genera una domanda di attività che garantiscano l’amministrazione, la gestione e il controllo di questa nuova organizzazione della produzione e della finanza”.
“… Quanto alla finanziarizzazione crescente del capitale, quando la concorrenza diventa molto forte, invece di investire in nuovi prodotti il capitale esce del tutto dalla produzione e dal commercio investendo in speculazione e in affari finanziari.” (Arrighi 1994).
Il data base del World Labor Group non consente di separare la categoria dei servizi all’impresa dai servizi in generale.
E’ certo, in ogni caso, che a partire dagli anni ’70 del XX secolo, il livello occupazionale dei Servizi all’impresa è cresciuto più rapidamente che in qualunque altro settore dell’economia in quasi tutti i paesi centrali del sistema economico mondiale.
Ad esempio negli USA tra il 1970 e il 1996 i servizi all’impresa passarono da 6,3 milioni di addetti a 17,6 milioni; per contro, il numero degli addetti al manifatturiero passarono da 19,9 milioni a 20,4 milioni.
Quale il potere contrattuale di questi lavoratori?
Sembrerebbe che i lavoratori a basso reddito nel settore dei servizi all’impresa abbiano poco potere contrattuale.
Si prenda ad esempio il caso degli addetti alle pulizie dei palazzi del centro commerciale e direzionale di Los Angeles con contratti a tempo determinato, senza previdenza sociale, con un elevato turnover, in maggioranza immigrati e donne che devono anche occuparsi dei figli. Oltretutto i datori di lavoro spesso sono agenzie di subappalto create al fine di evitare gli obblighi contrattuali e tagliare i costi. Ciò nonostante, negli anni ’90 questi lavoratori hanno riportato significative vittorie. Il movimento denominato Yustice for Janitors (personale pulizie) ottenne risultati; come ottenne importanti risultati la campagna per il reddito minimo vitale iniziata a Baltimora e poi diffusasi in un’altra trentina di città americane.
Nel caso di Baltimora il movimento fu costruito anche all’insegna delle alleanze sociali. La spinta iniziale venne da una coalizione di chiese di diverse confessioni religiose che fornì un sostegno economico.
Nel caso di Justice for Janitors il ruolo chiave fu svolto da una rinnovata organizzazione sindacale, The Service Employees International Union, che scavalcò il sindacato locale e mise a disposizione risorse. Solo a Los Angeles la campagna costò mezzo milione di dollari l’anno.
Quali le ragioni dei risultati ottenuti?
– I lavoratori in questione avevano un potere contrattuale da spendere che consisteva nella dipendenza dei datori di lavoro da un luogo determinato.
– Un’altra interpretazione riconduce il successo operaio di Los Angeles al passaggio dal modello di organizzazione sindacale basato sul luogo di lavoro a un nuovo modello fondato sui legami interni alla comunità.
Questo nuovo potere di contrattazione associativo consentì di superare i limiti del quasi nullo potere contrattuale legato al luogo di lavoro di quei lavoratori (tempo determinato, turnover ecc.). Per altro le proteste furono condotte con modalità intelligenti, indirizzandosi esplicitamente anche contro i proprietari immobiliari che usavano le agenzie di subappalto per evitare la sindacalizzazione.
Il segmento lavorativo costituito dalla “immissione dati” rientra nelle attività in cui più si addensa la forza lavoro applicata ai servizi all’impresa. Qui, le società statunitensi ed europee hanno fatto ricorso ai lavoratori indiani scolarizzati e con padronanza dell’inglese (nel 2008 si raggiungono 700000 addetti), e stanno impiantando nuovi uffici che si occupano di processare i dati, call center telefonici e altri servizi informatizzati.
Le società straniere spediscono il lavoro via satellite e i lavoratori indiani lo trasformano in file digitali, lo archiviano, lo analizzano e lo rispediscono indietro per un costo minimo.
La British Airways manda in India una copia scannerizzata di ciascuno dei 35 milioni di biglietti venduti in un anno, e lì gli impiegati abbinano le informazioni contenute nei biglietti con le informazioni dei pagamenti inviati dalle agenzie di viaggi.
Quanto alla General Electric sta pianificando di quadruplicare in due anni i suoi mille impiegati di Nuova Dheli per gestire le pratiche di prestito e di contabilità e per contattare telefonicamente i clienti in ritardo con i pagamenti.
Anche Irlanda, Giamaica e Filippine forniscono servizi a basso costo di backoffice alle società straniere.
Dunque si tratta di un’importante area nella quale sta emergendo una nuova classe operaia.
Il lavoro che svolge questa nuova classe operaia si basa sull’uso di internet e di altri sistemi di comunicazione avanzati per ricevere la materia prima, trasmettere il prodotto finale, a volte gestire i passaggi intermedi.
Dipenderà dalla capacità creativa di questi lavoratori di ideare forme di lotta idonee a questo ambiente di lavoro.
Non c’è dubbio che questo genere di lavoro è effettivamente molto più mobile dell’attività di pulizie, e dunque richiede potere di contrattazione associativa. E tuttavia può questo potere essere efficace solo se non resta a livello di comunità ma si estende a coprire l’ambito nel quale si muove il capitale, cioè a un livello globale.
A ben guardare le società hanno già delocalizzato queste attività in uno dei paesi con il costo del lavoro più basso al mondo. Dove allora potrebbero spostarsi?
C – INDUSTRIA DELLA FORMAZIONE
Nella trasformazione postfordista assumono centralità l’informazione e la conoscenza. Secondo Peter Drucker la risorsa economica fondamentale oggi è il sapere, non più il capitale, o la terra, o il lavoro.
Oggi i lavoratori della formazione, nella divisione internazionale del lavoro hanno una centralità analoga agli operai del tessile nell’Ottocento e dell’automobile nel Novecento.
La scolarizzazione di massa è una delle più importanti industrie di beni capitali del XX secolo, produttrice sia di conoscenza che di lavoratori in grado di sostenere le nuove forme di accumulazione capitalistica.
Il rapido aumento del numero globale dei lavoratori della scuola inizia a metà del ‘900.
Si passa da 8 milioni del 1950 a 47 milioni del 1990.
E’ questa la conseguenza della crescita mondiale dl tasso di scolarità a tutti i livelli, ma soprattutto a livello di scuola elementare, negli anni ’60 in America Latina, negli anni’70 in Africa e Medio Oriente, negli anni ’80 in Asia.
Nei paesi avanzati nella seconda metà del XX secolo cresce la scolarità nella secondaria che raggiunge la quasi totalità nei paesi ricchi contro il 50% nei paesi più poveri.
Negli USA, nel 1990 il numero degli insegnanti rappresentava quasi la metà del totale dei pubblici impiegati.
Nella seconda metà del Novecento il mondo della scuola è stato teatro di crescenti agitazioni su scala mondiale.
E’ l’unico settore che registra un aumento delle mobilitazioni negli ultimi decenni del secolo scorso.
Inoltre, la diffusione geografica delle mobilitazioni degli insegnanti (23) è maggiore non solo di quelle del tessile e dell’automobile, ma anche dei ferrovieri (17), del trasporto aereo (17), dei marittimi e portuali (20).
Circa il potere contrattuale della categoria, è debole quello legato al luogo di lavoro perché la classe è un’entità autonoma e c’è scarsa interdipendenza tra le diverse sedi scolastiche che fanno parte dello stesso sistema.
Uno sciopero in una scuola può avere impatto nullo sulle altre scuole. Uno sciopero nella secondaria non ferma le elementari e viceversa.
Tuttavia c’è un punto di forza del potere contrattuale degli insegnanti: è l’impermeabilità del settore alle delocalizzazioni e alle innovazioni tecnologiche, a partire dall’automazione.
D – SERVIZI ALLA PERSONA
Un altro settore in rapido sviluppo occupazionale è quello dei servizi alla persona, ovvero dei cosiddetti “servizi riproduttivi”.
Il potere contrattuale legato al luogo di lavoro è debole perché il luogo di lavoro è a scala ridotta e dispersa, rendendo difficile il coordinamento tra lavoratori.
Anche il potere contrattuale legato al mercato è generalmente basso essendo molto ampia l’offerta di lavoro.
Il successo possibile è legato al potere associativo.
Questa tesi è suffragata dai dati del Database. E’ il caso dei lavoratori del settore alberghiero le cui lotte spesso sono associate ad altre mobilitazioni.
PRIME CONCLUSIONI
Non è possibile oggi individuare un’industria manifatturiera che possa svolgere un ruolo trainante quale quello svolto dal tessile e dall’auto. L’unico settore almeno parzialmente trainante è quello dei semiconduttori.
La circostanza che si tratta di attività produttive altamente automatizzate ha determinato la riduzione del potenziale occupazionale del settore.
La concentrazione dell’occupazione nei paesi a reddito mediobasso lascia presumere che in quei paesi è l’epicentro delle future agitazioni operaie, analogamente a quanto avvenne per le vecchie industrie automobilistiche e tessili.
Circa le mobilitazioni e le strategie di controllo delle imprese, siamo in presenza di una forte articolazione di situazioni.
– il trasporto aereo, ad esempio, ha un notevole potere contrattuale legato al luogo di lavoro.
– settori come l’istruzione e i servizi all’impresa sono immuni dalle riorganizzazioni spaziali praticate nelle industrie manifatturiere.
Per quei settori caratterizzati da processi di disintegrazione verticale della produzione diventa sempre più rilevante lo sviluppo del potere contrattuale associativo.