Militant | L’anti-marxismo congenito del pensiero post-strutturalista
Jan Rehmann | I nietzscheani di sinistra. Deleuze, Foucault e il postmodernismo, una decostruzione, Odradek, 2009, PDF, EPUB
Ci accorgiamo con colpevole ritardo di una pubblicazione illuminante, sebbene dai tratti filosofici marcati e quasi per addetti ai lavori, sul ruolo che il pensiero post-strutturalista francese ha avuto riguardo alla costruzione di un paradigma politico anti-marxista, raccolto da una parte dei movimenti sociali dal ’68 in avanti. Un problema affatto attuale, visto che un certo modus pensandi, per così dire, è ancora alla base dell’azione politica di parte dei movimenti sociali.
Pur non avendo noi particolari competenze filosofiche, il testo di Rehmann, con l’importante prefazione di Stefano Azzarà, chiarisce in che termini il pensiero di Nietzsche, o per meglio dire della triade Spinoza-Nietzsche-Heiddeger, sia stato utilizzato in funzione antagonista e superatrice del pensiero marxista o, anche qui per meglio specificare, della linea di sviluppo che da Hegel porta a Lenin tramite la necessaria evoluzione operata da Marx ed Engels della dialettica hegeliana. Tale ribaltamento ideologico avviene tramite il lavoro in particolare di due autori ancora oggi presi a modello di un certo “pensiero rivoluzionario”, Deleuze e Foucault, massimi esponenti di quel gauchismo parigino travolto dalle sommosse del maggio francese e per via di queste costretto a convertire parti importanti della propria impostazione filosofica in funzione di un discorso “di sinistra” legittimante quei moti di ribellione. E’ infatti opportuno ricordare, con Rehmann, che Foucault, “impressionato dal movimento del Sessantotto, compie uno spostamento a sinistra che spiazza completamente molti suoi contemporanei. Bisogna tener presente che la sua pubblicazione sino a quel momento di maggior successo, Le parole e le cose, del 1966, a causa del suo aspro regolamento di conti con Marx era stata interpretata da molti come un libro “di destra”. Sartre lo aveva definito come “l’ultimo baluardo” che “la borghesia può ancora erigere contro Marx”[…] A questa ulteriore generalizzazione della critica all’umanismo si riferisce lo stesso Althusser quando nel 1966 si scaglia contro le “interviste piene di cretinate su Marx” di Foucault. Dal 1965 al ’66, inoltre, Foucault aveva lavorato al progetto gollista di riforma universitaria (riforma Fouchet) ed era andato vicino ad essere nominato vicedirettore del settore Università al Ministero dell’Istruzione, se non fosse stato respinto per via della sua omosessualità” (pag.109).
L’origine di questo cambio di paradigma trova le sue ragioni in un disorientamento politico generazionale. Sospinta dalla trasformazione generale del modello produttivo-cognitivo a forme di partecipazione politica sempre più totalizzanti, un’intera generazione individua come “nemico” non solo lo stato di cose presenti, il potere costituito tanto nella forma Stato quanto nelle sue articolazioni più immediate (ad esempio l’università), ma anche quei modelli politici rivelatisi inservibili per un discorso antagonista, come il socialismo realizzato in Unione Sovietica. Come ben esplicitato da Deleuze nel 1973, “Marx e Freud hanno rappresentato il sorgere della civiltà burocratica moderna; il loro progetto era quello di una ricodificazione dello Stato in Marx, della famiglia in Freud. Nietzsche costituisce invece l’irruzione della controcultura. Egli fa del pensiero una forza nomade, una “macchina da guerra” contro la macchina razionale e amministrativa i cui filosofi parlano a nome della ragion pura”. Il Nietzsche di Deleuze si rivolge in questo modo direttamente ai rivoluzionari dei nostri giorni: abbiamo bisogno di una “macchina da guerra” che non produca un nuovo apparato statale (pag. 19).
Il recupero di Nietzsche si inserisce allora in quell’opera di ricerca di un pensiero “davvero” rivoluzionario, “altro” rispetto al sistema di dominio tanto capitalista quanto socialista, perfettamente speculari, parrebbe, nel costruire sistemi di assoggettamento dell’individuo al controllo sociale. Il pensiero deleuze-foucaultiano è allora una forma di nietzscheanesimo, un “nietzscheanesimo di sinistra”, che come obiettivo ha quello di demolire la dialettica hegeliana e di superare il concetto di lotta di classe in favore della volontà di potenza, una volontà liberata, tramite questi autori, degli spunti più marcatamente cripto-fascisti per divenire emblema di un pensiero differenzialista e presuntamente democratico-assoluto, nel senso di elevare la ribellione dell’individuo contro ogni ingerenza collettiva organizzata (lo Stato). Come afferma Azzarà nell’introduzione citando Vattimo, “quella società che si voleva radicalmente nuova [il socialismo, ndr], insomma, veniva contestata come non abbastanza rivoluzionaria e Nietzsche veniva assimilato come la possibile fonte di una spinta rivoluzionaria ulteriore, come l’ispiratore – “antifascista” e “antitotalitario” ad un tempo – di una rivoluzione più “autentica” o addirittura “permanente”, di un socialismo “più vero” perché più attento alle ragioni dell’individuo e alle “aspirazioni di libertà di autenticità, di rinnovamento profondo dell’uomo” (pag. 13). Il comunismo sovietico costituiva l’obiettivo della polemica, in quanto traditore del “sogno di una cosa”, e Marx associato direttamente, sin nelle più contingenti particolarità, alla costruzione del socialismo in Urss. Partendo da un presupposto politico-culturale tipico della polemica liberale (il pensiero di Marx porta direttamente al Gulag: nel 1976 Foucault “ricondurrà immediatamente a Marx il “totalitarismo” quando, in un’entusiastica recensione de I padroni del pensiero di Andrè Glucksmann, indicherà le montagne di cadaveri dello stalinismo come “la verità…denudata” della teoria marxiana [pag. 110]), Deleuze e Foucault fanno propria questa lettura respingendo Marx e il marxismo trovando in Nietzsche il pensiero forte di un ribellismo che non deve più porsi come obiettivo la liberazione generale dallo sfruttamento economico, ma solo presentarsi come alterità inconciliabile alle logiche di potere.
Un potere, per l’occasione trasmutato opportunamente in “biopotere” in quanto perde le sue caratteristiche sociali, di classe, per permeare ogni aspetto della natura umana a prescindere da chi controlla i mezzi di produzione; di cui si indaga, a questo punto necessariamente, una “microfisica”, cioè un insieme di caratteristiche costanti e trasversali ad ogni rapporto di dominio, fondato di per sé sulla violenza. Contro le concezioni del potere incentrate sullo Stato e contro quelle economicistiche, il potere moderno viene definito capillare, e cioè già attivo sul piano più basso del corpo sociale, nelle pratiche sociali quotidiane e, soprattutto, riguardante il rapporto tra individui, non più tra soggetti produttori. In Sorvegliare e punire, il testo foucaultiano più direttamente impegnato nel confronto con Marx, egli “ritiene di aver superato la fissazione marxista all’economia e allo Stato mediante la scoperta di una “microfisica” del potere. Questa microfisica “si esercita a partire da innumerevoli punti, e nel gioco di relazioni diseguali e mobili”, in modo che alla fine – come si dice in un’intervista del 1977 – non si fronteggiano più proletariato e borghesia ma combattiamo “tutti contro tutti” – e c’è sempre qualcosa in noi che combatte qualcos’altro di noi” (pag. 111).
Di qui alla critica totale verso ogni forma di potere il passo è brevissimo, e infatti viene immediatamente compiuto. Col doveroso corollario che obiettivo della politica non dev’essere lottare per il potere, ma combatterlo, cioè porsi in forma conflittuale all’esistente. Anche qui, il passo verso una strutturazione di un pensiero conflittuale-assoluto, in cui non trova spazio la natura umana fondata sulla cooperazione sociale, viene da sé. Il nietzschianesimo foucaultiano si pone come vertice del pensiero “anti-totalitarista”, intendendo come “totalitarismo” non questo o quello specifico ordinamento statale, ma l’ordinamento statale in quanto tale, con le sue istituzioni totalizzanti, con i suoi rapporti di potere fondati sul dominio e la violenza, qualsiasi essi siano. Un legittimazione teorica forte in un contesto, quello dei movimenti francesi post-sessantottini, votato alla lotta contro ogni forma di subordinazione storica.
Non c’è possibile liberazione, politica e/o sociale, perché la natura umana si esplicita in antagonismo alle forme organizzate di controllo. E’ l’intera metafisica a venire meno in funzione di un discorso immanente ed anti-escatologico. L’uomo in sé è il centro: dell’assoggettamento da una parte, della ribellione dell’altra. In questo senso dunque la politica prende la forma di mobilitazione continua, incessante, volta all’esplicitazione di un antagonismo naturale, quello tra individuo e società. L’assunto clausewitziano della guerra come continuazione della politica con altri mezzi viene ribaltato nella politica, adesso, che sarebbe la continuazione della guerra con altri mezzi, intendendo appunto la politica come scontro permanente, movimento basato sulle strategie di conflitto. Ribellismo, tumulto e sommossa divengono concetti cardine attraverso cui smantellare il portato sociale dell’idea di rivoluzione intesa come superamento della condizione di sfruttamento. Questioni, come possiamo ben vedere, di fatto ancora all’ordine del giorno del dibattito politico dei movimenti.
Il recupero di Nietzsche non è allora un fatto neutrale, perché questo viene sviluppato in opposizione a Marx ma soprattutto al marxismo quale teoria generale di interpretazione della società capace di indicare una strada per la sua liberazione. Gli effetti di questo straniamento ideologico sono ancora ben presenti nelle articolazioni del pensiero antagonista, frutto di un paradigma teorico che oggi dovremmo avere la forza di mettere in discussione per capire in cosa i movimenti degli anni settanta non possono più rappresentare il nostro appiglio teorico di riferimento.