Umberto Galimberti | Perché siamo tutti figli di Eichmann
E se avesse ragione Erich Priebke quando, alla sbarra, utilizza quel fastidioso argomento che suona pressappoco così:
“Se almeno sapessi cosa volete da me! Io mi sono semplicemente attenuto agli ordini. Allora ero pure in regola e quindi, se volete, ‘morale’ in fin dei conti non ho colpa se quell’ente di gestione con cui ho collaborato oggi è sostituito da un altro. Oggi è ‘morale’ collaborare con questo, allora era ‘morale’ collaborare con quello”?
Per confutare questo argomento, ripetuto da tutti i criminali di guerra fino alla noia, ogni anno celebriamo il 25 aprile perché “non bisogna dimenticare perché ogni amnesia è una sorta di amnistia”. Giusto principio, ma non all’altezza dell’evento. E tutte le persuasioni, le convinzioni, i ragionamenti che non sono all’altezza dell’evento sono già essi stessi macchine d’oblio destinate a naufragare in quella forma di indifferenza che sempre accompagnano le retoriche che perdono di vista la vera natura dei problemi.
Il 25 aprile festeggia la liberazione da quella forma che l’umanità ha assunto sotto il giogo del nazismo. Ma dire ‘liberazione’ significa dire che quel giogo non c’è più, e che occorre ricordarlo ed esecrarlo perché non si ripresenti.
E probabilmente come totalitarismo politico non si ripresenterà più almeno in Europa. Ma siamo sicuri che l’aggettivo ‘politico’ è sufficiente a caratterizzare il nazifascismo, o non dobbiamo piuttosto pensare che la sua anima sia da rintracciare in una sorta di totalitarismo tecnico rispetto a cui quello politico risulta essere solo un fenomeno secondario?
E se l’ipotesi fosse vera non siamo noi, tutti noi, uomini d’oggi, ‘figli di Eichmann’, non di Hitler, simbolo dell’espressione ‘politica’ del totalitarismo, ma proprio di Eichmann, il burocrate, che, come funzionario di un apparato, più o meno come oggi noi tutti siamo nel regime della tecnica, compiva dal ridotto della sua scrivania azioni dagli effetti che oltrepassano l’immaginazione di cui può essere capace un uomo?
Noi figli di Eichmann è il titolo di un libro, ottimamente tradotto da Antonio G. Saluzzi (Giuntina, pagg. 108, lire 15.000) che raccoglie due lettere che Gunther Anders ha scritto al figlio di Eichmann nel 1963 dopo la condanna a morte di suo padre in Israele, e nel 1988 venticinque anni dopo aver atteso una risposta mai arrivata.
Karl Adolf Eichmann, lo sterminatore in stile industriale degli ebrei e degli zingari europei era riuscito, grazie a un passaporto del Vaticano, a riparare in Argentina dove aveva trovato lavoro presso la Mercedes-Benz sotto il falso nome di Ricardo Klement. La moglie, che nel frattempo aveva ripreso il nome da ragazza Veronika Liebl, dopo aver accreditato la versione della fucilazione di suo marito che sarebbe avvenuta a Praga il 30 aprile del 1945, lo raggiunse nel 1951 a Buenos Aires e al figlio Klaus disse che l’uomo che gli avrebbe fatto da secondo padre era lo zio Ricardo Klement. Nel maggio del 1960 due agenti del servizio segreto israeliano sequestrarono Adolf Eichmann mentre usciva dall’officina in cui lavorava e lo condussero in Israele dove si svolse il processo che si concluse con la pena capitale.
Fu dopo quell’esecuzione che Gunther Anders, che nel 1923 si era laureato con Edmund Husserl e che nel 1936, dopo essersi separato dalla moglie Hannah Arendt, andò in esilio negli Stati Uniti, scrisse la prima lettera al figlio di Eichmann, Klaus, allora ventiquattrenne:
“L’origine non è una colpa, come non lo è per i sei milioni di ebrei passati sotto la solerte contabilità di morte di suo padre. Nessuno è artefice della propria origine, neppure lei che non solo venne a sapere quello che lui aveva fatto, non solo delle camere a gas e dei sei milioni. Già questo sarebbe stato sufficiente. No. Oltre a ciò lei dovette venire a sapere che il nuovo padre che aveva cancellato la memoria del suo primo padre altro non era che questo stesso primo padre. Insomma che quest’uomo era proprio Adolf Eichmann”.
“La sua esperienza – così prosegue la lettera – che a prima vista potrebbe sembrare un’esperienza che ha potuto fare solo lei, è un’esperienza che facciamo o almeno dovremmo fare anche noi. E questa è la ragione per cui lei per noi è un simbolo. Perché anche noi negli ultimi due decenni abbiamo vissuto nella convinzione che il mostruoso mondo di ieri da cui traiamo origine ce l’eravamo lasciato alle spalle e l’avevamo sostituito con un altro. E adesso anche noi dobbiamo prendere atto che eravamo vittime di un’illusione: ciò che per noi ha fatto ‘le veci del padre’ è identico al ‘padre’ che aveva dominato due decenni fa.
Oppure, espresso altrimenti: il mostruoso non soltanto è ‘stato’ , ma è stato una introduzione”.
In che senso? Nel senso che Gunther Anders coglie l’essenza del mostruoso nella discrepanza (Gefalle), che allora come ora, esiste tra l’azione che uno compie all’interno di un apparato e l’impossibilità per lui di percepire le conseguenze ultime delle sue azioni. Allora furono sterminati in modo industriale sei milioni di zingari ed ebrei da parte di persone che accettarono questo lavoro come qualsiasi altro lavoro adducendo a giustificazione la pura e semplice ubbidienza agli ordini e la fedeltà all’organizzazione.
Per questo, nei processi ‘contro i crimini verso l’umanità’ gli accusati si sentivano ‘offesi’ , ‘sgomenti’ e qualche volta, come Eichmann ‘inadeguati’ , non perché si trattava di esseri privi di coscienza morale, aberranti psicopatici, o persone ormai disumanizzate, come più volte si è sentito ripetere, ma perché applicavano il principio da loro inaugurato e oggi diventato mentalità aziendale secondo cui essi avevano soltanto collaborato. Se prima di indignarci di fronte a una simile difesa riflettessimo sul fatto che gli autori di quei crimini, o per lo meno molti di loro senza i quali l’ente di gestione criminale non avrebbe potuto funzionare, non si sono comportati nelle situazioni in cui commisero i loro crimini molto diversamente da come erano abituati a comportarsi nell’esercizio del loro lavoro, e come ciascuno di noi è invitato a comportarsi quando inizia il suo lavoro in un apparato, allora comprendiamo perché siamo tutti ‘figli di Eichmann’ .
La divisione del lavoro che vigeva in quell’apparato di sterminio e che oggi vige in ogni struttura aziendale fa sì che, all’interno di un apparato produttivo burocratico, l’operatore, sia esso un lavoratore, un impiegato, un funzionario, un dirigente non ha più niente a che fare con il prodotto finale, anzi gli è tecnicamente impedito, per la parcellizzazione dei processi lavorativi, di intendere realmente l’esito ultimo a cui porterà la sua azione. In questo modo l’operatore non solo diventa irresponsabile, ma addirittura gli è precluso anche il diritto alla cattiva coscienza, perché la sua competenza è limitata alla buona esecuzione di un compito circoscritto indipendentemente dal fatto che, concatenandosi con gli altri compiti altrettanto circoscritti previsti dall’apparato, la sua azione approdi a una produzione di armi o a una fornitura alimentare.
Limitando l’agire a quello che nella cultura tecnologica si chiama button pushing (premere il bottone) la tecnica sottrae all’etica il principio della responsabilità personale che era poi il terreno su cui tutte le etiche tradizionali erano cresciute. E questo perché chi preme il bottone lo preme all’interno di un apparato dove le azioni sono a tal punto integrate e reciprocamente condizionate che è difficile stabilire se chi compie un gesto è attivo o viene a sua volta azionato. In questo modo il singolo operatore è responsabile solo della modalità del suo lavoro, non della sua finalità, e con questa riduzione della sua competenza etica si sopprimono in lui le condizioni dell’agire per cui anche l’addetto al campo di sterminio con difficoltà potrà dire di aver ‘agito’, ma, per quanto orrendo ciò possa apparire, potrà dire di sé che ha soltanto ‘lavorato’.
E questo vale ancora oggi sia per chi lavora nelle grandi fabbriche d’armi americane, sia nei centri studio francesi per le sperimentazioni delle armi nucleari fatte esplodere a Mururoa, sia nelle fabbriche bresciane di mine anti-uomo che per vent’anni continueranno a esplodere in Bosnia.
La mostruosità che l’apparato nazista ha inaugurato e che poi è diventato il paradigma di ogni produzione aziendale è la discrepanza tra la nostra capacità di produzione che è illimitata e la nostra capacità di immaginazione che è limitata per natura e comunque tale da non consentirci più di comprendere e al limite di considerare ‘nostri’ gli effetti che l’inarrestabile progresso tecnico è in grado di provocare.
Quel che si è detto per l’immaginazione vale anche per la percezione. Quanto più si complica l’apparato in cui siamo incorporati, quanto più si ingigantiscono i suoi effetti, tanto meno vediamo, e più ridotta si fa la nostra possibilità di comprendere i procedimenti di cui noi siamo parti e condizioni.
Questo scarto tra produzione tecnica da un lato e immaginazione e percezione umana dall’altro rende il nostro sentimento inadeguato rispetto alle nostre azioni che, al servizio della tecnica, producono qualcosa di così smisurato da rendere il nostro sentimento incapace di reagire. Il troppo grande ci lascia freddi perché il nostro meccanismo di reazione si arresta appena supera una certa grandezza e allora, da analfabeti emotivi, assistiamo oggi al mezzo milione di trucidati in Uganda, ai milioni di bambini che ogni anno muoiono di fame e malattie, come un giorno ai sei milioni di zingari ed ebrei sterminati nei lager.
“E poiché vige questa regola infernale – scrive Gunther Anders – ora il ‘mostruoso’ ha via libera”.
Bene allora celebrare il 25 aprile, ma alla sola condizione di ricordare che se ci siamo liberati dal nazismo come evento storico ancora non ci siamo liberati da ciò che ha reso possibile il nazismo e precisamente di quell’indifferenza di fronte al mostruoso che nasce dalla discrepanza tra ciò che possiamo produrre con la tecnica e ciò di cui possiamo sentirci responsabili ogni volta che ‘irresponsabilmente’ lavoriamo in un apparato che ci esonera dal farci carico degli scopi finali per cui l’apparato è stato costruito.
Non si è ancora fatto sera. Nel senso che la tecnica che il Terzo Reich ha avviato su vasta scala, non ha ancora raggiunto i confini del mondo, non è ancora tecnototalitaria. Ma questo non ci deve consolare e soprattutto non ci deve far considerare il regno (Reich) che ci sta dietro, cioè il ‘terzo’ come qualcosa di unico, di erratico, come qualcosa di atipico per la nostra epoca o per il nostro modo occidentale, perché l’operare tecnico generalizzato a dimensione globale e senza lacuna, con conseguente irresponsabilità individuale, ha preso le mosse da lì. Non riconoscerlo, come è capitato al figlio di Eichmann nei confronti di suo padre, significa, per Gunther Anders, non rendersi conto che
“l’orrore del regno che viene supererà di gran lunga quello di ieri che al confronto apparirà soltanto come un teatro sperimentale di provincia, una prova generale del totalitarismo agghindato di stupida ideologia”.
Gunther Anders offre al figlio di Eichmann una chance per riscattarsi dalla condizione in cui l’ha ridotto suo padre, che è poi la condizione della vittima seimilionieuno. La chance consiste nell’invito a non ripetere che suo padre aveva ‘soltanto collaborato’ rendendo così innocenti tutti quelli che oggi non fanno altro che ‘collaborare’ nel regime totalizzante della tecnica senza riconoscere nel volto ‘buono’ del padre (la tecnica benefica) i tratti dell’autore ‘irresponsabile’ di tanti crimini.
Il figlio di Eichmann non risponde, e allora Gunther Anders venticinque anni dopo torna a scrivergli per dire che se non siamo responsabili della nostra origine, qualunque essa sia, siamo comunque responsabili della fedeltà alla nostra origine. E allora il comandamento, tra l’altro di origine ebraica, “onora il padre e la madre” non vale in tutte le circostanze. Talvolta l’infedeltà può essere una virtù “con l’assicurazione – conclude Gunther Anders – che io non la considero colpevole perché è venuto al mondo come figlio di suo padre, ma la considererei colpevole soltanto qualora lei, confondendo la pigrizia mentale con la pietà, continuasse a restare figlio di suo padre”.
La Repubblica, 22 maggio 1996