Günther Anders | I comandamenti dell’Era Atomica
Il tuo primo pensiero dopo il risveglio sia: “Atomo”
Poiché non devi cominciare un solo giorno nell’illusione che quello che ti circonda sia un mondo stabile. Quello che ti circonda è qualcosa che domani potrebbe essere già semplicemente “stato”; e noi, tu e io e tutti i nostri contemporanei, siamo piú “caduchi” di tutti quelli che finora sono stati considerati tali. Poiché la nostra caducità non significa solo il nostro essere “mortali”; e neppure che ciascuno di noi può essere ucciso. Questo era vero anche in passato. Ma significa che possiamo essere uccisi in blocco, che possiamo essere uccisi come “umanità”. Dove “umanità” non è solo l’umanità attuale, quella che si estende e si distribuisce attraverso le regioni terrestri; ma è anche quella che si estende attraverso le regioni del tempo: poiché, se l’umanità attuale sarà uccisa, si estinguerà con lei anche l’umanità passata, e anche quella futura.
La porta davanti alla quale ci troviamo reca quindi la scritta: “Nulla sarà stato”, e sull’altro verso le parole: “Il tempo è stato solo un interludio”. Ma, in questo caso, il tempo non sarà stato un interludio fra due eternità (come speravano i nostri antenati), ma un interludio fra due nulla: fra il nulla di ciò che, nessuno potendolo ricordare, “sarà stato” come se non fosse mai stato, e il nulla di ciò che non potrà mai essere. E poiché non ci sarà nessuno per distinguere i due nulla, essi si confonderanno in un nulla unico. Ecco quindi la nuova, apocalittica forma di caducità che è la nostra, e accanto alla quale tutto ciò che ha avuto finora questo nome è diventato un’inezia. – E perché questo non ti sfugga, il tuo primo pensiero dopo il risveglio sia: “Atomo”.
La possibilità dell’apocalisse
E questo sia il tuo secondo pensiero dopo il risveglio: “La possibilità dell’apocalisse è opera nostra. Ma noi non sappiamo quello che facciamo”. No, non lo sappiamo; e non lo sanno nemmeno quelli che dispongono e decidono di essa; poiché anch’essi sono come noi; anch’essi sono noi; anch’essi sono radicalmente incompetenti. È vero che questa incompetenza non è colpa loro, ma è piuttosto l’effetto di una circostanza che non si può attribuire a nessuno di loro né di noi: la sproporzione continuamente crescente fra la nostra facoltà produttiva e la nostra facoltà immaginativa, fra ciò che possiamo produrre e ciò che possiamo immaginare. Poiché, nel corso dell’epoca tecnica, il rapporto tradizionale tra fantasia e azione si è rovesciato. Se era naturale, per i nostri antenati, considerare la fantasia “esorbitante”, esuberante, eccessiva, e cioè tale che superava e trascendeva l’ambito del reale, oggi i poteri della nostra fantasia (e i limiti della nostra sensibilità e della nostra responsabilità) sono inferiori a quelli della nostra prassi; per cui si può dire che oggi la nostra fantasia non è all’altezza degli effetti che possiamo produrre.
Non è solo la nostra ragione a essere kantianamente limitata e finita, ma anche la nostra immaginazione e – a maggior ragione – la nostra sensibilità. Possiamo pentirci, tutt’al piú, dell’uccisione di un uomo: è tutto ciò che si può chiedere alla nostra sensibilità; possiamo rappresentarci, tutt’al piú, l’uccisione di dieci uomini: è tutto ciò che si può chiedere alla nostra immaginazione; ma ammazzare centomila persone non presenta piú alcuna difficoltà. E ciò non solo per ragioni tecniche; e non solo perché l’azione si è ridotta a semplice collaborazione e partecipazione, a un “azionare” che rende invisibile l’effetto, ma anche e proprio per una ragione di ordine morale: e cioè perché la strage in massa trascende di gran lunga la sfera di quelle azioni che siamo in grado di rappresentarci concretamente e a cui possiamo reagire sentimentalmente; e la cui esecuzione potrebbe essere inibita dall’immaginazione o dai sentimenti. – Le tue verità successive dovrebbero quindi essere queste: “L’inibizione diminuisce progressivamente con l’ingrandirsi oltre misura dell’azione”; e “L’uomo è minore (piú piccolo) di se stesso”. Questa è la formula della nostra attuale schizofrenia, e cioè del fatto che le nostre varie facoltà operano separatamente, come entità isolate e prive di coordinazione che hanno perso il contatto fra loro.
Ma non è per formulare nozioni definitive e fatalmente disfattistiche su noi stessi che devi formulare queste verità: ma, al contrario, per inorridire della finitezza e per vedere in essa uno scandalo; per sciogliere e allentare quei limiti irrigiditi e trasformarli in barriere da superare; per revocare e abolire la schizofrenia. Naturalmente, finché ti è concesso di sopravvivere, puoi anche metterti a sedere, rinunciare ad ogni speranza e rassegnarti alla tua schizofrenia. Ma se non sei disposto a questo, devi cercare di raggiungere te stesso, di portarti alla tua propria altezza. E ciò significa (questo è il tuo compito) che devi cercare di colmare l’abisso fra le due facoltà: la facoltà produttiva e la facoltà riproduttiva; che devi livellare la differenza di altezza che le separa; o, in altri termini, che devi sforzarti di allargare l’ambito limitato della tua immaginazione (e quello ancora piú ristretto del tuo sentimento), finché sentimento ed immaginazione arrivino ad apprendere e a concepire l’enormità che sei stato in grado di produrre; finché tu possa accettare o respingere ciò che hai inteso. Insomma, il tuo compito consiste nell’allargare la tua fantasia morale.
Non aver paura di aver paura
Il tuo compito successivo è quello di allargare il tuo senso del tempo. Poiché decisivo per la nostra situazione attuale non è solo (ciò che ormai sanno tutti) che lo spazio terrestre si è contratto, e che tutti i luoghi che si potevano considerare lontani fino a ieri sono ormai località viciniori; ma che anche lo spazio temporale si è contratto, e che tutti i punti del nostro sistema temporale si sono avvicinati; che i futuri che potevano sembrare fino a ieri a distanza irraggiungibile, confinano ormai direttamente col nostro presente; che li abbiamo trasformati in comunità attigue. Ciò vale sia per il mondo orientale che per quello occidentale. Per il mondo orientale, poiché il futuro vi è pianificato in una misura senza precedenti; e il futuro pianificato non è piú un futuro “in grembo agli dei”, ma un prodotto in fabbricazione: che, per il fatto di essere previsto, è già visto come parte integrante dello spazio in cui ci si trova. In altri termini: poiché tutto ciò che si fa, lo si fa per quel prodotto futuro, esso getta già la sua ombra sul presente, appartiene già, in un senso pragmatico, al presente stesso. E ciò vale, in secondo luogo (ed è il caso che ci riguarda), per gli uomini del mondo occidentale attuale; poiché questo, anche senza proporselo direttamente, opera già sui futuri piú remoti: decidendo, ad esempio, della salute o della degenerazione, e forse dell’esistenza o dell’inesistenza dei suoi nipoti. E non importa che esso, o, piuttosto, che noi, si miri consapevolmente a questo risultato: poiché ciò che conta, da un punto di vista morale, è soltanto il fatto. E dal momento che il fatto – l'”azione a distanza” non pianificata – ci è noto, continuando ad agire come se non sapessimo quello che facciamo commettiamo un delitto colposo.
E il tuo pensiero successivo dopo il risveglio sia: “Non esser vile, abbi il coraggio di aver paura!
Astringiti a fornire quel tanto di paura che corrisponde alla grandezza del pericolo apocalittico!” Anche e proprio la paura fa parte dei sentimenti che siamo incapaci o riluttanti a fornire; e dire che abbiamo già paura, che ne abbiamo anche troppa, e che viviamo, anzi, nell'”epoca della paura”, è una frase priva di senso, che, se non è diffusa ad arte col preciso intento di ingannare, è pur sempre uno strumento ideale per impedire l’avvento di una paura veramente adeguata all’enormità del pericolo, e per renderci indolenti e passivi. – È vero piuttosto il contrario: che viviamo in un’epoca refrattaria all’angoscia e assistiamo quindi passivamente all’evoluzione in corso. Perciò vi è tutta una serie di ragioni (a prescindere dai limiti della nostra capacità di sentire), che non è possibile enumerare qui (cfr. GÜENTHER ANDERS, Die Antiquierheit des Menschen, C. H. Beksche Verlagsbuchhandlung, 264 ss.). Ma non possiamo fare a meno di menzionarne una, a cui gli eventi del recente passato conferiscono un’attualità e un’importanza particolare. Si tratta della mania delle competenze, e cioè della persuasione, inculcata in noi dalla divisione del lavoro, che ogni problema rientri in un determinato ambito giuridico in cui non abbiamo il diritto di interferire e di dire la nostra. Cosí, per esempio, il problema atomico rientra nella competenza dei politici e dei militari. E questo “non aver diritto” si trasforma subito e automaticamente in “non aver bisogno”. In altri termini: non c’e’ bisogno che mi occupi dei problemi di cui non sono tenuto e autorizzato ad occuparmi. E posso fare a meno di aver paura, poiché la paura stessa viene “sbrigata” in un altro ressort. Perciò ripeti dopo il tuo risveglio: “Res nostra agitur”. Il che significa due cose: 1) che la cosa ci riguarda perché ci può colpire; e 2) che la pretesa di alcuni a una competenza di carattere esclusivo è infondata, perché siamo tutti, in quanto uomini, ugualmente incompetenti.
Credere che in puncto “fine del mondo” possa aver luogo una competenza maggiore o minore, e che quelli che (in seguito a una divisione casuale del lavoro, delle responsabilità e dei compiti) sono diventati politici o militari, e che si occupano della fabbricazione e dell'”impiego” della bomba piú attivamente o piú direttamente di noi, siano perciò piú “competenti” di noi, è una follia pura e semplice. Chi cerca di farcelo credere (che si tratti di questi pretesi competenti o di altri) dimostra solo la sua incompetenza morale. Ma la nostra situazione morale finisce per diventare intollerabile quando quei pretesi competenti (che sono incapaci di vedere i problemi se non in termini tattici) pretendono di insegnarci che non abbiamo nemmeno il diritto di aver paura, e tanto meno di porci problemi morali: dal momento che la coscienza morale implica una responsabilità, e la responsabilità è affar loro, affare dei competenti; con la nostra paura, con la nostra angoscia morale, invaderemmo – secondo loro – un campo di loro competenza. In conclusione: devi rifiutarti di riconoscere un ceto privilegiato, un “clero dell’apocalisse”: un gruppo che si arroghi una competenza esclusiva per la catastrofe che sarebbe la catastrofe di tutti. Se ci è lecito variare il detto rankiano (“ugualmente vicini a Dio”), potremmo dire che “ognuno di noi è ugualmente vicino alla fine possibile”. E perciò ognuno di noi ha lo stesso diritto, e lo stesso dovere, di elevare ad alta voce il suo monito. A cominciare da te.
Contro la discussione di carattere tattico
Non solo la nostra immaginazione, la nostra sensibilità e la nostra responsabilità vengono meno di fronte alla “cosa”: ma non siamo neppure in grado di pensarla. Poiché sotto qualunque categoria cercassimo di sussumerla, la penseremmo in modo sbagliato: per il semplice fatto di ridurla sotto una determinata categoria o classe di concetti, ne faremmo un oggetto fra gli altri e la minimizzeremmo. Anche se può esistere in molti esemplari, è unica nel suo genere, non appartiene a nessuna specie: è, quindi, un monstrum. Disgraziatamente è proprio questa (“mostruosa”) inclassificabilità a portarci a trascurare la cosa, o a dimenticarla addirittura. Tendiamo a considerare come inesistente tutto ciò che non siamo in grado di classificare. Ma nella misura in cui si parla della cosa (ciò che peraltro non avviene ancora nella conversazione quotidiana fra gli uomini), tendiamo a classificarla (poiché è la soluzione piú comoda e meno inquietante) come un’arma, o piú in generale come un mezzo. Ma essa non è un mezzo, poiché è essenziale alla natura del mezzo risolversi nello scopo raggiunto e scomparire, come la via nella meta. Il che non accade in questo caso. Poiché anzi l’effetto inevitabile (e perfino l’effetto consapevolmente ricercato) della cosa è maggiore di ogni scopo pensabile; poiché questo, per forza di cose, scompare e si annulla nell’effetto. Scompare e si annulla insieme al mondo in cui c’erano ancora “fini e mezzi”. Ed è chiaro che una cosa che distrugge, con la sua sola esistenza, lo schema “fini e mezzi”, non può essere un mezzo. Perciò la tua massima successiva sia: “Nessuno mi farà credere che la bomba sia un mezzo”. E dal momento che non è un mezzo come i milioni di mezzi che compongono il nostro mondo, non puoi tollerare che sia prodotta come se si trattasse di un frigorifero, di un dentifricio e nemmeno di una pistola, per costruire la quale nessuno ci interpella. – E come non devi credere a quelli che la chiamano un “mezzo”, non devi credere nemmeno ai persuasori piú sottili che sostengono che la cosa serve esclusivamente alla “dissuasione”, ed è prodotta, cioè, solo allo scopo di non essere usata. Poiché non si sono mai visti oggetti il cui impiego si esaurisse nel loro non essere usati; o, tutt’al piú, vi sono stati oggetti che, in determinati casi, non furono usati (e cioè quando la minaccia del loro uso, spesso già avvenuto, si era già rivelata sufficiente). Del resto, non dobbiamo mai dimenticare che la cosa è già stata “usata” realmente (e senza giustificazione adeguata) a Hiroshima e Nagasaki. Infine, non dovresti permettere che l’oggetto il cui effetto supera ogni immaginazione sia classificato in modo falso con un’etichetta sciocca e minimizzante.
Quando l’esplosione di una bomba H è definita ufficialmente “azione Opa” o “azione nonnino”, non è solo una manifestazione di cattivo gusto, ma anche un inganno consapevole. Inoltre devi opporti e ribellarti tutte le volte che la cosa (la cui semplice presenza è già una forma di uso) è discussa da un punto di vista puramente “tattico”. Questo tipo di discussione è assolutamente inadeguato, poiché l’idea di potersi servire tatticamente delle armi atomiche presuppone l’esistenza di una situazione politica indipendente dal fatto stesso della loro esistenza. Ma questa è una supposizione affatto irreale, poiché la situazione politica (l’espressione “era atomica” è perfettamente giustificata) è definita dal fatto delle armi atomiche. Non sono le armi atomiche a presentarsi, fra le altre cose, sulla scena politica, ma sono gli avvenimenti politici a svolgersi all’interno della situazione atomica; e la maggior parte delle azioni politiche sono passi intrapresi all’interno di questa situazione. I tentativi di utilizzare la possibilità della fine del mondo come una pedina sullo scacchiere della politica internazionale, indipendentemente o meno dalla loro astuzia, sono segni di accecamento. L’epoca delle astuzie è finita. Perciò devi farti un principio di sabotare tutte le analisi in cui i tuoi contemporanei cercano di esaminare il fatto del pericolo atomico da un punto di vista puramente tattico, e di portare la discussione sul punto essenziale: sulla minaccia che pesa sull’umanità di un’apocalisse provocata da lei stessa; e fallo anche a costo di essere deriso come persona priva di realismo politico. In realtà, ad essere poco realisti, sono proprio i puri tattici, che vedono le armi atomiche solo come mezzi, e che non capiscono che i fini che cercano o pretendono di raggiungere mediante la loro tattica, sono completamente svuotati di significato dall’uso (anzi, dalla semplice possibilità dell’uso) di questi mezzi.
La decisione è già stata presa
Non lasciarti ingannare da chi sostiene che ci troveremmo ancora (e ci troveremo forse sempre) nello stadio sperimentale, nello stadio delle esperienze di laboratorio. Poiché questa è solo una frase. E non solo perché abbiamo già gettato delle bombe (ciò che molti stranamente dimenticano), e l’epoca “in cui si fa sul serio” è quindi già cominciata da un pezzo; ma anche perché (ed è la ragione piú importante) non è possibile parlare, in questo caso, di esperimenti. La tua ultima massima sarà, quindi, questa: “Per quanto felice possa essere l’esito degli esperimenti, è lo sperimentare stesso che fallisce”. E fallisce perché si può parlare di esperimenti solo dove l’evento sperimentale non esce e non spezza l’ambito isolato e circoscritto del laboratorio; condizione che non si ritrova in questo caso. Poiché fa proprio parte dell’essenza della cosa, e dell’effetto ricercato della maggior parte degli esperimenti attuali, accrescere il piú possibile la forza esplosiva e il fall-out radioattivo dell’arma; e cioè, per quanto contraddittoria possa essere la formula, provare fino a che punto si possa superare ogni limite sperimentale. Ciò che è prodotto dai cosiddetti “esperimenti” non rientra piú, quindi, nella classe degli effetti sperimentali, ma nello spazio reale, nell’ambito della storia (dove si trovano, ad esempio, i pescatori giapponesi contagiati dal fall-out) e perfino della storia futura, poiché è il futuro stesso ad essere investito (ad esempio la salute delle prossime generazioni), e si può quindi dire che il futuro, secondo la formula filosofica del libro di Jungk, “e’ già cominciato”. È quindi del tutto illusoria e ingannevole l’affermazione a cui si ricorre cosí volentieri, che l’impiego della cosa non è stato ancora deciso. – È vero, invece, che la decisione è già avvenuta attraverso i cosiddetti esperimenti. Fa quindi parte dei tuoi doveri denunciare e distruggere l’apparenza che noi si viva ancora nella “preistoria” atomica: e chiamare per nome ciò che è.
Siamo manipolati dai nostri apparecchi
Ma tutti questi postulati e questi divieti si possono condensare in un solo comandamento: “Abbi solo quelle cose le cui massime potrebbero diventare le tue massime e quindi le massime di una legislazione universale”. È un postulato che può lasciare interdetti: l’espressione “massime delle cose” può sembrare, a tutta prima, paradossale. Ma solo perché strano e paradossale è il fatto stesso designato dall’espressione. Ciò che vogliamo dire è solo che, vivendo in un mondo di apparecchi, siamo soggetti al trattamento dei nostri apparecchi (e sempre in un modo determinato dalla natura degli apparecchi). Ma poiché, d’altra parte, siamo gli utenti di questi apparecchi, e trattiamo il nostro prossimo per mezzo di essi, finiamo per trattare il nostro prossimo, anziché secondo i nostri principi, secondo i modi di operare degli apparecchi, e cioè, in certo qual modo, secondo le loro massime. Il postulato esige che ci rendiamo conto di queste massime come se fossero le nostre (dal momento che lo sono effettivamente e di fatto); che la nostra coscienza morale, anziché dedicarsi all’esame di se stessa (che è ormai un lusso privo di conseguenze), si dedichi a quello degli “impulsi nascosti” e dei “principi” dei nostri apparecchi. Esaminando scrupolosamente la propria anima alla maniera tradizionale, un ministro atomico non vi troverebbe, probabilmente, nulla di particolarmente peccaminoso; ma esaminando la “vita intima” dei suoi aggeggi, vi troverebbe niente meno che l’erostratismo, e un erostratismo su scala cosmica; poiché erostratico è il modo in cui le armi atomiche trattano l’umanità. Solo quando ci saremo abituati a questa nuova forma di azione morale (“l’analisi del cuore degli apparecchi”), avremo qualche motivo di sperare che, dovendo decidere del nostro essere o non-essere, sapremo decidere per la conservazione del nostro essere.
Impossibilità di non-potere
Il tuo principio successivo sia: “Non credere che quando saremo riusciti a compiere il primo passo, la cessazione dei cosiddetti esperimenti, il pericolo si possa considerare passato, e che noi si possa dormire sugli allori”. Poiché la fine degli esperimenti non significa ancora quella della produzione di bombe e tanto meno la distruzione delle bombe e dei tipi che sono già stati sperimentati e che sono pronti per l’uso. Vi possono essere varie ragioni per una cessazione degli esperimenti: uno stato vi si può risolvere, ad esempio, perché ogni ulteriore esperimento sarebbe superfluo, dal momento che la produzione dei tipi sperimentati o la riserva di bombe esistenti bastano già per ogni eventualità; insomma, perché sarebbe assurdo e antieconomico uccidere l’umanità piú di una volta. Non credere nemmeno che avremmo diritto di stare tranquilli una volta che fossimo riusciti ad eseguire il secondo passo (l’arresto della produzione di bombe A e H), o che potremmo metterci a sedere dopo il terzo passo (la distruzione di tutte le riserve). Anche in un mondo completamente “pulito” (e cioè in un mondo dove non ci fossero piú bombe A o H, e dove quindi, apparentemente, non “avremmo” bombe), continueremmo, tuttavia, ad averle, poiché sapremmo come fare per produrle. Nella nostra epoca contrassegnata dalla riproduzione meccanica non si può dire che un oggetto possibile non esista, poiché ciò che conta non sono gli oggetti fisici reali, ma i loro tipi, i loro “modelli”. Anche dopo aver eliminato tutti gli oggetti fisici che hanno a che fare con la produzione delle bombe A o H, l’umanità potrebbe cadere vittima dei loro disegni. Si potrebbe concludere, allora, che bisogna distruggere questi ultimi. Ma anche questo è impossibile, poiché i modelli sono indistruttibili come le idee di Platone; in un certo senso sono addirittura la loro realizzazione diabolica. Insomma, anche se ci riuscisse di distruggere fisicamente i fatali apparecchi e i loro “modelli”, e di salvare cosí la nostra generazione: anche questa sarebbe solo una pausa, sarebbe solo una dilazione. La produzione potrebbe essere ripresa ogni giorno, il terrore rimane, e dovrebbe restare, quindi, anche la tua paura.
D’ora in poi l’umanità dovrà vivere, per tutta l’eternità, sotto l’ombra minacciosa del mostro. Il pericolo apocalittico non si lascia eliminare una volta per tutte, con un atto solo, ma solo con una serie indefinita di atti quotidiani. Dobbiamo comprendere, insomma (e questa comprensione finisce di mostrarci il carattere fatale della nostra situazione), che la nostra lotta contro la permanenza fisica degli ordigni e la loro costruzione, sperimentazione ed accumulazione rimane, in definitiva, insufficiente. Poiché la meta che dobbiamo raggiungere non può consistere nel non-avere la cosa, ma solo nel non adoperarla mai, anche se non possiamo fare in modo di non averla; nel non adoperarla mai, anche se non ci sarà mai un giorno in cui non potremmo adoperarla. Ecco quindi il tuo compito: far capire all’umanità che nessuna misura fisica, nessuna distruzione di oggetti materiali potrà mai rappresentare una garanzia assoluta e definitiva, e che dobbiamo, invece, essere fermamente decisi a non compiere mai quel passo, anche se sarà, in un certo senso, sempre possibile. Se non riusciamo – sí, tu, tu ed io – a infondere questa coscienza e questa convinzione nell’umanità, siamo perduti.
Consiglio quest’ottimo libro di A. Cernicchiaro “Gunther Anders la Cassandra della filosofia”
Grazie mille per il suggerimento!